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Cognitivismo e non-cognitivismo etico

4. Lo statuto epistemologico dei valori morali

4.1 Cognitivismo e non-cognitivismo etico

Dopo aver mostrato che i valori cognitivi non solo entrano nella ricerca scientifica, ma la guidano, dopo aver osservato che possono essere argomentati con l’uso della ragione e dopo aver compreso che esiste un’intima connessione biunivoca tra la dimensione teorica e quella assiologica, resta da sciogliere l’ultimo nodo, quello che lega i giudizi di valore e la loro conoscibilità.

Il nucleo della questione si fonda infatti sulla problematicità di considerare gli enunciati valoriali, al pari di quelli fattuali, dei truth-bearers, vale a dire dei portatori di verità - o falsità. Ci si chiede, ad esempio, se gli enunciati etici abbiano la funzione di descrivere fatti morali e se siano in grado di cogliere la verità.

Il non-cognitivismo nega categoricamente la possibilità che gli enunciati morali siano in grado descrivere il mondo e che possano dunque essere passibili di verità o di falsità. Semplicemente, essi non contengano alcuna forma di conoscenza. Per contro, il cognitivismo etico sostiene invece che i giudizi morali abbiano a che fare con lo stato naturale delle cose e che il loro significato possa essere interamente afferrato in termini descrittivi. Le proposizioni morali, esattamente come le proposizioni scientifiche, ci dicono qualcosa sul mondo e perciò sono soggette all’esame critico della verità.

Il non-cognitivismo nel tempo si è evoluto da forme semplicistiche, come l’emotivismo neopositivista di cui abbiamo già parlato, in forme più sofisticate, come il prescrittivismo di R. Hare, trovando una delle sue espressioni più recenti nel “quasi-realismo” di S. Blackburn.

Hare attacca tanto la posizione emotivista, rea di aver inferito dalla non- descrittività dei giudizi etici la loro mancanza di razionalità, quanto qualsiasi forma di descrittivismo, ritenuto non in grado di fornire una spiegazione valida intorno al disaccordo che spesso si crea intorno ai principi morali.

Se infatti, seguendo l’analisi descrittivista, gli enunciati morali - come ogni altra classe di enunciati - esprimono un contenuto proposizionale che può essere

interamente catturato in modo descrittivo, allora il significato di ogni termine al

loro interno è fissato da condizioni di verità.

Hare prende in esame il giudizio etico “Le mogli devono obbedire ai mariti in tutte le cose” e, per spiegare il significato di “dovere”, afferma che la verità dell’enunciato sia catturata dal fatto che “le mogli che obbediscono ai loro mariti contribuiscono alla stabilità della società”.52

Quello di dover fare ogni cosa che contribuisca alla stabilità della società è un principio morale che potrebbe essere accettato in una certa società, ma che le femministe rifiuterebbero:

Se il significato di «dovere» è fissato dalle condizioni di verità, e se le condizioni di verità sono accettate dai parlanti nativi del linguaggio, e se i parlanti nativi di tale linguaggio (a parte qualche raro deviante) usano «dovere» in modo tale che

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

ciò che destabilizza la società deve essere qualcosa che non si deve fare, allora non si può dire con coerenza logica ciò che le femministe dicono [non sempre le donne devono obbedire al marito, anche a costo di pregiudicare la stabilità sociale].53

Dal momento che il significato dell’enunciato morale è fissato da condizioni di verità e ogni sua parte può essere compresa in termini puramente descrittivi, come ad esempio la nozione di “dovere”, il descrittivismo non riesce a spiegare il disaccordo che si crea intorno ai principi morali.

In realtà accade che il significato di concetti etici sia fissato in modo chiaro, tanto che ci sia accordo su quanto si ritiene, ad esempio, che “giusto” o “ingiusto” significhino, ma che, allo stesso tempo, non ci sia accordo sul principio morale che connette quei concetti alla fattualità del mondo. Per tornare all’esempio, può darsi il caso che ci sia accordo sul significato di “giusto” ma che, contemporaneamente, non ci sia accordo sul fatto che sia sempre giusto non compiere azioni che destabilizzino la società.

Per Hare questo disaccordo è possibile perché il significato dei concetti etici non è afferrabile unicamente in termini descrittivi, pena il cadere nel relativismo. Vi deve essere un ulteriore elemento nei giudizi morali che sfugge alla possibilità di essere semanticamente compreso: questo elemento è la componente prescrittiva. Scrive Hare:

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

Un atto linguistico è prescrittivo se sottoscriverlo impegna, pena l’accusa di insincerità, a compiere l’azione specificata nell’atto linguistico, oppure, se esso richiede a qualcun altro di compierla, a desiderare che egli la compia.54

L’elemento prescrittivo vincola il parlante a compiere l’azione specificata in un giudizio morale che egli sottoscrive, oppure, nel caso richieda ad un’altra persona di compiere una certa azione, che voglia il compimento di tale azione da parte di questa, pena, in entrambi i casi, di essere accusato d’insincerità.

Se ritengo che consegnare alla Polizia un portafoglio smarrito trovato per strada sia una buona azione, allora mi impegno a compiere l’azione specificata in quel giudizio. Allo stesso modo, se dico a mio fratello minore che deve obbedire a nostra madre, da una parte prescrivo un determinato tipo di condotta a mio fratello e dall’altra invito la mia volontà a dirigersi verso quella prescrizione. La prescrittività è la stessa proprietà che connette gli imperativi all’azione che si richiede sia svolta, con la rilevante differenza che quest’ultimi non posseggono, nemmeno in parte, alcuna condizione di verità. Mentre le prescrizioni morali, come abbiamo già detto, hanno un significato semantico, anche se questo non esaurisce il loro significato complessivo:

I prescrittivisti […] sostengono che i giudizi morali impegnano il parlante a motivazioni e azioni, ma che i fatti non morali per se stessi non hanno queste conseguenze. Il giudizio morale, perciò, introduce un ulteriore elemento nel

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

pensiero (l’elemento prescrittivo o motivazionale) che non si trova nella semplice descrizione dei fatti.55

L’idea è quella di mantenere la non-descrittività - o meglio, non-completa- descrittività - degli enunciati morali, mostrando tuttavia che tali enunciati sono governati da leggi logiche che ne guidano l’uso nel linguaggio quotidiano, attestandone una qualche forma di razionalità. Le proprietà logiche di maggior importanza sono l’universalizzabilità e la prescrittività, appunto.

I giudizi morali sono universalizzabili perché se un enunciato morale fa riferimento ad un certo caso, allora deve poter essere esteso a tutti i casi che sono simili sotto ogni aspetto rilevante, comprese le caratteristiche degli agenti, come desideri e motivazioni. Sostanzialmente la similarità della situazione con quella oggetto dell’enunciato morale è data non solo da correlazioni esterne tra l’agente, il luogo, il tempo e ed altri eventuali agenti, ma anche dalle connessioni interne dell’agente, che formano poi i suoi atteggiamenti valutativi:

Non si può con coerenza logica, dove a e b sono due individui, dire che a deve, in una certa situazione specificata in termini universali senza riferimento agli individui, agire in un certo modo, anch’esso specificato in termini universali, ma che b non deve agire in un modo analogamente specificato in una situazione analogamente specificata.56

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

Analitica, cit., p. 346

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

Se ad esempio ritengo che Dario abbia svolto una buona azione aiutando un donna anziana ad attraversare la strada, non costituisce obiezione all’universalizzabilità il fatto che Francesco abbia svolto la stessa azione, nelle stesse identiche circostanze, salvo poi rubare la borsa all’anziana signora. Infatti, la non-universalizzabilità del giudizio sulla bontà dell’azione non deriva dalla mancanza di forza della proprietà logica, ma dalla divergenza di intenzioni dei due agenti. Divergenza che di fatto si traduce in una differenza ineliminabile nelle due situazioni e che rende dunque inapplicabile la proprietà logica dell’universalizzabilità.

Ed è proprio l’universalizzabilità dei giudizi morali che dà loro un significato descrittivo. Non nella misura in cui vengono fornite condizioni di verità fissate “a priori”, ma poiché le condizioni di verità vengono legate ad una struttura logica condizionale: “Se in una situazione x, un agente con caratteristiche y (che si ritiene facciano parte di un pensiero morale maturo), compie un’azione z, allora in ogni altra situazione x, ogni agente con caratteristiche y, deve compiere l’azione z”.

L’operazione concettuale di Hare mira da una parte a legittimare la descrittività dei giudizi morali, in modo tale che tuttavia non esaurisca il loro significato, mentre dall’altra mostra come l’elemento non descrittivo vincoli gli agenti a trarre la stessa conclusione morale ogniqualvolta si trovino in circostanze simili sotto gli aspetti rilevanti.

Gli enunciati etici sembrano muoversi fra la dimensione fattuale - quella degli enunciati puramente descrittivi - e quella prescrittiva - quella degli imperativi -

mantenendo, in parte, le caratteristiche semantiche dei primi e la spinta verbale dei secondi:

Il fatto che i giudizi morali hanno significato descrittivo, e che si può quindi affermare che, entro i limiti appena indicati, essi hanno condizioni di verità e sono veri o falsi, può essere impiegato per fare luce sulla questione molto dibattuta se «dovere» è derivabile da «essere» (giudizi morali da fatti non morali).57

Quello di Hare, come già ricordato, è una forma di non-cognitivismo più sofisticata, che, nonostante riconosca un substrato logico nei giudizi morali capace di fornirgli una forma di razionalità, non è tuttavia in grado di coglierne la sinergia che lega la componente descrittiva a quella valutativa.

Si potrebbe notare inoltre che se l’universalizzabilità aggancia i giudizi morali a delle ragioni per l’azione, fornendo poi quelle condizioni di verità per catturare il significato descrittivo, allora le proprietà logiche di cui parla Hare, o quantomeno questa, non possono dirsi slegate dal significato descrittivo, dal momento che prima lo determinano e dopo estendono la giustificazione ad agni “conseguente” della struttura condizionale. Nella misura in cui se da un fatto viene derivato un valore, allora da fatti simili deve essere derivato lo stesso valore.

Tra le tante obiezioni mosse all’analisi semantica non cognitivista ve ne è una di particolare eleganza logica, quella proposta da P. Geach, il cosiddetto Frege-

Geach problem.

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R. Hare, Il prescrittivismo universale, in P. Donatelli ed E. Lecaldano (a cura di), Etica

Il non-cognitivismo caratterizza il significato di termini morali come “sbagliato” con il loro elemento non descrittivo, sostenendo che un giudizio etico come “uccidere una persona è sbagliato” matura il suo significato in virtù del rifiuto che noi ostentiamo verso quell’azione (emotivisti) o in virtù della prescrizione di un comportamento che devii da quell’azione (Hare). Sostanzialmente un giudizio etico acquista significato in virtù della sua forza assertoria.

Il problema nasce quando ci troviamo di fronte predicati morali che ricorrono in contesti non assertori, come ad esempio i condizionali. Seguendo l’analisi non cognitivista non si riuscirebbe a render conto del significato di tali predicati. Infatti se il significato di questi prende forma in virtù della loro spinta assertoria, allora, laddove i predicati ricorrono in forma non asserita, verrebbero svuotati del loro significato.

Manteniamo lo stesso esempio iniziale e proviamo a traslarlo in un enunciato condizionale:

“Se uccidere è sbagliato, indurre una persona ad uccidere è sbagliato”.

Sulla base del ragionamento sin qui affrontato, il termine “sbagliato” assumerebbe il suo reale significato solamente nel conseguente, nella misura in cui si critica un’azione e si vuole indurre a non commetterla. Mentre nell’antecedente il termine “sbagliato” non manterrebbe lo stesso significato, non avendo alcuna spinta assertiva da indurre un’azione, biasimarla o quant’altro, fatto questo che lascerebbe supporre la non validità del condizionale in questione.

Tuttavia, dal momento che il ragionamento condizionale è chiaramente valido, poiché “uccidere è sbagliato” conserva lo stesso significato, pena il cadere nella fallacia dell’equivoco, e dal momento che l’analisi non cognitivista non può rendere conto della validità del condizionale senza ricorrere al significato descrittivo, Geach mostra come i predicati morali non debbano il loro significato alla loro forza assertiva, ragion per cui tale significato non può essere ridotto ai sentimenti che suscitano o alle azioni che prescrivono.

È un problema rilevante quello a cui vanno in contro i non cognitivisti, perché, sia che non si prenda minimamente in considerazione la componente descrittiva dei termini etici, sia che la si prenda in considerazione ma la si subordini alla componente prescrittiva, non si riesce a fornire una spiegazione appropriata che catturi l’uso dei concetti morali in contesti in cui non abbiano quella spinta verbale che i non cognitivisti ritengono esaurisca il loro significato, o comunque ne costituisca l’accesso privilegiato.

Il problema sollevato da Geach ha minato l’analisi non cognitivista del linguaggio morale e dell’uso che ne facciamo. Un problema che ha ispirato tuttavia la soluzione proposta da S. Blackburn, un non cognitivista della nuova generazione che ha provato a ripensare il linguaggio morale alla luce dei punti di contatto che ha con quello fattuale.

La soluzione proposta da Blackburn è che i condizionali morali debbano essere interpretati come atteggiamenti su atteggiamenti, nel senso che, semplicemente, noi approviamo il modo in cui un certo atteggiamento viene ricondotto alle sue implicazione.

Detto in altre parole, il condizionale è come se fosse un atteggiamento di secondo livello che non valuta uno stato di cose, ma un altro atteggiamento, di primo livello.

Il significato di “Indurre una persona ad uccidere è sbagliato” è riconducibile all’espressione dello stato mentale che fornisce una valutazione, in questo caso critica. Ma anche il significato di “Se uccidere è sbagliato” si manifesta nell’espressione di una valutazione, con la differenza che ciò che viene valutato non è uno stato di cose, ma un ulteriore atteggiamento, quello che conduce il termine etico alla sua conseguenza logica.

Quindi il significato di “uccidere è sbagliato” viene mantenuto, non perché è in ogni caso descrittivo, come sosteneva Geach, ma perché è in ogni caso espressivo.

Quello di Blackburn è una forma di non-cognitivismo più sofisticata, perché da una parte fa riferimento agli enunciati morali come passibili di verità o falsità - punto di vista inaccettabile per i vecchi emotivisti - mentre dall’altra spiega la cognitività delle valutazioni come il risultato delle proiezioni di sentimenti su oggetti, in modo tale da creare l’auto-illusione che i valori facciano realmente parte di tali oggetti, come veri e propri aspetti descrittivi. Insomma, Blackburn mira a creare un punto di contatto tra l’uso descrittivo dei predicati morali e la loro origine proiettiva, perché -sostiene il filosofo - se il linguaggio morale mima il linguaggio descrittivo, è necessario spiegarne le modalità.

Mentre il non-cognitivismo si evolveva dando vita a teorie concettualmente più complesse, il cognitivismo acquisì nuova linfa vitale a partire dagli anni ’50,

quando un seminario organizzato da P. Foot e I. Murduch inaugurò il dibattito sui termini etici spessi, un dibattito che avrebbe accompagnato e influenzato quello sulla natura del rapporto tra fatti e valori.

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