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CO, La Verna, I La Verna (Diario), paragrafo 7, pp 127-133:

22 Settembre (La Verna) 7. «Francesca B. O divino santo Francesco pregate per me peccatrice. 20 Agosto 189...»

Me ne sono andato per la foresta con un ricordo risentendo la prima ansia. Ricordavo gli occhi vittoriosi, la linea delle ciglia: forse mai non aveva saputo: ed ora la ritrovavo al termine del mio pellegrinaggio che rompeva in una confessione così dolce, lassù lontano da tutto. Era scritta a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco: (dalle inferriate sale l’alito gelido degli antri). A metà, davanti 5

alle semplici figure d'amore il suo cuore si era aperto ad un grido ad una lacrima di passione, così il destino era consumato!

Antri profondi, fessure rocciose dove una scaletta di pietra si sprofonda in un’ombra senza memoria, ripidi colossali bassorilievi di colonne nel vivo sasso: e nella chiesa l’angiolo, purità dolce che il giglio divide e la Vergine eletta, e un cirro azzurreggia nel cielo e un’anfora classica rinchiude la terra ed i gigli: che appare 10

nello scorcio giusto in cui appare il sogno, e nella nuvola bianca della sua bellezza che posa un istante il ginocchio a terra, lassù così presso al cielo:

... stradine solitarie tra gli alti colonnarii d’alberi contente di una lieve stria di sole ... finché io là giunsi indove avanti a una vastità velata di paesaggio una divina dolcezza notturna mi si discoprì nel mattino, 15

tutto velato di chiarìe il verde, sfumato e digradante all’infinito: e pieno delle potenze delle sue profilate catene notturne. Caprese, Michelangiolo, colei che tu piegasti sulle sue ginocchia stanche di cammino, che piega che piega e non posa, nella sua posa arcana come le antiche sorelle, le barbare regine antiche sbattute nel turbine del canto di Dante, regina barbara sotto il peso di tutto il sogno umano

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Il corridoio, alitato dal gelo degli antri, si veste tutto della leggenda Francescana. Il santo appare come l’ombra di Cristo, rassegnata, nata in terra d’umanesimo, che accetta il suo destino nella solitudine. La sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo. Un caro santo italiano. Ora hanno rivestito la sua cappella scavata nella viva roccia. Corre tutt’intorno un tavolato di noce dove con malinconia potente un frate... da Bibbiena intarsiò mezze 25

figure di santi monaci. La semplicità bizzarra del disegno bianco risalta quando l’oro del tramonto tenta versarsi dall’invetriata prossima nella penombra della cappella. Acquistano allora quei sommarii disegni un fascino bizzarro e nostalgico. Bianchi sul tono ricco del noce sembrano rilevarsi i profili ieratici dal breve paesaggio claustrale da cui sorgono decollati, figure di una santità fatta spirito, linee rigide enigmatiche di grandi anime ignote. Un frate decrepito nella tarda ora si trascina nella penombra dell’altare, silenzioso nel 30

saio villoso, e prega le preghiere d’ottanta anni d’amore. Fuori il tramonto s’intorbida. Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicenti lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere

dei castelli del Casentino. Intorno è un grande silenzio un grande vuoto nella luce falsa dai freddi bagliori che ancora guizza sotto le strette della penombra. E corre la memoria ancora alle signore gentili dalle bianche 35

braccia ai balconi laggiù: come in un sogno: come in un sogno cavalleresco!

Esco: il piazzale è deserto. Seggo sul muricciolo. Figure vagano, facelle vagano e si spengono: i frati si congedano dai pellegrini. Un alito continuo e leggero soffia dalla selva in alto, ma non si ode né il frusciare della massa oscura né il suo fluire per gli antri. Una campana dalla chiesetta francescana tintinna nella tristezza del chiostro: e pare il giorno dall’ombra, il giorno piagner che si muore.

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Questa lunga pagina del Diario rappresenta l’arrivo al santuario della Verna e la contemplazione del luogo mistico a cui era diretto il pellegrinaggio di Campana. Il paragrafo si apre con la lettura dell’iscrizione che una certa «Francesca B.» ha lasciato nell’«Agosto» (riga 1) di qualche anno prima – la data che si trova nel Più lungo giorno a pagina 46 riporta al «15 luglio 190…». Per quale motivo è stata modificata? La ragazza è definita «la prima ansia», come a dire “la prima fiamma”, la prima ragazza amata dal poeta che la ricorda benissimo e non vuole che venga identificata da altri, perciò la protegge – a suo modo – cambiando la data dell’iscrizione rivelatrice. Dino non sapeva che anche lei avesse compiuto il suo stesso cammino di espiazione, lasciandone una traccia tangibile al santuario «a metà del corridoio dove si svolge la Via Crucis della vita di S. Francesco», santo caro a lui così come a Dante. Infatti, nel canto XI del Paradiso il famoso frate domenicano San Tommaso d’Aquino, per onorare indirettamente il capostipite del proprio ordine, tesse le lodi e racconta la vita dell’iniziatore dell’altro grande ordine monastico, appunto San Francesco d’Assisi. Dopo aver narrato di come il suo amore per una donna disprezzata da tutti, la «Povertà» (Pd XI 74), lo avesse indotto ad abbandonare la casa paterna e ad intraprendere un cammino ostico per far riconoscere dal pontefice il proprio ordine religioso, arriva all’ultima tappa della sua vita:

nel crudo sasso intra Tevero e Arno da Cristo prese l’ultimo sigillo,

che le sue membra due anni portarno. (Pd XI 106-108)

La terzina racconta che sullo stesso monte della Verna, in cui ora si trova Campana a pregare, Francesco aveva ricevuto «l’ultimo sigillo», ovvero le stigmate come Gesù – più oltre il marradese lo definisce proprio «l’ombra di Cristo» (r. 22) – e due anni dopo era morto. San Francesco è una figura cruciale nella Commedia, esempio di povertà e carità, di amore per la natura nella sua purezza, e – come dice Campana – «la sua rinuncia è semplice e dolce: dalla sua solitudine intona il canto alla natura con fede: Frate Sole, Suor Acqua, Frate Lupo» (rr. 22-24), è tutto qui. In questo momento della sua vita il poeta ha deciso di compiere lo stesso percorso di purificazione fisica e spirituale che il santo ha portato avanti nel corso della sua esistenza, ritrovando per caso in cima alla montagna ascesa il ricordo della prima donna che ha amato – la quale, non a caso porta il nome “parlante” di

«Francesca» – e il paesaggio innesca una serie di memorie che abbiamo già incontrato nel paragrafo 9 della Notte.

In effetti, la parte centrale del brano è la copia quasi perfetta di quel passo – tanto che per l’analisi rimando al punto 6 dell’analisi – in cui viene nominato lo stesso «Dante» (r. 19), insieme a «Michelangiolo» (r. 17) e alle «barbare regine antiche» (r. 18) del canto V dell’Inferno. Inoltre, è da segnalare poco sopra – esattamente prima della riga di puntini di sospensione che, in questo frangente, indicano un momento di pausa e di riflessione di fronte allo spettacolo naturale e religioso a cui assiste Campana – un’altra ripetizione, in questo caso della citazione del «sogno» e della nuvola bianca del capitolo XXIII della Vita Nuova in cui l’Alighieri ha la visione di morte di Beatrice, che viene portata in cielo proprio tramite «una nebuletta bianchissima» (VN XXIII, 7) e allo stesso tempo porta in «testa» un «bianco velo» (VN XXIII, 8).

Quando «il sogno è al termine» (r. 32), finalmente Dino guarda oltre il santuario e le sue immagini mistiche, oltre la montagna della Verna e il suo significato religioso, verso i «castelli del Casentino» (r. 34) dove anche Dante secoli prima aveva dimorato durante il suo esilio. La vista di quel luogo riporta alla mente «la memoria» delle «signore gentili dalle braccia bianche […] come in un sogno cavalleresco» (rr. 35-36), lo stesso che si ritrova nella «fantasia cavalleresca» (T, pp. 67 e 195) di una nota del Taccuino Mattacotta in cui il canto V dell’Inferno è citato per spiegare l’impiego di una simile immagine. Pure in questo paragrafo della Verna il ricordo va alle «donne antiche è cavalieri» di If V 71, ma anche a tutta la tradizione letteraria cavalleresca esplicitamente chiamata in causa dall’aggettivo «gentili» (r. 35) e dalla caratteristica delle «bianche braccia» (r. 36) appartenenti alle «donne», elemento tipico delle descrizioni poetiche del filone dell’amor cortese, in cui si è cimentato il “sommo poeta” agli albori della sua carriera di scrittore.

Nelle ultime righe del paragrafo si susseguono alcune citazioni dantesche più o meno scoperte dal punto di vista lessicale e figurativo.

 Oltre ai termini «deserto», «vagano» e «si spengono» che innescano una serie di reminiscenze di cui abbiamo già discusso, va notata la parola «facelle» (r. 37) che possiamo ritrovare in quattro punti della Commedia sia al singolare sia al plurale: in Pg VIII 89, in Pd IX 29, in Pd XVIII 70 e in Pd XXIII 94. In questi casi si riferisce rispettivamente alle «tre facelle», ovvero alle tre stelle che rappresentano le tre virtù teologali – fede, speranza e carità; alla scintilla d’incendio che indica metaforicamente lo spietato tiranno Ezzelino III da Romano già visto in If XII 109-110; alla «giovial facella» che è la stella di Giove che brilla in cielo; infine, alla luce ardente dell’Arcangelo Gabriele che era sceso presso la Vergine Maria nel momento dell’Annunciazione. In tutti questi casi il termine si riferisce a luci infuocate e a fiammelle che non esistono di per sé sole, ma stanno a indicare qualcosa d’altro, metafore o simboli

carichi di significato, proprio come nel passo campaniano in cui «vagano» così come le «figure» lontane che il poeta osserva dall’alto del monte seduto «sul muriccolo» del santuario. Quelle piccole fiaccole si muovono e «si spengono» a distanza, ma sono le persone in carne e ossa ad accenderle e a portarle in giro, perciò è a loro che Campana guarda realmente e pensa nella solitudine del suo pellegrinaggio compiuto.

 «Pellegrini» (r. 38), infatti, è la parola successiva che è bene notare: essa rimanda al capitolo XL della Vita Nuova e al sonetto Deh peregrini che pensosi andate. E non solo perché il “pellegrino” per eccellenza, molti secoli prima di Dino, è proprio Dante, ma perché insieme vengono riportate alla mente le figure che lui stesso prende ad esempio, l’eroe virgiliano Enea e San Paolo40, a cui è da aggiungere Orfeo41, il modello per il marradese stando al titolo della sua opera. Insomma, tutti costoro hanno intrapreso cammini tortuosi e intricati, raramente tentati da altri prima, mentre si può dire che Dino appartenga a un genere più comune di pellegrino, che compie il suo percorso di ascesa spirituale sulle orme di grandi personaggi del passato come San Francesco.

 Se «alito» (r. 38) compare due volte soltanto nel poema – la prima per indicare l’olezzo infernale in If XVIII 107 e la seconda in riferimento all’«alito di Dio» in Pd XXIII 114 che è più vivo man mano che si sale lungo i cieli del Paradiso verso l’Empireo – si incontra ancora una volta l’aggettivo «leggero» e soprattutto la locuzione «selva oscura» di If I 2, stavolta separata nella «selva in alto» e nel «frusciare della massa oscura». Disseminare in poche righe un alto numero di termini e allusioni dantesche ha lo scopo di nobilitare il passo dandogli un ascendente tanto eccelso, ma anche di mantenere alta la memoria del fiorentino già richiamata alla mente poco prima attraverso la citazione del nome: l’immagine di Dante non deve mai essere dimenticata per non spezzare l’atmosfera mistica ed estatica e, soprattutto, per non creare un calo di tensione nella scrittura.

 L’ultima frase da «Una campana» a «si muore» (rr.39-40) fa tornare ancora una volta alle prime due terzine del canto VIII del Purgatorio – stavolta più ai versi 5 e 6:

Era già l’ora che volge il disio ai navicanti e ‘ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici addio;

40 Entrambi sono richiamati dall’Alighieri come suoi predecessori nel viaggio nell’aldilà nel canto II dell’Inferno. Infatti

Enea è citato tramite la perifrasi «ch’è fu dell’alma Roma e di suo impero / nell’empireo ciel per padre eletto» (If II 20- 21) mentre di San Paolo si dice «Andovvi poi lo Vas d’elezione, / per recarne conforto a quella fede ch’è principio alla vita di salvazione» (If II 28-30). Dante si sente indegno di compiere un tale cammino e obbietta: «Ma io perché venirvi? o chi ‘l concede? / Io non Enea, io non Paolo sono: / me degno a ciò né io né altri crede» (If II 31-33). Tuttavia si tratta soltanto di una forma di modestia che il grande autore della Commedia attribuisce all’umile personaggio Dante.

41 La storia del musico Orfeo e della sua discesa negli Inferi per riportare in vita l’amata Euridice è narrata nelle

e che lo novo peregrin d’amore punge, se ode squilla di lontano

che paia il giorno pianger che si more; (Pg VIII 1-6)

Ancora una volta, risulta importante l’inizio di questo canto in cui torna il termine incontrato poco fa «peregrin» in coppia con «amore» – in fin dei conti, sia Dante sia Campana sono due pellegrini «d’amore» nella vita come nelle opere – ma, soprattutto, dove la «squilla» dantesca, ossia la «campana» di Dino «tintinna» – si noti il meraviglioso verbo onomatopeico che riproduce esattamente il suono dei rintocchi – provocando una sensazione triste nell’animo del poeta che viene trasposta al «chiostro» in cui si trova. Secondo Scorrano42, il rintoccare della «campana» che segna la fine della giornata e l’inizio della sera provoca due sensazioni diverse ai marinai e agli esuli danteschi rispetto a quella dei Canti Orfici: nel primo caso si tratta di nostalgia di casa e dei propri cari, nel secondo di una profonda «tristezza» data dalla fine del «sogno», quando «l’anima improvvisamente sola cerca un appoggio una fede nella triste ora». Quell’appoggio è cercato nelle «figure» e nelle «facelle» che il marradese vede in lontananza, ma esse «si spengono» e lui rimane solo ancora una volta, solo con i tocchi della campana nel «giorno […] che si more».