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Concetti spessi nel cuore dell’indagine scientifica

4. Lo statuto epistemologico dei valori morali

4.3 Concetti spessi nel cuore dell’indagine scientifica

Nonostante il dibattito sui termini spessi sia nato in ambito squisitamente morale e che, come abbiamo già fatto notare, sia stato funzionale alla rivelazione di un rilevante falla nella teoria non cognitivista, in un secondo momento questo si è duplicato, spostandosi anche nel panorama scientifico.

Ora, l’idea della doppia natura - descrittiva e normativa - dei valori cognitivi dovrebbe essere facilmente ripercorribile attraverso quanto detto a riguardo del loro ruolo nel progresso scientifico. Quando un gruppo di scienziati favorisce una teoria piuttosto che un’altra in virtù della sua semplicità, o della sua accuratezza, o della sua eleganza, esso fa riferimento alle proprietà descrittive di quel valore e, contemporaneamente, assume un atteggiamento critico che direziona la scelta verso un determinato aspetto della realtà che quelle proprietà suggeriscono, fornendo così l’indicatore di verità per quella che sarà la teoria vincitrice. In tal senso, è evidente che una teoria viene valutata a partire da elementi che fanno parte del mondo in senso stretto ed elementi che, pur non riconducibili a quelli del primo gruppo, viaggiano accanto a questi, stabilendo continui punti di contatto.

Meno evidente è invece la duplice natura di concetti che entrano nel cuore dell’indagine scientifica di varie discipline. Non si tratta infatti solo di valutare la scelta fra teorie rivali, ma anche di rendersi conto che spesso i termini che ricorrono in teorie scientifiche e che diamo per scontato essere puramente descrittivi, in realtà assumono essi stessi una connotazione valutativa.

In tal senso, molto illuminante è la trattazione che fa Barrotta - nello specifico sul rapporto fra concetti spessi e misurazioni scientifiche - in Scienza e democrazia:

[…] vi sono problemi pratici per la cui risoluzione abbiamo bisogno di accettare, anche solo in via provvisoria, un punto di vista morale per decidere quali aspetti della realtà devono essere misurati, perché rilevanti per la risoluzione del problema.68

L’idea è che le valutazioni maturino all’interno del significato di certi concetti nel momento stesso in cui questi vengono saldati alla loro capacità descrittiva. Non solo, l’atteggiamento valutativo indirizza la forza descrittiva verso l’aspetto della realtà che, in base alla valutazione stessa, è opportuno misurare.

Barrotta mostra, ad esempio, come in biologia il concetto di biodiversità sia descrittivamente insufficiente per fornire una netta linea di intervento su determinate problematiche correlate ad essa.

Il problema è riducibile alla mancanza di una “unità di misura atomica” che possa fornire i diktat cognitivi necessari ad un modo di agire univoco, necessari ad evitare anche il solo velo di arbitrarietà che adombrerebbe le misurazioni. Sostanzialmente, sfugge alla comprensione immediata quella descrizione della realtà, necessario punto di partenza per stabilire misure di intervento che garantiscano la biodiversità.

Tradizionalmente quando si parla di biologia della conservazione - cioè di quella disciplina volta ad indagare la diminuzione della biodiversità e a ricercare

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soluzioni per la restaurazione e il mantenimento di questa - si fa riferimento a tre fattori che ne determinerebbero l’andamento in termini di ricerca. In quest’ottica, gli ecosistemi, le specie che ne fanno parte e le loro caratteristiche genetiche rappresentano aspetti della realtà sui quali si misura la biodiversità.

Tuttavia, anche concedendo che la specie sia l’unità di misura della biodiversità e che la sua definizione possa essere catturata interamente e univocamente dal significato biologico - presupposti tutt’altro che fissati unanimemente dal consenso fra gli scienziati - ci sono risultati empirici che si può ragionevolmente ritenere cadano all’interno del concetto di “biodiversità”, senza che possano essere afferrati dal significato attribuito al concetto.

Vi è un disallineamento tra il proteggere la biodiversità considerando la definizione biologica di specie - individui che possono accoppiarsi e generare una prole fertile - e, ad esempio, rendere conto dei diversi comportamenti di una stessa specie:

Sahotra Sarkar […] porta l’esempio, tra i molti, della Danaus Plexippus, una specie di farfalla composta sia da popolazioni con comportamenti migratori (dal Nord America verso il Messico o verso la California) sia da popolazioni stanziali (nei Tropici). Se adottassimo il criterio del numero delle specie per misurare la biodiversità, l’estinzione delle popolazioni migratorie (una minaccia reale) non avrebbe conseguenze per la biodiversità, nonostante scomparirebbero popolazioni con un comportamento di grande interesse naturalistico.69

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Se riduciamo la biodiversità al fatto che, per mantenerla, è sufficiente salvaguardare il numero di specie esistente, non è possibile abbracciare - né misurare - la complessità della realtà che un concetto come questo dovrebbe suggerire. Anzi, considerando solo lo strato empirico da cui partire per compiere misurazioni e, conseguentemente, proteggere la biodiversità, si rischia di relegare il concetto nella sua gabbia descrittiva creando un problema epistemologicamente più grande di quello che si intendeva risolvere.

Al contrario, se allarghiamo la nostra prospettiva, comprendendo che quella illuminata dagli atteggiamenti valutativi sia la direzione verso la risoluzione di un

particolare problema, allora risulta chiara l’esigenza di evadere dalla dimensione

puramente fattuale:

Piuttosto, proposizioni di questo tipo [“la biodiversità sta diminuendo”] sono degli strumenti concettuali, preliminari alla risoluzione di un problema di biologia della conservazione. Solo dopo che abbiamo dichiarato il fine che intendiamo raggiungere (cioè quale aspetto della realtà desideriamo preservare nelle date circostanze, alla luce dei nostri valori) diventa sensato parlare di una misurazione della biodiversità.70

L’aspetto della realtà biologica che, in un certo contesto, è necessario salvaguardare è denso delle valutazioni degli scienziati, punto di partenza per la misurazione della biodiversità e per la conseguente strategia da adottare nell’affrontare il problema preso a carico. In tal senso, si mescolano

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inevitabilmente elementi morali ed elementi fattuali, in quello che sembra un composto effettivamente omogeneo. Scrive dunque Barrotta:

Quando misuriamo la biodiversità di un sistema ecologico […] non esprimiamo semplicemente un giudizio di valore né una mera descrizione di un fatto. Facciamo, inevitabilmente, l’una e l’altra cosa.71

Sostanzialmente, quando si fa riferimento alla biodiversità, è necessario tener presente che l’uso che si fa di tale concetto crea uno spazio epistemologico in cui la sensibilità valutativa si amalgama con la capacità descrittiva, dando forma - e sostanza - all’intersezione di due piani che non sono quindi distinguibili.

Ma il concetto di “biodiversità” non è il solo che si presta a rivelare questo impasto dinamico di fatti e valori.

Barrotta cita un altro termine spesso, quello di sensibilità climatica, e anche in questo caso veicola l’attenzione sul rapporto che c’è fra concetti spessi e misurazioni scientifiche.

La voce più autorevole in materia di cambiamento climatico è quello dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), il principale organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. I risultati raggiunti negli anni dall’IPCC hanno determinato quella che oggi è la posizione dominante. Questa posizione può essere riassunta in tre tesi principali, secondo le quali 1) il clima sta diventando sempre più caldo, 2) l’uomo è una delle cause

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principali di questo cambiamento ed 3) è necessaria un’azione politica che smorzi efficacemente questo fenomeno, perché è un male.

Spesso si tende a dar per scontato che, quando si parla di riscaldamento globale, i fatti veicolino in modo esclusivo le teorie degli scienziati. È senza dubbio vero che l’aumento della concentrazione atmosferica dei “gas serra”, fra i quali l’anidride carbonica (CO₂) e i clorofluorocarburi (CFC), hanno causato e causano l’aumento dell’effetto serra, a sua volta responsabile dell’aumento della temperatura globale. È altrettanto vero che l’uomo è una causa determinante nel cambiamento climatico in atto, dal momento che l’anidride carbonica prodotta dai combustibili fossili e quella prodotta dagli allevamenti intensivi, per citare due esempi, hanno contribuito in maniera determinante - e tutt’ora contribuiscono - ad incrementare l’effetto serra.

Tuttavia il concetto di “sensibilità climatica” non esaurisce il suo significato nella forza empirica con cui si mostra e orienta le misurazioni, perché, nel momento in cui viene fissata una definizione in grado di catturarne gli elementi descrittivi, si forma una prospettiva valutativa che veicola quegli elementi alla luce dell’aspetto problematico che si intende indagare e, possibilmente, risolvere. Questa bidimensionalità del concetto si rivela chiaramente nella critica prima di J. Lovelock e poi di J. Hansen all’IPCC, responsabile secondo quest’ultimi di aver effettuato delle valutazioni troppo ottimiste rispetto alle reali minacce del cambiamento climatico.

Il focus di questa critica poggia sulla nozione di retroazione, la capacità di un sistema dinamico di autoregolarsi in base ai risultati ottenuti dal sistema stesso.

Si parla di retroazione positiva quando i risultati ottenuti dal sistema amplificano il funzionamento dello stesso, portandolo a sua volta ad incidere maggiormente su tali risultati e, di conseguenza, ancora una volta, sul sistema stesso.

Contrariamente, si parla di retroazione negativa quando i risultati ottenuti dal sistema smorzano il funzionamento dello stesso, facendo in modo che si stabilizzi.

Questa nozione, presa in prestito alla fisica, può essere usata per mostrare come le modalità con le quali sta avvenendo il cambiamento climatico, inteso come sistema dinamico appunto, non garantiscano una comprensione della sensibilità climatica in termini puramente descrittivi, dilatando di conseguenza anche il concetto stesso di misurazione.

In questo senso, le retroazioni sono sia effetti che cause del cambiamento climatico, in un circolo causale slegato dal nesso causa-effetto, inteso in senso stretto.

Risulta dunque problematico per gli scienziati rendere conto di tutte le retroazioni, effettive e potenziali, che agiscono sul global warming:

La sfida consiste dunque nel calcolare la sensibilità climatica […] includendo tutte le possibili retroazioni. […] Il clima rappresenta un sistema complesso, in cui è difficile determinare nei dettagli tutte le possibili retroazioni. La determinazione della sensibilità climatica dipende in maniera cruciale dalle “condizioni al contorno” che vengono prese in considerazione. In linea di principio, si dovrebbe

immaginare una serie di diversi concetti di sensibilità climatica, definiti dalla aggiunta progressiva di ulteriori retroazioni.72

La tradizione scientifica tende a suddividere le retroazioni in “lente” e “veloci”. Nella creazione di modelli climatici - modelli che gli scienziati ritengono siano in grado di predire come sarà il clima tra un certo periodo di tempo - vengono prese in considerazione quasi esclusivamente le retroazioni veloci, poiché le altre “sono giudicate sufficientemente lente da poter essere trascurate per la previsione”.73

Quindi all’interno della definizione di sensibilità climatica rientreranno retroazioni veloci come il riscaldamento degli oceani, la cui capacità di trattenere CO₂ è inversamente proporzionale alla temperatura dell’acqua stessa, ragione per la quale all’aumentare della temperatura superficiale degli oceani corrisponderà l’incremento della concentrazione di biossido di carbonio nell’atmosfera. Al contrario, non vi rientreranno retroazioni lente come il cambiamento della vegetazione dettato dall’aumento della temperatura, essendo valutabile nell’ordine di secoli.

Fondamentalmente, come fa notare lo stesso Barrotta, la decisione di dare una forma empirica alla sensibilità climatica, in grado di trattenere i fatti rilevanti nell’analisi di un certo problema, è un comportamento che non denota antiscientificità:

72

P. Barrotta, Scienza e democrazia, cit., pp. 101-102.

73

La definizione del significato empirico della sensibilità climatica dipende da schemi concettuali, [che] conducono a concentrarsi su alcuni aspetti della realtà. Gli studi dell’IPCC immaginano vari scenari, ognuno caratterizzato da diversi sistemi sociali, economici e tecnologici prevalenti, ma in tutti viene utilizzato lo stesso significato di sensibilità climatica, che esclude le retroazioni giudicate sufficientemente lente.74

Tuttavia, l’impossibilità di render conto di tutte le retroazioni possibili, magari adagiate su lunghe catene causali, e la decisione di considerare solamente quelle

valutate sufficientemente veloci da poter influire nel breve e medio periodo sul

riscaldamento globale, lasciano un margine di critica. Margine sfruttato, come detto precedentemente, da Lovelock e Hansen.

Entrambi gli scienziati mostrano un certo scetticismo verso l’affidabilità dei modelli dell’IPCC, ritenuti non in grado di fare previsioni attendibili oltre ogni ragionevole dubbio. Paradossalmente, il motivo si mostra nella scelta - comune nel panorama scientifico - di accettare come vere solo quelle ipotesi che hanno passato ogni vaglio critico e che risultano attendibili oltre ogni ragionevole dubbio.

Nella fattispecie, considerare solo le retroazioni che sono sufficientemente veloci oltre ogni ragionevole dubbio, ma non quelle che potrebbero esserlo, senza tuttavia godere di un sostegno evidenziale altrettanto forte, renderebbe le previsioni dell’IPCC non del tutto attendibili.

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Sostanzialmente sia Lovelock che Hansen ritengono che questi modelli cadano in difetto nel momento in cui “escludono, perché considerate molto lente, retroazioni che possono invece essere sufficientemente veloci”.75 In tal senso,

l’ipotesi di Hansen riguardante la retroazione della variazione dei ghiacci polari - da lui giudicata sufficientemente veloce da dover rientrare nella definizione di “sensibilità climatica” - mostra i limiti di un modello che, facendo riferimento ad una definizione che invece la esclude, difetta in termini di prospettiva:

Come nota Hansen, il metodo scientifico ci impone di “evitare l’errore”, ricorrendo a dosi massicce di scetticismo sulla realtà del cambiamento climatico. Ciò conduce a far rientrare nel concetto di sensibilità climatica solo le retroazioni sufficientemente veloci, la cui rilevanza è accettata da tutti, al di là di ogni ragionevole dubbio. Al contrario, l’opportunità di credere a ipotesi non sostenute da un’evidenza cogente […] conduce alla strategia di usare un significato di “sensibilità climatica” più ampio, includendo anche le retroazioni giudicate lente, la cui rilevanza è oggetto di discussione.76

Esattamente come il concetto di “biodiversità” non può fornire un’unità di misura in grado di catturarne il significato in termini puramente fattuali, allo stesso modo si fa fatica a riconoscere che la capacità descrittiva del concetto di “sensibilità climatica” esaurisca il suo significato.

75

P. Barrotta, Scienza e democrazia, cit., p. 104.

76

Infatti, nel preciso istante in cui il significato di “sensibilità climatica” viene fissato, al suo interno si sviluppano necessariamente forze valutative che danno una direzione e una spinta a quel significato.

Così, parlando di riscaldamento globale, se ci si riferisce ai modelli dell’IPCC, lo si fa abbracciando l’idea che certe retroazioni non siano ritenute rilevanti nella definizione del concetto. E questa è una decisione morale non solo perché caratterizza la scelta degli specialisti di far proprie certe ipotesi e scartarne altre, in base alla rilevanza temporale del problema. Ma anche perché questa decisione ha conseguenze morali, poiché da esse dipende la salvaguardia del nostro Pianeta e delle generazioni future.

Specularmente, anche considerando una nozione più ampia di “sensibilità climatica”, proposta da Lovelock e da Hansen, ci rendiamo responsabili di una scelta valutativa che permea il significato del concetto. E anche in questo caso la natura morale della scelta viene situata sia nel momento in cui la definizione di “sensibilità climatica” matura il suo significato - tradotta nell’accettazione di ipotesi non fortemente corroborate - sia nelle conseguenze che un piano di intervento, basato su quelle previsioni, avrebbe nella vita delle persone.

Con ciò non si vuol affermare che scelte a questo livello vengano fatte in modo arbitrario. Semplicemente si vuol mostrare che nell’equazione di un problema come quello del riscaldamento globale è necessario un punto di vista che si focalizzi sul rapporto fra costanti fattuali e variabili valutative, cogliendone la mutua dipendenza. Di fatto, sarebbe più corretto dire che, superando la metafora come una scala wittgensteiniana, non ha senso parlare di variabili e costanti come

elementi distinti, perché le prime agiscono sulle seconde in modo così rilevante da far sì che si crei un unicum che modifica la struttura stessa del problema e, di conseguenza, la risoluzione dell’equazione.

Nella misurazione della sensibilità climatica, necessaria alla previsione di scenari climatici futuri, non si riferimento esclusivamente a descrizioni di fatti, né ad atteggiamenti di natura valoriale e con conseguenze strettamente morali. Si fa riferimento, inevitabilmente, a tutto questo insieme di elementi, che possono essere spiegati separatamente, ma la cui comprensione complessiva è posta nei termini della loro interconnessione.

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Ringraziamenti

Premetto che i ringraziamenti formali non fanno parte del mio bagaglio di qualità. Tuttavia lo trovo un gesto necessario e doveroso nei confronti di coloro che mi sono stati accanto in questi anni.

Parto ovviamente dalla mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto, anche nei momenti più difficili. E il sostegno non è qualcosa che deve essere necessariamente espresso. Si respira nell’aria circostante ed è fatto di pazienza, fiducia, armonia.

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