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Dicotomia fatto/valore: la caduta dell'ultimo gigante dell'empirismo

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA IN FILOSOFIA E FORME DEL SAPERE

Tesi di Laurea magistrale

Dicotomia fatto/valore:

la caduta dell’ultimo gigante dell’empirismo

RELATORE

Dott. Roberto Gronda CORRELATORE Prof. Pierluigi Barrotta

CANDIDATO Edoardo Wasescha

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Indice

Introduzione ... 3

1. Lo sviluppo della dicotomia fatto/valore ... 7

2. Kuhn e la nuova filosofia della scienza ... 22

2.1 La storia della scienza: fase normale e fase rivoluzionaria ... 22

2.2 I valori epistemici e la scelta fra teorie rivali ... 25

3. Fatti, metodologie e valori: il modello reticolare di Laudan ... 40

3.1 La risoluzione del disaccordo lungo la catena gerarchica ... 40

3.2 Il problema della sottodeterminazione ... 43

3.3 Il modello reticolare della razionalità ... 52

4. Lo statuto epistemologico dei valori morali ... 64

4.1 Cognitivismo e non-cognitivismo etico ... 64

4.2 I concetti etici spessi ... 74

4.3 Concetti spessi nel cuore dell’indagine scientifica ... 84

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Introduzione

Nell’immaginario comune si tende a separare nettamente fatti e valori, connotando i primi come qualcosa di tangibile, che può essere spiegato e compreso, attraverso cui si può argomentare nelle dispute. Insomma la descrizione di un fatto sarebbe ciò che più si avvicina alla nostra idea di oggettività.

Ai secondi invece non spetterebbe alcun ruolo nell’indagine scientifica e, più in generale, nel progresso della civiltà, essendo considerati come qualcosa di difficile, se non impossibile, da afferrare, qualcosa che dipende non da come le cose sono realmente, ma dai sentimenti che queste suscitano nell’individuo. Sicuramente la tendenza storicamente rilevante, e per alcuni aspetti comprensibile, a tracciare una netta linea di separazione tra fatti e valori ha fatto sì che i primi venissero identificati con l’oggettività del riscontro empirico, mentre i secondi fossero relegati nella soggettività delle inclinazioni umani. In tal senso, essi appartengono a due universi separati: da una parte la sfera della ragione, dall’altra la sfera dell’emotività.

La metafora più appropriata per descrivere il rapporto tra fatti e valori è quella di due linee parallele, che, per definizione, non si incontreranno mai. Sono elementi completamente eterogenei, che per loro stessa natura non possono interagire fra loro, né influenzarsi reciprocamente in alcun modo.

Nel corso del presente lavoro affronteremo le modalità con cui questa dicotomia tra fatti e valori si è stratificata così in profondità sia nel pensiero filosofico che

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nel pensiero quotidiano. Il capitolo uno tratterà infatti le origini della dicotomia e l’influenza che ha avuto nella prima metà del XX secolo, fornendo così il presupposto per le teorie neopositiviste. In particolare saranno trattati autori come R. Carnap e A. J. Ayer, due dei maggiori esponenti dell’empirismo logico, appunto. Percorrendo questa linea di pensiero, vedremo come la posizione morale sia ridotta alla semplice espressione di emozioni, tant’è che si suole chiamarla “emotivismo”. Emerge chiaramente, in tal senso, l’impossibilità di affrontare dispute etiche che siano autenticamente razionali.

Il secondo e il terzo capitolo, che tratteranno rispettivamente di T. Kuhn e di L. Laudan, hanno il compito di scardinare l’idea di una scienza libera da qualsiasi tipo di valore. Vedremo che non solo i valori epistemici favoriscono la scelta fra teorie rivali, ma possono essere argomentati con l’uso della ragione, motivo per cui la loro presenza all’interno del progresso scientifico non delegittimerebbe in alcun modo lo status di oggettività a cui mira la scienza. Lungo questa linea argomentativa, si potrà già notare come il confine tra la dimensione fattuale e quella valoriale si faccia meno netto di quel che sembra.

Infine il quarto capitolo mira a qualificare come cognitivamente rilevanti i valori morali, che divergono da quelli strettamente epistemici non per la pretesa di oggettività, giacché condividono la stessa natura e, di conseguenza, la stessa tendenza verso quest’ultima, ma per la loro diversa funzionalità.

Fondamentali nella riuscita di questa operazione epistemologica saranno le analisi di H. Putnam sui concetti etici spessi - ripresa a sua volta da un seminario

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di P. Foot e I. Murduch - e, in egual misura, di P. Barrotta su questo tipo di concetti all’interno dell’indagine scientifica.

Questi termini spessi eludono la dicotomia fatti/valori poiché talvolta possono essere usati in modo descrittivo ed altre volte possono caricarsi di forza valutativa nel loro utilizzo. E se fatti e valori sono intrecciati già a livello semantico, non c’è più alcuna ragione per considerarli come oggetti di universi chiusi e separati.

È certamente opportuno e ragionevole - oltre che funzionale - tenere sempre presente alla mente una distinzioni tra fatti e valori, perché sono comunque due categorie conoscitive diverse, ma è altrettanto necessario rigettare una dicotomia adombrata da un dogmatismo metafisico che separa in modo così netto il normativo dal descrittivo, come se fra essi intercorresse uno spazio logico e impedisse qualsiasi tipo di contatto o interazione.

Le dispute etiche, al pari delle dispute scientifiche, sono risolvibili, a patto che si condivida un terreno comune. Non si parla di principi morali in senso stretto, ma piuttosto di uno sfondo di credenze, valutazioni, scelte e dubbi che vengono riconosciute negli altri e su cui ci si basa per interpretarli. D’altra parte nemmeno la comunicazione sarebbe possibile se non si riconoscesse nell’altro un individuo provvisto di una logica di base come la nostra. Come dice D. Davidson, nell’interpretazione di un parlante, per comprenderlo veramente, almeno ad un primo livello, ne stiamo facendo un buon logico.

Alla luce di quanto detto, l’obiettivo della presente trattazione è mostrare che fatti e valori sono entrambi oggetti gnoseologici - seppur appartenenti a due

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categorie diverse - che possono interagire, si possono influenzare e legittimare reciprocamente. Fanno entrambi parte del panorama della civiltà umana ed evolvono con essa, o meglio, evolve la nostra percezione e il nostro approccio verso i medesimi.

È sempre buona regola tenere a mente la distinzione deweyana tra ciò che è

ritenuto di valore e ciò che ha valore. Evidentemente i neopositivisti, o chi per

loro, hanno sempre considerato il significato di “valore” nella prima accezione, senza fare le opportune distinzioni. Ma le nostre valutazioni rispetto a ciò che ha valore sono intrise di razionalità, senso critico, sfondi di credenza, ragion per la quale il loro statuto di oggettività è assimilabile a quello dei fatti. Anzi, in questo senso è necessario allargare lo spettro del significato di ciò che può ricadere sotto il concetto di oggettività, in modo che sia maggiormente inclusivo.

È infine molto importante sottolineare che parlando di valori, così come parlando di fatti, un approccio fallibilista, sempre pronto a mettere in discussione i risultati raggiunti, garantisce quella fiducia del progresso della civiltà umana che è ciò verso cui tende l’essere umano.

La speranza è dunque quella di convincere il lettore ad uscire dallo schema ormai consolidato secondo il quale fatti e valori occupano due spazi distinti all’interno di ciò che definiamo razionale, per invitarlo ad abbracciare, o anche solo a considerare, l’idea di una perpetua interazione reciproca fra atteggiamenti valutativi e forze fattuali, senza che ciò che esaurisca o comprometta la loro differente natura.

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1. Lo sviluppo della dicotomia fatto/valore

Nel corso della storia gli uomini, in generale, e i filosofi, in particolare, hanno spesso distinto i fatti, considerati come entità suscettibili di una spiegazione razionale, dai valori, del tutto estranei a qualsiasi dimensione cognitiva e intesi come qualcosa di meramente soggettivo.

Un fatto è semplicemente “ciò che accade” ed è indipendente da noi, neutrale in un certo senso, mentre un valore è l’espressione del “sentimento” che quel fatto suscita in noi, quindi è strettamente connesso alla dimensione umana.

Ma dove va rintracciata questa tendenza a dividere in modo così netto i fatti dai valori, assegnando una valenza cognitiva ai primi ma non ai secondi?

La questione è molto controversa e difficilmente si potrà rispondere a questa domanda in modo univoco, ma, senza ombra di dubbio, uno dei veterani di questa linea di pensiero fu D. Hume, filosofo scozzese del ‘700.

L’approccio di Hume non è stato fondamentale tanto perché fu così radicale nel difendere la dicotomia fatto/valore, quanto per l’influenza che ebbe sulle successive correnti filosofiche, ad esempio sul positivismo ottocentesco e, ancor più, sul neopositivismo, che fecero del filosofo l’esempio da seguire, il faro epistemologico nell’oscura e tenebrosa notte metafisica. La dicotomia tra fatti e valori è infatti uno dei dogmi dell’empirismo - indirizzo filosofico al quale apparteneva ovviamente Hume - che le correnti positivistiche assimilarono, accentuandone il carattere assiomatico.

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Nello specifico, nel Trattato sulla natura umana, il filosofo scozzese sosteneva l’impossibilità di giungere a conclusioni valoriali partendo esclusivamente da premesse fattuali, cioè che, dato un qualsivoglia numero di premesse iniziali riguardanti “questioni di fatto”, la conclusione inferita da tali premesse non potesse evadere dalla dimensione fattuale: questa è quella che è passata - anacronisticamente - alla storia come “legge di Hume”:

In ogni sistema morale in cui finora mi sono imbattuto, ho sempre trovato che l'autore va avanti per un po' ragionando nel modo più consueto, e afferma l'esistenza di un Dio, o fa delle osservazioni sulle cose umane; poi tutto a un tratto scopro con sorpresa che al posto delle abituali copule è o non è incontro solo proposizioni che sono collegate con un deve o un non deve; si tratta di un cambiamento impercettibile, ma che ha, tuttavia, la più grande importanza. Infatti, dato che questi deve, o non deve, esprimono una nuova relazione o una nuova affermazione, è necessario che siano osservati e spiegati; e che allo stesso tempo si dia una ragione per ciò che sembra del tutto inconcepibile ovvero che questa nuova relazione possa costituire una deduzione da altre relazioni da essa completamente differenti.1

Dal punto di vista logico la legge di Hume nega sia la relazione di derivabilità che quella di riducibilità di proposizioni etiche da proposizioni fattuali. Non solo conclusioni valutative e condotte di comportamento non possono essere derivate da premesse esclusivamente riguardanti come è il mondo, ma gli stessi giudizi di

1

D. Hume, Opere filosofiche. Vol. 1: Trattato sulla natura umana, trad. it. A. Carlini ed E. Mistretta (a cura di), Laterza, Bari, 2008, pp. 496-497.

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valore non possono essere riconducibili ad elementi conoscitivi dei quali si può avere esperienza.

Ciò che intercorre tra questi due tipi di proposizioni non è una semplice distinzione semantica, ma un vero e proprio salto logico che non ammette eccezioni.

Addentrandosi nel cuore del problema epistemologico, occorre evidenziare come la ‘grande divisione’ tra fatti e valori sia correlata ad una più profonda dicotomia, quella tra la sfera della scienza e la sfera della morale: alla prima appartengono esclusivamente i fatti, alla seconda i valori. L’idea di base è che la scienza sia indipendente dai valori e riguardi esclusivamente la comprensione dei fatti e la loro spiegazione razionale; in una parola, che la scienza sia avalutativa.

D’altronde, come potrebbe la scienza, così oggettiva agli occhi di addetti ai lavori e non, essere vulnerabile alla soggettività dei valori?

Ovviamente ci sono sempre stati pareri discordanti, specialmente nel corso della seconda metà del XX secolo, ma vi era anche un generale accordo sul fatto che,

se la scienza non fosse neutrale ai valori, allora non sarebbe oggettiva. Si può

accettare o meno l’antecedente del suddetto enunciato condizionale, e quindi accettare o rifiutare l’intero enunciato, dando ragione rispettivamente ai critici della scienza o ai difensori della scienza; ma il punto è che sembrava esistere un accordo unanime sul fatto che l’avalutatività della scienza fosse strettamente legata, a doppio filo, con la sua oggettività.

Successivamente la dicotomia tra fatti e valori fu implementata nella tesi neopositivista in base alla quale ogni enunciato che non fosse propriamente

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scientifico, al vaglio critico del criterio di significanza, dovesse essere svuotato di qualsiasi rilevanza cognitiva, nel senso più ampio del termine.

Il criterio di significanza separava infatti gli enunciati cognitivamente validi da quelle che venivano considerate pseudoproposizioni, ossia le proposizione etiche, quelle estetiche, la metafisica, la poesia etc. Sostanzialmente era uno strumento per demarcare la scienza da “tutto il resto”, facendo della prima il monumento del riscontro oggettivo, della tangibilità dei fatti, mentre rilegando ogni altra cosa che non fosse scienza nella sfera della soggettività e del non-senso.

Un enunciato per essere significante, quindi cognitivamente valido, doveva essere riducibile a classi di esperienza o a strutture logiche. Nel primo caso si aveva a che fare con enunciati sintetici, mentre nel secondo caso con enunciati analitici. Dunque gli enunciati passibili di verità o falsità in relazione all’esperienza o in virtù di leggi logiche costituivano - ed esaurivano - la classe delle asserzioni significanti.

Tutti gli altri enunciati non avevano alcuna portata cognitiva, nella migliore delle ipotesi, costituivano puro non-senso, nella peggiore. In ogni caso, non avendo significato, non possedevano alcun valore di verità, per cui non aveva senso chiedersi se fossero veri o falsi:

Le proposizioni (sensate) si suddividono nelle seguenti specie. In primo luogo, vi sono le proposizioni vere in virtù della sola forma (“tautologie”, secondo Wittgenstein; esse corrispondono all’incirca ai «giudizi analitici» di Kant), le quali non asseriscono nulla intorno alla realtà. A questa specie appartengono le formule della logica e della matematica, le quali non sono in se stesse degli

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enunciati sulla realtà, ma servono alla trasformazione di tali enunciati. In secondo luogo, vi sono le negazioni di tali proposizioni (“contraddizioni”), le quali sono auto-contraddittorie, ossia false in virtù della sola forma. Per quanto riguarda tutte le rimanenti proposizioni, la decisione circa la verità o la falsità dipende dai protocolli. Esse sono pertanto delle proposizioni empiriche (vere o false) e appartengono al dominio della scienza empirica. Se si vuol costruire una proposizione che non appartenga a una di queste tre specie, ne risulta automaticamente priva di senso.2

Per R. Carnap, così come per tutti gli altri neopositivisti, il significato di una proposizione era infatti costituito dalle sue condizioni di verità, cioè dal sapere quali fossero le circostanze - empiriche o logiche - che avrebbero reso vero o falso l’enunciato.

Ancora, scrive A. J. Ayer:

[…] un enunciato è significativo in senso fattuale per qualunque dato individuo, se e solo se quest’ultimo sa come verificare la proposizione che l’enunciato si propone di esprimere - cioè, se egli sa quali osservazioni lo condurrebbero, sotto certe condizioni, ad accettare la proposizione come vera o rifiutarla come falsa. Quando, d’altro lato, assumerne la verità o la falsità semplicemente non è incompatibile con una qualunque assunzione, quale che sia, intorno alla natura della propria esperienza futura, allora, per quanto lo riguarda, la presunta

2

R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, trad. it. A. Pasquinelli (a cura di), UTET, Torino, 1969, pp. 525-526.

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proposizione sarà, se non una tautologia, una pura e semplice pseudoproposizione.3

Gli enunciati etici, fra gli altri, erano dunque trattati come pseudoproposizioni, in quanto non esprimevano alcun contenuto fattuale e, di conseguenza, non possedevano condizioni di verità definite. Sostanzialmente i giudizi etici erano rilegati in una sorta di limbo semantico perché, da una parte mantenevano la stessa struttura sintattica delle asserzioni empiriche, ma dall’altra non esprimevano alcuna proposizione che potesse essere verificata nella realtà:

[…] la validità oggettiva di un valore o di una norma non si può verificare empiricamente, né dedurre da proposizioni empiriche; ciò vuol dire, dunque, che non può neppure venir espressa (con una proposizione sensata). In altri termini, o si adducono delle caratterizzazioni empiriche per «buono» e «bello», e per tutti gli altri predicati in uso nelle scienze normative, o no. Nel primo caso, una proposizione contenente tale predicato diventa un giudizio di fatto, empirico, ma non un giudizio di valore; nel secondo caso, diventa una pseudoproposizione. In nessun caso, si può costruire una proposizione esprimente un giudizio di valore.4

Ogni enunciato morale veniva invece ridotto al suo significato emotivo, ossia alla sua funzione di esprimere stati di approvazione e disapprovazione e indurre le stesse, o diverse, risposte emotive negli ascoltatori. Gli enunciati dell’etica non

3

A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, trad. it. G. De Toni (a cura di), Feltrinelli, Milano, 1975, p. 13.

4

R. Carnap, Il superamento della metafisica mediante l’analisi logica del linguaggio, in A. Pasquinelli (a cura di), Il neoempirismo, cit., pp. 126-127.

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esprimevano dunque stati di cose oggettivamente verificabili ma stati emotivi soggettivi, irrilevanti da un punto di vista epistemologico:

La presenza del simbolo etico nella preposizione non aggiunge nulla al suo contenuto fattuale. Così, per esempio, se dico a qualcuno: “Hai agito male rubando quel denaro”, non sto dicendo nulla di più che se avessi detto semplicemente: “Hai rubato quel denaro”. Aggiungendo che questa azione è male, non faccio nessun’altra affermazione in proposito. Vengo semplicemente a mettere in evidenza la mia disapprovazione morale del fatto. È come se avessi detto “Tu hai rubato quel denaro” con un particolare tono di ripugnanza, o lo avessi scritto con l’aggiunta speciale di alcuni punti esclamativi.5

Se poi dal particolare si passa al generale, affermando che “Tradire un amico è una cattiva azione”, o che “Aiutare una persona in difficoltà è una buona azione”, l’unica parte che può essere cognitivamente compresa - seppur non possa essere vera o falsa - è quella che è slegata dall’espressione dei sentimenti morali. È come se avessimo detto “Tradire un amico!!” o “Aiutare una persona in difficoltà!!”, dove i punti esclamativi stanno ad indicare il nostro sentimento di approvazione o disapprovazione morale.

I concetti etici sono pseudo-concetti, non denotano alcun oggetto nel mondo. Quando facciamo asserzioni intorno a termini come, ad esempio, “male” e “bene”, non stiamo connettendo il linguaggio con il mondo, ma con i nostri sentimenti, ciò che suscitano in noi certi fatti o determinate azioni:

5

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[…] in tutti i casi in cui comunemente si direbbe che viene compiuto un giudizio etico, la funzione della parola di specifico rilievo emotivo è puramente “emotiva”. La si impiega per esprimere un sentimento verso certi oggetti, non per fare qualche asserzione in proposito.6

Sostanzialmente il significato di un concetto etico - e quindi dell’enunciato in cui ricorre - viene ricondotto alla sua funzione di esprimere certi sentimenti morali e di suscitare risposte emotive negli interlocutori, influenzandone conseguentemente il modo di agire.

Un corollario della non-autenticità delle proposizioni etiche è che, non essendo passibili di verità o falsità, non possono essere argomento di una discussione razionale. Infatti il nostro interlocutore non potrebbe in nessun modo negare l’espressione di un nostro sentimento rispetto ad un’azione o ad un fatto; potrebbe tuttavia esprimere un diverso sentimento morale rispetto alla medesima circostanza. Ma nessuna delle due risposte emotive - e, per estensione, nessuna espressione morale in generale - potrebbe essere bollata come vera o falsa, perché entrambe non direbbero nulla sulla realtà del mondo esterno: i sentimenti morali sono reazioni a-razionali in relazione con ciò che ci circonda, senza però farne parte.

Tuttavia capita talvolta che ci si imbatta in quelle che sembrano a tutti gli effetti delle dispute su questioni di valore. In questo tipo di discussioni si tende a voler portare l’interlocutore dalla nostra parte, ma per farlo non si cerca di dimostrargli che l’espressione del suo sentimento morale rispetto ad un evento è sbagliata. Si

6

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cerca invece di argomentare in relazione alle circostanze di quell’evento, agli effetti prodotti, alle motivazioni degli agenti, etc. Insomma, si cerca di argomentare sulla natura di ogni aspetto empirico in gioco, nella speranza che, una volta raggiunto un accordo su ogni variabile fattuale in gioco, tale accordo si estenda anche all’atteggiamento morale verso il suddetto evento, nella sua totalità.

Tale speranza è legittimata dal fatto che noi e il nostro interlocutore, venendo dallo stesso ambiente sociale e avendo sviluppato un apparato morale consimile, spesso abbiamo un sistema di valori condiviso.

Il vero problema è quando la disputa avviene con un interlocutore che ha un patrimonio di valori in larga parte differente dal nostro. Non si può semplicemente sostenere che il nostro sistema di valori sia migliore di quello del nostro interlocutore, perché cadremmo al di fuori del piano dell’argomentazione razionale. Si deve accettare il fatto che, essendo i giudizi di valore delle espressioni emotive soggettive, non possono far riferimento ad un sistema di valori universalmente valido, né al nostro né a quello del nostro interlocutore. In questo senso la disputa su questioni morali non può avvenire: non sarebbe una disputa in cui uno dei due interlocutori può aver ragione e l’altro torto. Effettivamente non si tratterebbe neanche di una vera discussione, ma solo di una semplice conversazione.

Alla luce di quanto detto, è possibile disputare su questioni di valore solo quando la discussione è subordinata a quella su questioni di fatto:

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Posto che un individuo abbia certi princìpi morali, ne argomentiamo che, per sua coerenza, egli deve reagire moralmente in un certo modo a certe cose. Ciò su cui non argomentiamo e non possiamo argomentare è la validità di questi princìpi morali. Ci limitiamo a lodarli o condannarli alla luce dei nostri sentimenti.7

Il massimo che possiamo fare, sempre a detta di Ayer, è quello “[…] di descrivere i diversi sentimenti espressi nell’uso dei diversi termini etici e le diverse reazioni che tali termini sogliono provocare”8

- compito questo della psicologia - e di rintracciare le abitudine morali di un individuo o di un gruppo di individui e la determinante di quei comportamenti morali - compito delle scienze sociali.

Di fatto l’emotivismo neopositivista riduceva la morale ad una forma di pseudoconoscenza, poiché gli enunciati che ne fanno parte non hanno alcuna aderenza alla realtà, non ci dicono nulla intorno ad essa, non costituiscono conoscenza, per l’appunto. Si tratta di enunciati che semplicemente esprimono emozioni, stati d’animo, unicamente basati su sentimenti, senza alcun rimando alla dimensione fattuale, a come è fatto il mondo.

Ovviamente il neopositivismo andò incontro a vari problemi di carattere filosofico ed epistemologico, ma quello fondamentale per la nostra trattazione è l’inclusione nella categoria ad hoc del non-senso, non solo di valori morali, ma anche di norme e, nel particolare, norme del metodo scientifico. Infatti enunciati come “Se ci sono due teorie, si deve scegliere quella che spiega maggiormente i

7

A. J. Ayer, Linguaggio, verità e logica, cit., p. 144.

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fatti” costituivano gravi difficoltà per i neopositivisti, perché da una parte li consideravano norme, ma dall’altra includevano la metodologia scientifica tra le discipline empiriche, il che costituiva una palese contraddizione.

Se le norme sono al di fuori della dimensione demarcata dal criterio di significanza e, al tempo stesso, fanno comunque parte del linguaggio scientifico, in quanto elementi della metodologia, allora quest’ultima non può essere considerata, come invece facevano i positivisti logici, una scienza empirica. Diversamente, se la metodologia fosse considerata una disciplina empirica, quindi fondata completamente su asserzione significanti, le norme del metodo scientifico vedrebbero ipso facto legittimato il loro statuto epistemologico.

Nessuna delle due conclusioni poteva essere accettata dai neopositivisti senza venir meno ai principi cardine del proprio sistema filosofico, tant’è che fu loro impossibile assegnare un posto “scientifico” allo stesso metodo della scienza. Da una parte la concezione neopositivista impediva la possibilità di discussioni razionali in etica, svalutando l’essenza dei valori morali, dall’altra minava la credibilità del metodo scientifico.

A questo impasse cercò di mettere fine K. Popper, per il quale il metodo scientifico era ciò che rendeva la scienza ciò che è, un’attività continua e che ha come scopo la ricerca della verità, una disciplina che non si fonda su certezze immuni dal controllo del senso critico, ma sull’idea che la conoscenza sia qualcosa che si costruisce mettendo in discussione, ripetutamente, tutto ciò che ne fa parte.

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Il fine della scienza non è dunque la costruzione di un sistema di certezze che, una volta terminato, non occorre sia ulteriormente soggetto a revisioni, ma piuttosto una ricerca progressiva e mai finita della verità. Il valore a cui tende la ricerca scientifica è dunque la verità, ma soltanto come ideale regolativo:

Una conseguenza di tale concezione è che dobbiamo distinguere chiaramente tra

verità e certezza. Aspiriamo alla verità, e spesso possiamo raggiungerla, anche se

accade raramente, o mai, che possiamo essere del tutto certi di averla raggiunta (un uomo può scalare una montagna nella nebbia, e può non essere certo di aver raggiunto la vetta, ma egli può effettivamente averla raggiunta, e raggiungere la vetta può non essere impossibile). La certezza non è un obiettivo degno di essere perseguito dalla scienza. La verità lo è.9

E ancora, scrive sempre Popper:

Il giuoco della scienza è, in linea di principio, senza fine. Chi, un bel giorno, decide che le asserzioni scientifiche non hanno più bisogno di nessun controllo, e si possono ritenere verificate definitivamente, si ritira dal giuoco.10

Al contrario di quanto sostenevano con fervore i neopositivisti, per Popper è possibile un disaccordo genuino su questioni fattuali, perché non esistono osservazioni neutrali, indipendenti dal punto di vista teorico dell’osservatore. La

9

K. Popper, Congetture e confutazioni, trad. it. G. Pancaldi (a cura di), il Mulino, Bologna, 1972, prefazione all’ed. italiana, p. X.

10

K. Popper, Logica della scoperta scientifica, trad. it. M. Trinchero (a cura di), Einaudi, Torino, 2010, pp. 37-38.

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neutralità dell’osservazione non si situa nell’effettivo momento in cui si osserva, ma precedentemente, quando le aspettative teoriche degli osservatori non hanno ancora influenzato tale osservazione:

Venticinque anni or sono, cercai di far capire questo punto a un gruppo di studenti in fisica, a Vienna, incominciando la lezione con le seguenti istruzioni: «prendete carta e matita; osservate attentamente e registrate quel che avete osservato!». Essi chiesero, naturalmente, che cosa volevo che osservassero. È chiaro che il precetto: «osservate» è assurdo. E non è neppure idiomatico, se l’oggetto del verbo transitivo non può considerarsi sottointeso. L’osservazione è sempre selettiva. Essa ha bisogno di un oggetto determinato, di uno scopo preciso, di un punto di vista, di un problema. E la descrizione che ne segue presuppone un linguaggio descrittivo, con termini che designano proprietà; presuppone la similarità e la classificazione, che a loro volta presuppongono interessi, punti di vista e problemi.11

Ogni osservazione di fenomeni non è pura, poiché quest’ultimi sono comprensibili soltanto all’interno di un modello teorico interpretativo, consolidatosi precedentemente all’osservazione stessa. Ad esempio, lo scienziato non saprebbe cosa osservare o dove dirigere la propria indagine se non possedesse delle pre-nozioni relative all’oggetto della sua ricerca. Dunque, l’osservazione presuppone una “predisposizione” a osservare, vale a dire un vocabolario di base con il quale poter interpretare ciò che si analizza e che

11

K. Popper, Congetture e confutazioni, trad. it. G. Pancaldi (a cura di), il Mulino, Bologna, 1972, p. 84.

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costituisce l’orizzonte delle nostre aspettative: la nostra cultura, la nostra educazione, la nostra formazione determinano degli scenari mentali grazie ai quali possiamo indagare i fenomeni.

Il disaccordo fattuale è quindi non solo legittimo ma anche razionalmente risolvibile; e lo è facendo ricorso alla metodologia, a quell’insieme di strumenti che permettono allo scienziato di valutare l’eventuale discrepanza sui fatti da un livello superiore, dal quale, in linea di principio, si dovrebbe comprendere l’origine del disaccordo.

Tuttavia, quand’anche gli scienziati non dovessero trovarsi d’accordo su quali siano le regole metodologiche con il quale valutare il disaccordo fattuale o il modo in cui si debbano applicare, è sufficiente riconsiderare il fine della scienza che, come si concederà, è condivisibile da tutti gli scienziati ed è la ricerca della verità. Se dunque gli scienziati accettano come fine dell’indagine scientifica la verità - per Popper l’unico possibile - allora ogni disaccordo metodologico e fattuale può essere risolto in modo razionale.

Nella fattispecie se si vuol tendere verso la verità è necessario adottare un determinato insieme di regole metodologiche, vale a dire - a detta del filosofo - le regole del falsificazionismo. Una teoria può dirsi scientifica soltanto se i suoi asserti possono essere contraddetti alla luce del controllo empirico. Dunque, “[…] il criterio dello stato scientifico di una teoria è la sua falsificabilità,

confutabilità, o controllabilità”.12

Quello che emerge è un modello gerarchico della razionalità scientifica, in cui il disaccordo ad un livello inferiore, che sia quello fattuale o quello metodologico,

12

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può essere risolto facendo riferimento al livello superiore, fino a giungere al livello assiologico, quello dei fini della scienza, che si ritiene sia condivisibile da tutti gli scienziati.

Nel quadro concettuale in cui si muove Popper non solo le norme scientifiche sono razionalmente giustificabili, ma anche valori e speculazioni metafisiche hanno un ruolo nel progresso scientifico, seppur psicologico piuttosto che epistemologico.

Molte teorie scientifiche allo stato embrionale non sono nulla più che speculazioni metafisiche, intese come una sintesi di intuizione ed immaginazione, senza il supporto di fatti reali come fondamento. Si pensi all’atomismo di Democrito, che nel mondo di oggi è uno dei presupposti della moderna fisica quantistica; e questo non è che un esempio del confine non così sostanziale fra speculazioni metafisiche e teorie scientifiche.

Fondamentalmente c’è una rivalutazione dei valori e della metafisica; ma scienza e fatti hanno un diverso tipo di statuto ontologico, oltre che epistemologico. Fatti e valori sono ancora inconciliabili, sia perché i valori non sono razionalmente giustificabili alla luce dei fatti, sia perché l’intromissione dei valori nel cuore della ricerca scientifica ne delegittimerebbe l’autorità e l’oggettività.

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2. Kuhn e la nuova filosofia della scienza

2.1 La storia della scienza: fase normale e fase rivoluzionaria

Se c’è un filosofo che più di tutti ha contribuito a mettere in discussione la dicotomia fatti/valori, che fino a quel momento aveva mantenuto un’aura di dogmaticità, quello è sicuramente T. Kuhn.

La prospettiva di Kuhn fu dettata da un nuovo modo di pensare la stessa impresa scientifica, da un nuovo modo di comprendere e spiegare il progresso scientifico. Intrecciando l’indagine epistemologica con la storia della scienza, mostrò infatti come la scienza fosse caratterizzata dall’alternanza di due fasi: la fase normale e la fase rivoluzionaria.

La fase normale, quella che il filosofo chiama scienza normale, è una ricerca fondata su uno o più risultati raggiunti dalla scienza in passato e assunti dalla stessa comunità scientifica come fondamento per ulteriori ricerche. In questa fase la scienza opera sulla base di determinati principi, consolidati nel tempo, e secondo procedute acquisite e divenute abituali:

[…] ‘scienza normale’ significa una ricerca stabilmente fondata su uno o su più risultati raggiunti dalla scienza del passato, ai quali una particolare comunità

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scientifica, per un certo periodo di tempo, riconosce la capacità di costituire il fondamento della sua prassi ulteriore.13

Questa fase storica si fonda sulla condivisione di un paradigma da parte della maggioranza degli scienziati, dei gruppi di ricerca e delle comunità scientifiche. Il paradigma - la chiave di volta del pensiero di Kuhn - è caratterizzato da un sistema sufficientemente articolato e integrato di modelli di ricerca, pratiche sperimentali e teorie. Sostanzialmente un paradigma è una “visione del mondo”, attraverso la quale vengono accettati determinati problemi, determinate soluzioni e determinate metodologie per raggiungere tali soluzioni.

Lo scopo della scienza nella fase normale è quello di gestire le conoscenze acquisite, ragion per cui nelle “condizioni normali” lo scienziato non è un innovatore, ma cerca di risolvere i problemi che gli si presentano all’interno del quadro concettuale definito dal paradigma stesso, ovvero sulla base delle nozioni e dei metodi della tradizione scientifica esistente. Quindi, in questa fase, ogni fatto viene interpretato alla luce del paradigma vigente e qualsiasi innovazione teorica che devii dalla struttura concettuale del paradigma non viene tollerata, anzi viene ipso facto rifiutata.

Tuttavia non sempre gli scienziati riescono a risolvere i nuovi problemi che si presentano - “rompicapo” nel linguaggio kuhniano - con gli strumenti forniti dal paradigma. Ma, dal momento che nella prospettiva di Kuhn i rompicapo sono occasioni per lo scienziato di mettere alla prova le proprie capacità, la mancata

13

T. Kuhn, La struttura delle rivoluzioni scientifiche, trad. it. A. Carugo (a cura di), Einaudi, Torino, 2009, p. 29.

(24)

soluzione di questi rappresenterebbe una colpa per lo scienziato, non per la teoria:

[…] quando è impegnato in un normale problema di ricerca, lo scienziato deve

premettere come regole del gioco la teoria corrente stessa. Il suo scopo è quello di

risolvere un rompicapo, preferibilmente uno in cui gli altri ricercatori hanno fallito e la teoria corrente è necessaria per definire quel rompicapo e per garantire che, data una sufficiente vivezza di ingegno, esso possa essere risolto.14

Senza contare che un paradigma è un intreccio di credenze, scientifiche e “metafisiche”, così complesso che non può essere bollato come falso alla luce di qualche contro-esempio.

Nondimeno, quando questi rompicapo senza soluzione si moltiplicano e non c’è modo di risolverli all’interno della dimensione teorica del paradigma, allora diventano vere e proprie anomalie, inspiegabili alla luce del modello consolidato, che, di conseguenza, inizia a perdere la propria forza attrattiva. Si apre così un periodo di crisi che dà avvio a quella che Kuhn chiama rivoluzione scientifica. Nella fase rivoluzionaria si assiste al proliferare di nuove teorie, in competizione fra loro, che aspirano alla spiegazione dei fatti emersi, ormai rompicapo insolubili nell’ottica del sapere tradizionale, fino quando - alla fine di un processo lungo, complesso e non lineare - il vecchio paradigma verrà abbandonato, in favore di uno alternativo. Il nuovo paradigma, cioè quello che ha

14

T. Kuhn, Logica della scoperta o psicologia della ricerca?, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, trad. it. G. Giorello (a cura di), Feltrinelli, Milano, 1980, p. 73.

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avuto la meglio sugli altri candidati, inizierà così la sua battaglia per l’accettazione e, una volta ritenuto degno di fiducia, otterrà il consenso - altro concetto chiave del pensiero di Kuhn - della comunità scientifica e diverrà il paradigma vigente, aprendo così un nuovo periodo di scienza normale.

Il consenso è dunque l’unità di misura sulla base della quale un nuovo paradigma viene accettato.

2.2 I valori epistemici e la scelta fra teorie rivali

Dalla concezione dell’indagine scientifica di Kuhn emergono due delle sue tesi principali.

1. Il progresso scientifico non è un progresso assoluto, ma un progresso relativo, cioè è un progresso non “verso dove/qualcosa”, ma “a partire da”. 2. Il progresso scientifico non è cumulativo, non è quindi basato sull’estensione del vecchio paradigma, tale che il nuovo paradigma, oltre a ereditare problemi, soluzioni e metodi di quello vecchio, ne crei di nuovi. Ѐ piuttosto un ri-orientamento del quadro teorico, nella misura in cui vengono modificati, almeno in parte, teorie, metodi e applicazioni: sostanzialmente ci sono dei guadagni e delle perdite:

La transazione da un paradigma in crisi ad uno nuovo, dal quale possa emergere una nuova tradizione di scienza normale, è tutt’altro che un processo cumulativo, che si attui attraverso un’articolazione o un’estensione del vecchio paradigma. Ѐ piuttosto una ricostruzione del campo su nuove basi, una ricostruzione che

(26)

modifica alcune delle più elementari generalizzazioni teoriche del campo, così come molti metodi e applicazioni del paradigma.15

Per il tema della nostra trattazione è importante soprattutto la seconda tesi. È banalmente vero che scienza si fonda sui fatti, su ciò che è osservabile, evidente, giustificabile, ma è altrettanto vero che, se considerassimo i soli fatti, presi isolatamente, non saremmo in grado di spiegare l’evolversi della progresso scientifico nel corso della storia, né tantomeno i motivi che talvolta hanno spinto gli scienziati ad abbandonare una teoria in favore di un'altra.

Nel passaggio dal vecchio al nuovo paradigma ci sono dunque guadagni e perdite, che diventano oggetto di valutazione per gli scienziati, poiché sono proprio quest’ultimi che interpretano i fatti, che li confrontano alla luce di una teoria piuttosto che di un’altra.

In questo senso Kuhn inverte la tendenza consolidata nel tempo - con le dovute eccezioni - a separare nettamente ciò che è fondamentale per la scienza, i fatti, da ciò che non lo è, ma che anzi ne compromette l’oggettività, i valori.

Quello che era stato sempre considerato un rapporto a due, tra fatti e teoria, sia che si trattasse del principio di verificazione neopositivista o del falsificazionismo popperiano, diventa dunque un rapporto a tre, una relazione che chiama in causa i fatti e (almeno) due teorie, una relazione nella quale i valori epistemici assumono dunque un ruolo non solo rilevante ma basilare:

15

(27)

Tutte le teorie storicamente significative si sono accordate coi fatti, ma soltanto più o meno. Non esiste una risposta precisa alla questione se o in quale misura una particolare teoria si adatta ai fatti. Però, quando le teorie vengono considerate collettivamente, o anche due a due, questioni del genere acquistano un senso. È infatti legittimo chiedersi quale di due teorie determinate e in competizione tra loro si adatta meglio ai fatti.16

La strategia argomentativa del filosofo è stata dunque quella di spostare il problema dei valori nella scienza su un altro livello: questi entrano in gioco non solo quando lo scienziato con il suo ingegno riesce a “produrre” elementi teorici - durante il contesto della scoperta, per usare una terminologia cara ai neopositivisti - che poi andranno analizzati alla luce dell’esperienza osservativa, ma anche quando si tratta di giustificare quegli stessi elementi teorici - durante il contesto del controllo - in particolar modo quando egli deve scegliere fra due teorie in competizione.

Ed è proprio quando lo scienziato deve scegliere fra teorie rivali, quando deve quindi soppesare guadagni e perdite derivanti dall’accettazione di una piuttosto che di un’altra, che i valori giocano un ruolo fondamentale nel progresso scientifico.

La stessa storia della scienza ha fornito - e fornisce tutt’ora - moltissimi esempi di come l’abbandono di una teoria in favore di un'altra sia un processo lungo, in larga parte inconscio e sempre influenzato da valori epistemici quali la semplicità, l’accuratezza, la coerenza, la prospettiva e la redditività. Ma questi

16

(28)

valori, elencati da Kuhn nel saggio Oggettività, giudizio di valore e scelta della

teoria, non sono - per sua stessa ammissione - gli unici sui quali può fondarsi la

scelta di una teoria. Semplicemente sono quelli emersi analizzando le scelte fra teorie rivali nel corso della storia della scienza fino a quel momento.

L’accuratezza, ad esempio, rappresentò l’ago della bilancia che spinse molti scienziati a convertirsi alla teoria di Copernico - dopo le migliorie apportate da Keplero - oppure che convinse buona parte dei chimici del ‘700 ad abbracciare la teoria di Lavoiser. In entrambi i casi l’accordo quantitativo con la realtà dell’esperienza costituì il fattore determinante nell’adesione ad una teoria piuttosto che alla sua rivale:

La superiorità quantitativa delle tavole rudolfine di Keplero rispetto a tutte quelle calcolate sulla base della teoria tolemaica fu uno dei fattori più importanti nella conversione degli astronomi al copernicanesimo. Il successo riportato da Newton nel prevedere alcuni fenomeni astronomici sotto l’aspetto quantitativo fu probabilmente l’unica ragione veramente importante per il trionfo della sua teoria su altre teorie avversarie, le quali erano più ragionevoli ma sempre solo qualitative. E nel nostro secolo, la notevole capacità di previsione quantitativa sia della legge della radiazione di Plank che dell’atomo di Bohr persuasero rapidamente molti fisici ad adottarli, anche se, considerando la scienza fisica nel suo complesso, entrambi questi contributi crearono molti più problemi di quanti ne risolsero.17

17

(29)

Ancora, la semplicità del modello astronomico keplero-copernicano rispetto a quello tolemaico fu per Galileo un valore troppo importante per essere lasciato da parte, a tal punto che egli abbracciò la teoria copernicana prima ancora che fosse definitivamente dimostrata.

Questi valori epistemici condizionano la scelta interteorica non come rigide regole da seguire, ma come criteri che influenzano la selezione, come degli indicatori per la “verità” di una teoria.

La storia della scienza ha ampiamente dato dimostrazione della rilevanza di questi valori per il progresso scientifico, rilevanza la cui tacita accettazione venne portata alla luce proprio da Kuhn attraverso lo studio e l’analisi di casi storici. Infatti l’algoritmo che con il tempo sarebbe stato costituito da regole che avrebbero dettato agli scienziati scelte unanimi, altro non fu che il tentativo, perseverato a lungo, di spiegare come certe scelte venissero fatte dagli specialisti e, al tempo stesso, di giustificare quelle scelte in base all’oggettività di quello che rimase per molto tempo un ideale regolativo:

Per un certo tempo perciò, essi poterono ragionevolmente attendersi che ulteriore ricerca avrebbe eliminato imperfezioni residue e prodotto un algoritmo in grado di dettare scelte razionali e unanimi. In attesa di questo risultato, gli scienziati non avrebbero alternativa a quella di fornire soggettivamente ciò che la migliore lista disponibile di criteri oggettivi ancora non fornisce.18

18

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

(30)

Tuttavia, sia che vengano intesi come rigide regole algoritmiche sia che vengano intesi come indicatori per la scelta di una teoria, questi criteri di scelta presentano delle difficoltà nel momento della loro effettiva applicazione da parte degli scienziati.

La prima difficoltà ha a che fare con il significato e deriva dal fatto che ci può essere una divergenza di idee tra gli scienziati nel traslare i criteri dal piano astratto-teorico a quello dell’esperienza, cioè nell’applicare i criteri a casi concreti.

Un caso storico che esemplifica bene questa difficolta è la lotta fra la teoria del flogisto e la teoria dell’ossigeno di Lavoiser:

La teoria dell’ossigeno, per esempio, fu universalmente riconosciuta in grado di spiegare le relazioni di peso osservate nelle reazioni chimiche, caso che la teoria del flogisto aveva raramente tentato prima di fare. Ma la teoria del flogisto, a differenza della sua rivale, poteva spiegare il fatto che i metalli erano molto più simili tra di loro dei minerali da cui erano estratti.19

Per Lavoiser il valore dell’accuratezza doveva essere interpretato come un accordo quantitativo con l’esperienza, mentre i teorici del Flogisto, come Priestley ad esempio, erano convinti che una teoria accurata non potesse prescindere dalla spiegazione delle qualità dei metalli. Quindi una teoria si accordava con un certo aspetto dell’esperienza, l’altra teoria con un aspetto diverso, ma non per questo “sbagliato” o comunque meno giusto. E molto

19

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

(31)

probabilmente la vittoria della chimica di Lavoiser e dell’accuratezza come accordo quantitativo fu dettata anche dall’evoluzione della fisica newtoniana dei precedenti decenni, che ne fece una disciplina completamente votata a relazioni di quantità.

Poco interessò allora che la teoria del flogisto potesse spiegare perfettamente le relazioni qualitative dei metalli, perché semplicemente quel problema non sussisteva più alla luce del nuovo paradigma.

Insomma, il valore che aveva dettato la scelta della teoria di Lavoiser, l’accuratezza, era lo stesso valore perseguito dai teorici del flogisto. Quello che cambiava era il peso attribuito ad un certo tipo di esperienza.

La seconda difficoltà riguarda invece l’applicazione congiunta di criteri a casi concreti, dal momento che questa potrebbe portare a contraddizioni nelle scelte. Infatti, nel corso della storia della scienza, ci sono stati casi in cui una teoria era, ad esempio, più coerente della sua avversaria, la quale, tuttavia, era più accurata della prima. Sostanzialmente, è possibile che questi valori epistemici possano confliggere fra loro, facendo della scelta della teoria una questione ancor più complessa.

Questo è il tipo di problema che emerse durante la lotta fra la teoria geocentrica e quella eliocentrica. In tal senso, Kuhn fa notare:

In quanto teorie astronomiche sia quella di Copernico che quella di Tolomeo erano internamente coerenti, ma la loro relazione con le teorie attinenti negli altri campi erano molto diverse. La terra ferma al centro era un ingrediente essenziale della teoria fisica accettata, un corpo di dottrine strettamente collegate che

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spiegava, tra le altre cose, come cadono le pietre, come funzionano le pompe ad acqua e perché le nuvole si muovono lentamente nel cielo. L’astronomia eliocentrica, che richiedeva il movimento della terra, non era in accordo con le spiegazioni scientifiche esistenti di questo ed altri fenomeni terrestri. Il criterio di coerenza perciò, di per sé, si esprimeva in modo inequivocabile a favore della tradizione geocentrica.

La semplicità tuttavia favoriva Copernico, ma solo quando veniva valutata in un modo molto particolare. Se da un lato i due sistemi fossero stati posti a confronto nei termini dell’effettivo lavoro di calcolo richiesto per prevedere la posizione di un pianeta ad un preciso istante, allora essi si dimostravano sostanzialmente equivalenti. […] Se d’altro canto ci si interrogava sulle dimensioni dell’apparato matematico richiesto per spiegare, non i movimenti quantitativamente dettagliati dei pianeti, ma semplicemente le loro caratteristiche qualitative approssimate - l’elongazione limitata, il moto retrogrado e cose simili - allora come sanno tutti gli studenti, Copernico richiedeva un solo circolo per pianeta e Tolomeo due. In questo senso la teoria copernicana era la più semplice, fatto di importanza essenziale per le scelte fatte sia da Keplero che da Copernico e quindi essenziale per il definitivo trionfo del Copernicanesimo.20

Nessuna lista di criteri, quand’anche fossero regole, sarebbe in grado di eliminare un possibile disaccordo sul peso specifico da attribuire all’aspetto esperienziale denotato dal significato di tali criteri, presi singolarmente, né tantomeno di favorire indiscutibilmente un accordo sostanziale su quale di questi criteri,

20

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

(33)

qualora fossero applicati in modo congiunto, sia più importante e quale invece lo sia di meno.

Per completare il quadro storico-concettuale del progresso scientifico è dunque necessario spingersi oltre questi criteri condivisi - idealmente oggettivi - “[…] per giungere fino alle caratteristiche degli individui che fanno la scelta”21 poiché,

nonostante sia fondamentale che questi fattori influenzino la scelta fra teorie rivali, “essi non sono da soli sufficienti a determinare le decisioni dei singoli scienziati”.22

Infatti, scrive ancora Kuhn:

[…] la scelta della teoria può essere spiegata solo in parte da una concezione che attribuisce le stesse caratteristiche a tutti gli scienziati che devono fare la scelta. Aspetti essenziali del processo noto in generale come conferma sono comprensibili solo facendo ricorso alle caratteristiche rispetto alle quali gli uomini possono differenziarsi pur rimanendo ancora scienziati.23

Questi elementi soggettivi, “criteri individuali”, vanno ricercati nella biografia dello scienziato, come, ad esempio, la disciplina della quale si occupava al momento della scelta, o quanto e in che misura il suo lavoro è stato messo in crisi dalla nuova teoria, etc. Altri fattori di questo tipo fanno riferimento alle inclinazioni personali, intese però in una prospettiva scientifica in senso stretto.

21

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

tensione essenziale, cit., p. 356.

22

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La tensione essenziale, cit., p. 356.

23

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La tensione essenziale, cit., p. 367.

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Infatti è possibile che alcuni scienziati preferiscano teorie unificate che spieghino più fenomeni mentre altri, in modo diametralmente opposto, optino per teorie più specifiche ma che risolvano problemi in modo più preciso e dettagliato. O ancora, alcuni scienziati potrebbero essere più portati a “rischiare” e a puntare sull’originalità delle teorie mentre altri potrebbero esserlo di meno.

Ci sono poi criteri individuali che esulano dalla sfera scientifica e hanno a che fare con le influenze soggettive degli scienziati, influenze legate al periodo storico di provenienza, tant’è che non sarebbe sbagliato chiamarle “pressioni storiche”:

La precoce scelta del Copernicanesimo fatta da Keplero fu dovuta in parte all’influsso su di lui del movimento neoplatonico ed ermetico dei suoi giorni; il romanticismo tedesco predispose coloro che ne erano influenzati, sia verso il riconoscimento, che verso l’accettazione della conservazione dell’energia; il pensiero sociale inglese del XIX secolo ebbe una analoga influenza sulla disponibilità e accettabilità della concezione darwiniana della lotta per l’esistenza.24

Certamente quest’ultimo tipo di caratteristiche individuali è quello che più di tutti gli altri si avvicina pericolosamente al gusto e alla preferenza personali, ma è altresì vero che queste influenze non vanno considerate alla stregua di mere preferenze soggettive a-razionali. Sono piuttosto un tentativo, quasi sempre inconscio, di accompagnare la razionalità della scelta con spunti extra-scientifici.

24

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

(35)

La tesi di Kuhn è dunque quella secondo cui “ogni scelta individuale tra teorie in competizione dipenda da un insieme di fattori soggettivi ed oggettivi o di criteri individuali e condivisi”.25

L’insieme di criteri, condivisi e individuali, sopracitato va a costituire ciò che di più vicino ci può essere ad un algoritmo di scelta, con la differenza che, anche ipotizzando un progresso che tenda all’infinito, non ci sarà mai la garanzia che questo detti scelte unanimi agli scienziati.

Si possono comprendere, almeno in parte, le accuse di irrazionalismo mosse nel tempo a Thomas Kuhn. A detta dei suoi critici, facendo della scienza una questione di consenso, di persuasione, di valori che influenzano la scelta teorica, di elementi soggettivi, di forza degli argomenti, si rischierebbe di renderla debole dal punto di vista epistemico. Di conseguenza, in tal senso, non avrebbe la meglio lo scienziato con le teorie più vere, ma quello con le teorie meglio argomentate:

Colui che abbraccia un nuovo paradigma fin dall’inizio, lo fa a dispetto delle prove fornite dalla soluzione di problemi. […] Una decisione di tal genere può essere presa soltanto sulla base della fede. […] Vi deve essere qualcosa che dia, almeno a pochi scienziati, la sensazione che la nuova proposta è sulla strada giusta, e talvolta sono semplicemente considerazioni personali o considerazioni estetiche inarticolate che possono avere questo effetto.26

25

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

tensione essenziale, cit., p. 357.

26

(36)

A questo proposito, I. Lakatos sostiene che “Per Kuhn il mutamento scientifico - da un “paradigma” ad un altro - è una conversione mistica che non è, e non può essere, governata da regole razionali e che ricade totalmente nell’ambito della

psicologia (sociale) della scoperta”27 e che, in tal modo, egli fa della rivoluzione scientifica - e della scienza in generale - “materiale adatto per la psicologia della

folla”.28

La critica di Lakatos sarebbe legittima esclusivamente nell’ottica di una scienza che sia “dogmaticamente” razionale. In tal critica si percepisce infatti ancora l’influsso dell’algoritmo ideale così tanto bramato dai neopositivisti e che, anche se in seguito abbandonato, continuò a lungo ad esercitare un certo fascino.

In realtà quello che nega Kuhn non è che ci debbano essere ragioni razionalmente giustificabili dietro la scelta di una teoria, bensì che queste possano costituire - né ora né mai - un insieme completo e unico di regole in grado di indirizzare gli scienziati verso scelte unanimi senza alcun margine di disaccordo:

Ciò che nego non è l’esistenza di buone ragioni e neppure che queste ragioni siano del tipo che è descritto di solito. Tuttavia insisto che queste ragioni costituiscono dei valori da usarsi per fare delle scelte, piuttosto che delle regole di scelta. Gli scienziati che li condividono possono, nondimeno, fare scelte differenti nella stessa situazione concreta.29

27

I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, cit., p. 166.

28

I. Lakatos, La falsificazione e la metodologia dei programmi di ricerca scientifici, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita della conoscenza, cit., p. 256.

29

T. Kuhn, Riflessioni sui miei critici, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita

(37)

Lo slittamento concettuale sta nel riuscire a vedere nelle regole algoritmiche, le quali per loro stessa natura sarebbero incomplete, dei valori epistemici che, al contrario, avrebbero il vantaggio di funzionare ad un livello extra-razionale. I valori sarebbero cioè in grado di fornire un’indicazione per la scelta interteorica anche laddove questa si dimostrasse problematica per i motivi già citati in precedenza, opzione che non sarebbe possibile se ci si affidasse - nelle stesse condizioni problematiche - alla rigidità dell’algoritmo di scelta.

La rilevanza dei valori cognitivi e delle caratteristiche individuali degli scienziati nel cuore dell’indagine scientifica non rappresentano dunque un ostacolo al progresso scientifico, piuttosto ne costituiscono il presupposto essenziale.

D’altra parte, se esistesse un algoritmo condiviso, tutti gli scienziati prenderebbero le stesse decisioni nello stesso momento. Ma se così fosse, al vaglio di criteri di accettazione troppo severi, non ci sarebbe spazio per l’innovazione teorica, oppure, nel caso di criteri troppo larghi, gli scienziati si muoverebbero in massa verso teorie più attraenti senza valutare le medesime possibilità della teoria corrente.

Tuttavia si dà il caso che questo non è il modo di procedere della scienza:

[…] prima che il gruppo l’accetti, una nuova teoria deve essere verificata a lungo dalle ricerche di un certo numero di scienziati, alcuni che lavorano utilizzandola, altri che lavorano utilizzando la sua rivale tradizionale. Queste modalità di sviluppo, tuttavia, richiedono un processo decisionale che permetta agli uomini

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razionali di non essere d’accordo, e tale disaccordo sarebbe impedito dall’algoritmo condiviso che i filosofi hanno in generale ricercato.30

La variabilità di giudizio determinata dall’insieme di valori che uno scienziato adotta “può persino essere essenziale per il progresso scientifico”31, sia perché è circoscritta dal disaccordo fra uomini razionali, sia perché permette agli specialisti di articolare le proprie teorie in modo tale che - sempre mantenendo quel senso critico costitutivo dell’indagine scientifica - non vengano abbandonate al primo problema, al primo contro-esempio.

Il disaccordo razionale tra scienziati e la variabilità di giudizio non solo giocano un ruolo fondamentale nel progredire della scienza, ma forniscono la giustificazione storica del perché quella scientifica sia una disciplina così dinamica.

Lo sbaglio compiuto da molti filosofi della scienza, a detta di Kuhn, è stato quello di aver pensato che la scienza fosse governata interamente da regole razionali e che la scelta fra teorie rivali fosse dettata, sempre e in ogni caso, dalla più trasparente oggettività dello scienziato. Di conseguenza l’unico disaccordo che questi consideravano ammissibile era quello sui fatti. Mai avrebbero pensato che, non solo la scelta scientifica fosse guidata da valori, ma anche che su questi valori si potesse discutere rimanendo uomini razionali, rimanendo scienziati:

30

T. Kuhn, Oggettività, giudizio di valore e scelta della teoria, in T. Kuhn (a cura di), La

tensione essenziale, cit., p. 365.

31

T. Kuhn, Riflessioni sui miei critici, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita

(39)

[Quello di Kuhn è] un tentativo di mostrare che le teorie della razionalità esistenti non sono affatto completamente corrette e che dobbiamo riadattarle o modificarle per spiegare perché la scienza lavora in un certo modo. Supporre, invece, di avere criteri di razionalità che sono indipendenti dalla nostra comprensione di quelli che sono i tratti essenziali del progresso scientifico, è aprire le porte al paese delle nuvole.32

Una delle più grandi critiche rivolte a Kuhn è quella, come già sottolineato, secondo cui l’introduzione di fattori soggettivi nella ricerca scientifica priverebbe la scienza di qualsiasi oggettività, distruggendo l’oggettività stessa.

In realtà il filosofo non ha fatto altro che rintracciare nella storia della scienza una serie di elementi, procedure, intuizioni che hanno guidato la scelta interteorica e che hanno facilitato il progresso scientifico, mostrando così che la scienza è una disciplina oggettiva proprio perché non fa esclusivamente riferimento ad elementi oggettivi. Diversamente, se il progresso scientifico fosse “controllato” e “direzionato” oggettivamente - nel senso che avrebbero voluto i Neopositivisti, ad esempio - non potrebbe assumere aspetti diversificati e prolifici come in realtà fa.

Ammettere che la scelta della teoria sia dettata, in certe situazioni, anche da fattori dipendenti dalla biografia o dalla personalità dello scienziato in modo da facilitare l’applicazione dei valori epistemici, non significa privare la scienza degli standard di fattualità e di realtà che le appartengono; né tantomeno significa distruggere la sua oggettività, piuttosto è un modo di mostrarne i limiti.

32

T. Kuhn, Riflessioni sui miei critici, in I. Lakatos e A. Musgrave (a cura di), Critica e crescita

(40)

3. Fatti, metodologie e valori: il modello reticolare di Laudan

3.1 La risoluzione del disaccordo lungo la catena gerarchica

Se Popper ha favorito la diffusione dell’idea che le dispute fattuali e metodologiche possano essere discusse e risolte in modo razionale e Kuhn ha mostrato come la scelta fra teorie rivali sia sempre determinata da un insieme di valori, L. Laudan, facendo un passo in avanti nella questione dell’incompatibilità tra fatti e valori, ha sostenuto non solo che la scelta teorica sia influenzata da valori epistemici e che questi possano essere argomentati, ma anche che, specularmente, tali valori debbano accordarsi con la pratica teorica.

Una simile connessione fra l’assiologia e la dimensione fattuale a cui fa riferimento lo scienziato mostra uno dei tre anelli che costituiscono il modello reticolare della razionalità scientifica introdotto da Laudan. Un tipo di razionalità che viene strutturata su piani in continua interdipendenza, senza che uno possa essere univocamente subordinato ad un altro. In tal senso, fatti, metodologia e valori agiscono gli uni sugli altri in modo tale che gli scienziati possano giustificare le loro scelte e risolvere l’eventuale disaccordo che può formarsi su ogni piano.

La pars destruens dell’analisi del filosofo mira a porre in discussione la plausibilità del modello gerarchico della giustificazione, un modello che fino a quel momento ha accompagnato la spiegazione di come il consenso scientifico si

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formi attorno alle teorie, anche nei casi più difficili, garantendo così il progresso dell’indagine scientifica. Invece la pars costruens si propone di offrire un modello della razionalità scientifica che non solo sia in grado di sopperire ai limiti del modello gerarchico, ma che, nello stesso tempo, possa superare l’impasse epistemologico del disaccordo interparadigmatico inteso come limite invalicabile per i processi razionali.

Il modello gerarchico della razionalità scientifica, come abbiamo visto con Popper, fornisce la spiegazione delle risoluzioni delle dispute fattuali e di quelle metodologiche, facendo riferimento ogni volta ad un livello superiore rispetto a quello dove è situato il disaccordo.

In questo modo, ogniqualvolta gli scienziati si trovino in disaccordo su questioni fattuali, cioè su quelle asserzioni che fanno riferimento a ciò che c’è nel mondo, possono giungere alla risoluzione del disaccordo facendo appello a delle regole metodologiche condivise che mostrino la forza del sostegno evidenziale di ciascun asserzione. Il ricorso a regole evidenziali per la risoluzione di dispute fattuali altro non è che una versione moderna dell’algoritmo neopositivista, anche se più cauta dell’originaria:

Talvolta, comunque, gli scienziati non sono d’accordo su quali siano le regole evidenziali o procedurali appropriate, oppure sul modo in cui tali regole debbano essere applicate al caso presente.

In tali circostanze, non è più possibile trattare le regole come uno strumento non problematico per risolvere il disaccordo fattuale. Quando ciò avviene, risulta

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chiaro che un particolare disaccordo fattuale denota un più profondo disaccordo metodologico.33

In modo analogo alla risoluzione delle dispute fattuali, il disaccordo su questioni metodologiche può essere risolto salendo di un livello la scala gerarchica, facendo riferimento agli obbiettivi condivisi della scienza. I valori perseguiti dagli scienziati forniscono infatti il metro di valutazione per le regole metodologiche usate per raggiungere tali valori.

Se due scienziati non sono d’accordo su quale sia la metodologia da adottare in un certo campo dell’indagine scientifica, secondo il modello gerarchico, è sufficiente che facciano riferimento ai fini della scienza - assumendo che siano i medesimi per entrambi. In queste condizioni ottimali, i due scienziati saranno dunque in grado di determinare quale siano le regole metodologiche che con maggior efficacia potrebbero consentire di raggiungere gli scopi prefissati. Una volta giunti al livello assiologico, quello dei fini della scienza appunto, la struttura gerarchica cessa di essere un modello di giustificabilità razionale del disaccordo scientifico, perché una disputa su quali siano gli obbiettivi dell’impresa scientifica - ammesso e non concesso che ci possa essere - non può essere giustificata né risolta da alcunché: sui valori non si può discutere.

Il modello gerarchico della giustificazione fornisce dunque una spiegazione efficace di come sia possibile la formazione del consenso scientifico, cioè di come gli scienziati che si trovano in disaccordo su quale evidenza empirica sia rilevante o sull’insieme di norme a cui fare riferimento per interpretare il

33

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