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4. Lo statuto epistemologico dei valori morali

4.2 I concetti etici spessi

L’idea che prese forma all’interno del seminario sopracitato è quella secondo la quale, parlando del linguaggio morale, molti dei termini che vi ricorrono hanno una dimensione valutativa e, contemporaneamente, una capacità descrittiva. Dalla letteratura che ne sarebbe seguita, questi termini presero il nome di “concetti spessi”.

Quando si parla di “concetti etici spessi” ci si riferisce a termini quali crudele,

onesto, leale, codardo, etc. Questi si differenziano dai “concetti etici sottili”,

quelli più astratti per intenderci, come bene, si deve, giusto, etc., per la disponibilità del loro significato ad essere più facilmente catturato in modo descrittivo.

La peculiarità di questi termini è appunto che forniscono sia una valutazione che una caratterizzazione empirica dei soggetti di cui vengono predicati. Se si afferma che una certa persona è sensibile, certamente stiamo descrivendo il carattere di quella persona a partire da una serie di indicazioni empiriche. Come il fatto che ogni volta mostri empatia verso la sofferenza del prossimo, oppure il fatto che abbia una forte disposizione ad ascoltare i problemi delle altre persone, o ancora, il fatto che la sua anima possa essere facilmente ferita dai giudizi altrui.

Tuttavia, nel medesimo tempo, quando facciamo uso del termine “sensibile”, stiamo anche valutando il carattere di quella persona. Infatti, giudicando una persona come sensibile, offriamo la nostra visione positiva di quel particolare tratto caratteriale, da cui seguono le nostre azioni e le nostre aspettative, guidate da tale valutazione.

Questa natura ibrida caratterizza, ma non esaurisce, l’essenza dei concetti spessi. Perché questa loro duplicità non solo emerge con prepotenza nell’uso che ne viene fatto, ma è radicata concettualmente così in profondità da non riuscire a separare la componente descrittiva da quella valutativa. Tornando all’esempio fatto poc’anzi, quando affermiamo che una persona è sensibile, non stiamo solo facendo riferimento a fatti reali che corroborano quel giudizio, né stiamo semplicemente valutando il carattere di quella persona. Stiamo facendo entrambe le cose, nello stesso momento, stratificando il significato del concetto, senza impedire una sua eventuale evoluzione.

Vi è stato un contributo che con maggior forza ha attaccato il cuore della dicotomia tra fatti e valori, facendo proprio anche l’argomento dei termini etici spessi appunto. Si tratta del lavoro di H. Putnam pubblicato nel 2002, The

Collapse of the Fact/Value Dichotomy.58

L’analisi di Putnam si propaga in due direzioni. La prima riprende la tesi, già ampiamente discussa, in base alla quale valori epistemici come semplicità, coerenza, bellezza e molti altri, avrebbero un ruolo fondamentale all’interno dell’impresa scientifica, come indicatori per la scelta di teorie in competizione

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H. Putnam, Fatto/valore. Fine di una dicotomia, trad. it. G. Pellegrino (a cura di), Fazi, Roma, 2004.

fra loro. Inoltre - questo l’elemento di novità - se si accetta che i valori epistemici siano in una certa misura oggettivi - altrimenti le teorie scientifiche che su essi fanno affidamento perderebbero ipso facto la loro legittimità epistemologica - diventa difficile perseverare nell’idea che altri tipi di valori, come quelli estetici o quelli etici, non abbiano nessun grado di oggettività, perché sempre di valori si tratta:

[…] giudizi sulla coerenza, semplicità (che costituisce essa stessa un fascio complessivo di valori differenti, non solo un “parametro”), bellezza, naturalezza e così via sono presupposti dalle scienze fisiche […] coerenza, semplicità e simili sono [effettivamente] valori.59

Una distinzione fra valori cognitivi e valori etici è senz’altro funzionale, ma questa non è da ricercare in un presunto dislivello ontologico, perché entrambi condividono quella stessa grammatica logica che permette loro di tendere verso un’oggettività che deve essere ridefinita:

Asserendo che i valori epistemici sono valori a tutti gli effetti, egli [Putnam] non intende con questo sostenere che non vi siano differenze rilevanti tra i valori epistemici e quelli etici. Tuttavia, tali differenze non riguarderebbero, secondo il filosofo americano, la loro pretesa di oggettività: questa impostazione, infatti, non implica che i primi siano oggettivi perché ci permettono di descrivere e rappresentare correttamente il mondo, mentre i secondi non lo siano in quanto

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sembrano far riferimento in modo più marcato al modo in cui noi ci relazioniamo con esso.60

Metaforicamente parlando, è come se l’oggettività fosse un vaso che da sempre ha visto fiorire un certo tipo di giudizi. E che ora debba modificare non solo lo spazio al suo interno, ma la struttura stessa, in modo da ampliare lo spettro del suo significato e render conto di quei giudizi che aspirano a farne parte esattamente come gli altri, in un progresso che si protrae criticamente in avanti. In tal senso, descrizioni fattuali e considerazioni valutative riempiono porzioni diverse di uno stesso complesso razionale.

La seconda parte dell’analisi putnamiana, come già precedentemente accennato, prende in considerazione i concetti etici spessi. L’idea del filosofo è che i concetti etici spessi forniscano il più grande contro-esempio alla dicotomia tra fatti e valori, nella misura in cui il significato descrittivo e il significato normativo sono inestricabilmente connessi, impedendo ogni possibilità di afferrarne uno senza portarsi dietro anche l’altro. In altre parole, il momento descrittivo e il momento valutativo sono connessi in un rapporto di sinergia tale da rendere inutile qualunque tentativo di catturare un aspetto del significato indipendentemente dall’altro.

Putnam riprende dunque la tesi emersa nel seminario di Foot e Murdoch, ma adottando la prospettiva di J. McDowell, in modo da evitare la (presunta) forte rigidità del linguaggio morale, conseguenza - non necessaria - della tesi che

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G. Marchetti, Fatti e valori di una conoscenza. Fine di una dicotomia, in G. Marchetti (a cura di), La contingenza dei fatti e l’oggettività dei valori, Mimesis, Milano-Udine, 2013, p. 31.

vedeva, per contro, negare la forte flessibilità di questo. In tal senso, P. Barrotta evidenzia:

Il linguaggio morale non mostra questa estrema flessibilità. Senonché, col negarne la flessibilità estrema, Foot finisce col difendere l’altrettanto insostenibile tesi opposta: quella della estrema rigidità con cui le valutazioni si accompagnano alle descrizioni.61

L’impostazione rimane la medesima perché, nell’affrontare la questione dei concetti etici spessi, Putnam usa un esempio analogo a quello del termine “scortese” introdotto da Philippa Foot: il termine “crudele”.

“Crudele”, esattamente come “scortese” e tutti gli altri concetti spessi, si presta ad usi che sono talvolta normativi e altre volte descrittivi. Quando giudico un comportamento, un’azione oppure una persona come crudele, sto valutando una certa attitudine del soggetto di cui viene predicato. Tuttavia, come fa notare Putnam, uno storico potrebbe sostenere che un dittatore fu terribilmente crudele, facendo riferimento unicamente all’aspetto descrittivo del significato:

Il tipo di intreccio cui sto pensando diviene ovvio quando studiamo parole come “crudele”. […] “Crudele” semplicemente ignora la presunta dicotomia fatto/valore e ammette allegramente di venir usato talvolta per scopi normativi e altre volte come termine descrittivo.62

61

P. Barrotta, Scienza e democrazia: verità, fatti e valori in una prospettiva pragmatista,

Carocci, Roma, 2016, p. 70.

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Questo slittamento di prospettiva è reso possibile dalla bidimensionalità che nasce e matura nella natura stessa del significato, facendo in modo che, nella reale comprensione del concetto, il momento descrittivo e il momento valutativo siano inscindibilmente connessi, pena l’appiattimento di tale significato.

In altre parole, non è possibile fare uso di termini come “scortese” o “crudele” nel descrivere una certa situazione - affidandoci a standard empirici - senza impegnarci, contemporaneamente, in un certo tipo di valutazione. Se ciò succede è perché non si è ben compreso il significato del concetto in questione. Sostanzialmente, l’attribuire una valutazione a qualcosa si mostra nel corretto uso descrittivo che se ne fa.

Tuttavia, la negazione dell’estrema flessibilità del linguaggio morale non implica che questo, al contrario, sia estremamente rigido. Di fatto, l’analisi di Foot incontra degli ostacoli rilevanti quando deve render conto di quella parte del linguaggio morale che si presta ad una maggiore flessibilità. Possono darsi casi in cui la forza descrittiva di un termine non lo lega necessariamente ad una valutazione univoca e ciononostante è possibile la comprensione di tale termine. Ad esempio, il concetto “coraggioso” può catturare descrittivamente un certo ventaglio di azioni dalle quali estrapolare il suo significato e, allo stesso tempo, ci troviamo a valutare positivamente quel coraggio. Abbracciando completamente l’analisi di Foot, appare evidente che non è possibile afferrare il complesso descrittivo del significato senza accettare l’atteggiamento valutativo che si manifesta nell’uso corretto che se ne fa. Pena sempre la non comprensione del significato.

Tuttavia, può verificarsi il caso di un’azione che rispetta gli standard empirici di ciò che si ritiene ragionevole predicare del termine “coraggioso”, ma che sia valutata da taluni come sconsideratezza o incoscienza. E nonostante ciò la comprensione del significato di “coraggio” non è minata da una differente posizione valutativa.

Putnam - e McDowell prima di lui - è consapevole che una flessibilità portata agli estremi, come hanno fatto i separazionisti63, sostenendo che i termini spessi siano sempre scomponibili in una parte descrittiva e in una normativa, causerebbe una deriva relativista del linguaggio morale. Ma è altresì consapevole che, in modo speculare, una rigidità portata agli estremi, come sembrerebbe lasciar intendere l’analisi di Philippa Foot, non potrebbe render conto della complessità e della varietà del linguaggio morale.

Il giusto mezzo aristotelico, ancora una volta, è in grado di garantire la mediazione all’interno di un linguaggio morale che non solo è complesso e variegato, ma anche in continua evoluzione, dando la possibilità di comprendere il significato di termini morali senza tuttavia essere obbligati a condividere la valutazione che si portano dietro.

Ma questa è una linea di pensiero che ben si guarda dall’avvalorare la scomponibilità dei termini spessi, come vorrebbero i separazionisti. Piuttosto vuole elaborare la giusta intuizione iniziale sui concetti etici spessi in modo da togliere terreno fertile alle possibili critiche di quest’ultimi:

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I separazionisti sono coloro che sostengono la scomponibilità dei concetti spessi, in modo da poter cogliere il significato in termini descrittivi. Ad esempio, sostiene Hare, un gesto crudele potrebbe essere ridotto unicamente a fatti empirici che ne attesterebbero unanimemente la crudeltà.

[…] il punto interessante è che la possibilità di valutazioni morali discordanti non aiuta i “separazionisti” […] [poiché per essi] si dovrebbe comprendere il significato di un concetto spesso (la sua estensione, ovverosia in quali circostanze viene applicato correttamente) senza neanche adottare, almeno nell’immaginazione, il punto di vista morale della comunità studiata, ovverosia la concezione etica che ci dice quando viene applicato il termine morale. E ciò non sembra possibile, perché la concezione etica è essenziale all’osservatore esterno per capire in quali circostanze il termine è applicato in modo corretto.64

Semplicemente, il filo che lega indissolubilmente la capacità descrittiva e la forza valutativa dei concetti spessi viene spostato lungo una cucitura più interna nel tessuto della razionalità.

Ciò che garantisce la comprensione del significato nella sua interezza non è la condivisione dell’atteggiamento valutativo che si rivela nell’uso descrittivo del concetto. Piuttosto è la capacità di identificarsi, quantomeno idealmente, in una certa prospettiva morale, senza necessariamente condividerla:

La Murdoch (e successivamente, in maniera più dettagliata, McDowell) ha sostenuto che non c’è modo di specificare la «componente descrittiva» del significato di una parola come crudele o irrispettoso, senza usare una parola dello stesso genere; nella formulazione di McDowell, una parola deve essere connessa ad un certo insieme «d’interessi valutativi» per poter funzionare alla maniera di una parola etica «robusta» [termine spesso]; e il parlante deve essere consapevole di tali interessi ed essere in grado di identificarsi immaginativamente con essi per

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poter applicare la parola a casi nuovi o a circostanze nuove nel modo in cui farebbe un parlante raffinato.65

Questo è il motivo per cui un certo grado di flessibilità del linguaggio morale, da una parte, spiega la possibilità di differenti punti di vista morali senza cadere nel relativismo e, dall’altra, non mina l’omogeneità di comportamenti descrittivi e attitudini valutative, omogeneità che permea i concetti etici spessi.

La capacità di riuscire ad immedesimarsi nello spettro di valutazioni è essenziale alla comprensione di significati che, in caso contrario, sarebbero al di fuori della nostra portata. Ciò che è relativo non dunque è il giudizio morale in una certa società, ma la flessibilità cui questo si presta ad essere compreso da coloro che sono al di fuori di tale società:

Caratteristico di descrizioni “negative” come “crudele”, così come di descrizioni positive come “prode”, “temperante” e “giusto” (si noti che sono questi i termini che Socrate costringe i suoi interlocutori a discutere ripetutamente) è che per far uso di esse con un qualche discernimento bisogna essere in grado di identificarsi immaginativamente con un punto di vista valutativo. Questo perché chi pensasse che “prode” significhi semplicemente “privo di paura di rischiare la pelle” non sarebbe nelle condizioni di comprendere la distinzione cruciale che Socrate continua ad istituire fra la mera avventatezza e folle temerarietà e l’autentica

prodezza.66

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H. Putnam, Realismo dal volto umano, trad. it. E. Sacchi (a cura di), il Mulino, Bologna, 1995, p. 321.

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La tesi di Putnam, come giù ricordato, è che i concetti etici spessi forniscano il più grande contro-esempio alla dicotomia tra fatti e valori. Termini quali “coraggioso”, “onesto” o “sensibile” sono descrittivi in quanto fanno riferimento a istanze fattuali, a come il mondo si presenta di fronte a noi. Tuttavia sono anche valutativi, nella misura in cui è proprio nella loro corretta applicazione che si rivelano le valutazioni di cui sono carichi.

Non solo la comprensione del significato di questi concetti è dettata dalla nostra capacità di acquisire, almeno nell’immaginazione, elementi valutativi che si rendono manifesti nell’uso descrittivo di tali concetti. Ma anche la stessa forza valutativa può aggiustare l’uso descrittivo di questi, dando vita ad un continua evoluzione positiva del linguaggio morale e, conseguentemente, alla nostra comprensione di questo. In tal senso, la compenetrazione che avviene tra dimensione fattuale e dimensione valoriale è essa stessa un presupposto dell’evoluzione della nostra comprensione morale del mondo.

Non è un caso che questa indagine continua e criticamente portata avanti nel campo della morale ricordi molta da vicino quella che caratterizza il progresso scientifico nella ricerca della verità. Conclude Putnam:

La soluzione non è rinunciare alla possibilità stessa della discussione razionale, né cercare un punto archimedeo, una “concezione assoluta” al di fuori di tutti i contesti e di tutte le situazioni problematiche, ma - come Dewey ci ha insegnato in tutto il corso della sua vita - indagare, discutere e mettere alla prova le cose in maniera cooperativa, democratica e soprattutto fallibilista.67

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