O città fantastica piena di suoni sordi... Mentre sulle scalee lontano io salivo davanti A te infuocata in linee lambenti di fuoco Nella sera gravida, tra i cipressi.
Salivo con un’amica giovane grave 5
Che sacrificava dai primi anni
All’amore malinconico e suicida dell’uomo: Ridevano giù per le scale
Ragazzi accaniti briachi di beffa
Sopra un circolo attorno ad un soldo invisibile. 10
Il fiume mostruoso luceva torpido come un serpente a squame; Salivamo, essa oppressa e anelante,
Io cogli occhi rivolti alla funebre febbre incendiaria Che bruciava te, o nero naviglio alberato di torri Nell’ultime febbri dei tempi remoti o città: 15
Odore amaro d’alloro ventava sordo dall’alto Attorno al bianco chiostro sepolcrale: Ma bella come te, battello bruciato tra l’alto Soffio glorioso del ricordo, gridai o città, O sogno sublime di tendere in fiamme 20
I corpi alla chimera non saziata
Amarissimo brivido funebre davanti all’incendio sordo lunare.
e di versioni originarie o alternative di altri componimenti già pubblicati. «A più riprese e in tempi diversi […] Campana dovette ricopiarvele per propria memoria» e la «probabile datazione» secondo il curatore Enrico Falqui è tra il 1908 e il 1914 – per altri studiosi tra 1906/1907 e 1912 – (OC, pp. 210-211).
Il presente componimento si lega strettamente a Notturno teppista, pubblicato sulla rivista romagnola «Teda» nel numero 4-5 del novembre/dicembre 1922 e, successivamente, nell’edizione Vallecchi del 1928 dei Canti Orfici con introduzione di Bino Binazzi insieme a Vecchi versi, di cui è una rielaborazione – edita quest’ultima poesia sulla «Riviera ligure» nel marzo 1916. Campana scrive l’ennesimo tributo a Firenze, non nominata, ma intuita grazie al nome della chiesa fiorentina nel titolo e definita «città fantastica piena di suoni sordi» (v. 1). È sera, il poeta sta salendo le «scalee» (v. 2) dell’abazia di San Miniato insieme a «un’amica giovane grave» (v. 5) che ricorda le donne già incontrate nella Notte degli Orfici, in particolare la «matrona» o forse la sua «ancella» (cfr. CO, La
Notte, I. La Notte, paragrafo 6, pp. 22 e 24): insomma, l’accompagnatrice nella passeggiata in cima a
Firenze è una prostituta, una «sacerdotessa orientale» (cfr. CO, La Notte, I. La Notte, paragrafo 8, p. 25), simile a quelle della Notte, «Che sacrificava dai primi anni / All’amore malinconico e suicida dell’uomo» (vv. 6-7). Come sempre, il paesaggio descritto rispecchia lo stato d’animo interiore del poeta perciò l’Arno diventa «fiume mostruoso» che «luceva torpido come un serpente a squame» (v. 11) e la città un «nero naviglio alberato» (v. 14) bruciato «nell’ultime febbri dei tempi remoti» (v. 15). In cima a Firenze assieme a una donna di dubbia moralità Dino sente un «amarissimo brivido funebre» (v. 22) e grida con tutto il fiato che ha in corpo il suo «sogno sublime di tendere in fiamme / I corpi alla chimera non saziata» (vv. 20-21). È lei, sempre lei, la Chimera-poesia che riempie i suoi pensieri, specialmente osservando una città come quella piena di storia, di letteratura, d’arte visibili anche nel suo stesso panorama naturale e cittadino in una serata luminosa «davanti all’incendio sordo lunare» (v. 22). Si noti, per inciso, che la «chimera» (v. 21) viene definita «non saziata» (v. 21) con il solito richiamo alla Beatrice divoratrice del cuore nel sogno di Dante in VN III, 4.
Un «odore amaro d’alloro ventava sordo dall’alto» (v. 16) contribuendo a completare le pungenti sensazioni del poeta «attorno al bianco chiostro sepolcrale» (v. 17). Il verbo “ventare” utilizzato da Campana in questo verso fortemente allitterato è un neologismo dantesco che si ritrova in due punti della Commedia, ossia in If XVII 117 e in Pg XVII 68:
Ella sen va notando lenta lenta: rota e discende, ma non me n’accorgo
se non che al viso e di sotto mi venta. (If XVII 115-117) Così disse il mio duca, e io con lui
volgemmo i nostri passi ad una scala; e tosto ch’io al primo grado fui, senti’mi presso quasi un mover d’ala e ventarmi nel viso e dir: «Beati
Nel primo passo Dante e Virgilio sono in groppa al mostro infernale Gerione che li sta trasportando in volo dal settimo all’ottavo cerchio. Il pellegrino è spaventato e si aggrappa saldamente alla sua guida, così facendo non vede il baratro su cui cala la belva né nient’altro, ma ode solamente i lamenti dei dannati che sono al di sotto di loro e, soprattutto, percepisce sul volto lo spostamento del vento provocato dalle ali mostruose che “nuotano” nell’aria. Nel secondo brano i due poeti stanno salendo la «scala» che li porterà dalla terza alla quarta cornice purgatoriale prima che il sole tramonti e siano costretti a fermarsi per la notte, ma, non appena Dante mette piede sul primo gradino, sente un leggero vento sul «viso» causato dal canto dei nuovi penitenti – ovvero gli accidiosi, come scoprirà in seguito – che intonano la settima beatitudine di Matteo: «Beati i pacifici, perché saranno chiamati figli di Dio». In entrambe le occorrenze il verbo “ventare” indica una sensazione di movimento d’aria percepita sul volto – nel primo caso in senso letterale, nel secondo provocato dall’intonazione di un canto e, quindi, dall’emissione di voce dalla bocca – mentre nel componimento campaniano si riferisce a un «odore amaro d’alloro» – si noti che questa è proprio la pianta dei poeti! – che viene portato al naso dell’autore dalla brezza che spira «dall’alto», ossia dalla sommità della collina dove si trova l’abbazia di San Miniato. Inoltre, il vento che trasporta con sé quel forte profumo di pianta aromatica e insieme di poesia e letteratura – vista la natura della vegetazione in questione – viene definito «sordo»: proprio come Dante nella prima citazione, neanche Dino vede nulla davanti a sé – d’altra parte, il vento è invisibile per sua stessa natura – ma non ode nemmeno alcun rumore che possa indicare la presenza di quello spostamento d’aria, eppure riesce a percepirne l’«odore» con un altro dei suoi sensi. Il marradese, dunque, sentendo l’«odore» dell’«alloro» nell’aria riesce a riportare alla mente il «ricordo» (v. 19) chimerico della città di Firenze, luogo storico, artistico e poetico per eccellenza, di cui Dante è il primo grande rappresentante.