CAPITOLO SECONDO
3. Dal Codice di commercio alla Legge fallimentare Primi profili di polifunzionalità nella disciplina per la composizione della cris
dell’imprenditore.
Pure la disciplina contenuta nella legge fallimentare, come originariamente formulata dal Legislatore del ’42, si volgeva ad appagare le predette composite esigenze, naturalmente correlate al fenomeno dell’insolvenza . L’impianto originario della legge fallimentare infatti, pur essendo, da un lato, ancora fortemente condizionato dal disvalore che ancora alla fine dell’epoca moderna era associato all’insolvenza dell’imprenditore (55
) e, dall’altro, altrettanto grandemente tributario degli insegnamenti di quella scuola dottrinale (al tempo decisamente prevalente (56)) che riconduceva l’istituto al genere delle procedure esecutive con la conseguenza di intenderlo, naturaliter, quale strumento di attuazione del diritto di credito, si poneva comunque in forte discontinuità con l’impianto della precedente normativa contenuta nel Codice di commercio del 1882 e, soprattutto, con la filosofia cui la stessa si ispirava .
Veniva in particolare riconfigurata la posizione dei creditori che, nel quadro nella legge fallimentare, perdevano quella posizione di assoluta preminenza loro riconosciuta dal Codice di Commercio, venendo per giunta onerati, seppure in maniera implicita e indiretta, del compito di concorrere con la loro condotta a fare emergere lo stato d’insolvenza del comune debitore . Il legislatore, infatti, riformava il presupposto oggettivo dell’apertura della procedura, stabilendo nell’art. 5 l.f. che la stessa dovesse prendere adito al verificarsi dell’insolvenza del imprenditore ed identificando la predetta situazione con l’incapacità di questi di adempiere alle proprie obbligazioni regolarmente (57) .
In questo modo, la legge prendeva atto del fatto che l’imprenditore è insolvente non tanto quando non è in grado di pagare i suoi debiti in ad un dato momento (cosa che potrebbe dipendere anche solo da un mero squilibrio momentaneo nella gestione della liquidità) ma quando debba ritenersi ragionevolmente che questi, per la formula imprenditoriale
55 cfr. su questo tema la ricostruzione storica di J
ORIO in Introduzione generale alla
disciplina della crisi d’impresa in Trattato delle procedure concorsuali a cura di Jorio e
Sassani, Milano, Giuffré, 2014, 13 e ss.
56 e cfr. infatti S
ATTA Istituzioni di diritto fallimentare, Roma, Soc. Ed. Foro Italiano, 1966, 41 e ss. e ancora oggi in questo senso espressamente FABIANI Diritto fallimentare, Zanichelli, Bologna, 2011, 3 .
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in particolare: la pianificazione strategica secondo quanto rilevato da GALLETTI (NT 13, 160 e ss.) .
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prescelta e/o per lo stato del mercato in cui opera, non è più in grado di ritrarre dalla sua attività caratteristica quelle risorse necessarie per soddisfare i debiti che l’esercizio della propria impresa necessariamente genera.
L’imprenditore versa in questa situazione ben prima che si manifestino gli inadempimenti che la legge fallimentare considera come segnali tipici della stessa (e/o che questi ponga in essere le più gravi condotte menzionate dall’art. 7 l.f.) ma continua per un certo periodo, e nonostante l’insolvenza, a pagare i suoi debiti alle scadenze pattuite, potendo ancora beneficiare del credito che, nell’ordinaria prassi degli affari, è concesso ad un debitore solvibile dai soggetti con cui questi intrattiene stabili rapporti (58) .
L’insolvenza si esteriorizza poi solo al momento in cui l’imprenditore, per l’inefficienza dell’attività esercitata e la naturale finitudine tanto della rete di rapporti su cui questi può contare quanto della disponibilità dei suoi creditori a finanziarlo, interrompe effettivamente quei pagamenti che, già da prima, non era più in grado di effettuare regolarmente (e cioè ritraendo le necessarie risorse dalla propria attività invece che dal surplus generato dalla propria attività invece che dal credito concessogli dagli operatori che con questo si trovano ordinariamente ad operare) .
In questo modo, però, l’imprenditore insolvente danneggia anche i soggetti con cui ha continuato ad operare in prossimità dell’insolvenza che subiscono forti sbilanciamenti nella loro gestione della liquidità che intaccano l’efficienza del loro ciclo produttivo (e quindi della loro attività) e rischiano di condurre questi ultimi a divenire insolventi a loro volta.
Peraltro l’insolvenza, essendo dato riguardante l’organizzazione dell’imprenditore, non è facilmente percepibile dall’esterno e, dunque, il rischio di “contagio” è quando mai elevato .
Per questa ragione la legge fallimentare ritenne necessario indurre ogni creditore che avesse preso contezza di detta situazione del proprio debitore (anche e soprattutto in forza degli stabili rapporti con questo intrattenuti) a intervenire immediatamente a tutela degli interesse degli altri (e del mercato in genere), istando per il fallimento dell’imprenditore o, quanto meno, interrompendo i rapporti commerciali con lui intrattenuti, così accelerando la predetta esteriorizzazione dell’insolvenza di questi .
58 e a cui ordinariamente ogni debitore solvibile attinge per impiegarlo nel proprio ciclo
produttivo che poi, essendo efficiente, genera utilità sufficienti per remunerare tanto il credito ottenuto quanto gli altri fattori della produzione .
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Si introduceva a questo scopo nel sistema concorsuale l’azione revocatoria fallimentare (59) (ex art. 67 l.f.) attraverso la quale, come noto, i creditori che hanno avuto contezza dello stato d’insolvenza del loro comune debitore e si sono, nonostante ciò, astenuti dal provocarne il fallimento, vengono obbligati a partecipare della perdita patita da quei creditori che l’hanno invece ignorata (e/o che, avendone avuto contezza, si sono astenuti dall’intrattenere ulteriori rapporti con l’imprenditore), in particolare obbligando i primi a rifondere alla procedura concorsuale (che tutela pure i secondi) le utilità incamerate per gli atti compiuti a loro favore dall’imprenditore quando era insolvente (60
).
In questa disciplina e nella grande differenza tra questa e l’azione di annullamento prevista dall’art. 709 del previgente Codice di commercio, che annoverava in tra i suoi presupposti la frode agli altri creditori (e quindi, da un lato, il danno al patrimonio di quest’ultimo in conseguenza dell’atto compiuto e, dall’altro, la consapevolezza dello stesso in capo alla controparte dell’imprenditore insolvente (61)), si percepisce come la normativa contenuta nella legge fallimentare si apra ad altri interessi, ulteriori a quello della tutela dei creditori.
L’azione revocatoria, infatti, non è configurata dalla legge fallimentare né nell’ottica di tutelare alcuni creditori rispetto agli atti illeciti compiuti dagli altri (62), né per assicurare a tutti i creditori la possibilità di conseguire un vantaggio comune dato che certamente il suo esperimento non va a vantaggio pure di quel creditore soddisfatto che subisce la revoca .
Al contrario, attraverso questa azione, la legge fallimentare realizza direttamente, e quindi senza ricorrere alla tecnica dell’attribuzione di situazioni giuridiche di vantaggio in capo a determinati soggetti, un
59 Le considerazioni che seguono debbono essere intese con riguardo all’azione revocatoria
nella sua originaria configurazione che, come noto, non prevedeva le esenzioni ad oggi stabilite dall’art. 67 comma 3 l.f. (che, come parimenti noto, in parte si limita a codificare situazioni nelle quali la giurisprudenza già aveva escluso la ricorrenza della cd scientia
decoctionis e, in altra parte, introduce delle vere e proprie esenzioni) .
60 M
AFFEI ALBERTI (NT. 13, 151 e ss.) .
61 che seppure presunta, poteva essere smentita dal convenuto fornendo prova contraria . 62 come si è visto, per la revoca dell’atto non è necessario che questo abbia effettivamente
diminuito la consistenza del patrimonio del fallito sotto alcun aspetto, né è determinante che con esso si sia permesso al creditore del fallito di soddisfarsi in via anticipata rispetto agli altri. L’accoglimento della cd “teoria anti-indennitaria” è un dano che può darsi per acquisito in giurisprudenza: cfr. Cass. SS.UU. 28/03/2006 n. 7028 conf. Cass. 08/03/2010 n. 5505; Cass. 17/12/2010 n. 25571; Cass. 26/07/2012 n.13293 e da ultimo Cass. 11/08/2016 n. 17044 .
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interesse di natura obbiettiva, identificabile, come si è visto supra, con la tutela del mercato contro la diffusione dello stato d’insolvenza del singolo operatore .
Allo stesso modo, l’azione in questione risponde ad una delle funzioni tipicamente svolte dalle procedure di gestione della crisi dell’impresa, incentivando i creditori ad approntare un’efficace sistema di monitoraggio e sanzione dell’insolvenza del comune debitore .
Correlativamente, l’esercizio dell’azione viene affidata in via esclusiva al curatore fallimentare che, nella legge fallimentare, è configurato come organo che spicca per il proprio ruolo di indipendenza dai creditori del fallito (e dai loro interessi(63)), in modo del tutto coerente con la diversa (e minore) rilevanza riconosciuta all’interesse di questi rispetto al quadro normativo precedente.
4. La conservazione del patrimonio aziendale nella disciplina