L’urbano come assemblaggio di framment
IL COLLAGE IN PITTURA
Identificabile storicamente con la tecnica pittorica dei cubisti, sviluppata negli anni dieci del Novecento, in architettura e nel disegno urbano, il termine collage è usato in diversi modi: come metafora per spiegare l’eterogeneità dei paesaggi urbani, come tecnica di rappresentazione che sintetizza idee, ma anche come strumento di conoscenza delle trame urbane e come tecnica compositiva, additiva, che meglio di altre fonde materialmente la fase della percezione, dell’analisi con le idee in un processo di conoscenza
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l’esplorazione di nuove tecniche di rappresentazione che tentano di riprodurre le miscele complesse dei paesaggi urbani.
Quando nel 1978 esce Collage City di colin Rowe non è certo la prima volta che compare la tecnica del collage riferita alla città della congestione e della macchina, basti pensare ai recenti fotomontaggi di Superstudio o ai disegni di Archigram, usati per raccontare le proprie visioni urbane.
un altro precedente ben noto, è il collage di Aldo Rossi, esposto alla biennale di Venezia del 1976, intitolato “La città Analoga”.
In Collage City, il collage consente di costruire un materiale ricco: al rigore delle mappe bianco-nere infatti, in cui vengono fatti emergere i pieni e i vuoti, le figure e lo sfondo - secondo una consueta e consolidata tradizione, si pensi alla pianta di Roma del Nolli - si alterna la sintesi
creativa che permette di estrapolare liberamente cataloghi di figure,
di forme, di spazi, di oggetti e di texture con i quali dare vita ad una “collisione di oggetti e di sistemi diversi e privi di richiami all’unità
stilistica e di significato”.6
Scrive lo stesso Rowe che alla fissità e all’anteposizione di idee “[…] preferiamo considerare le possibilità complementari di un sublimato
conflitto, dove il compito [dell’architetto] è di fare salva la città attraverso
l’infusione di metafore, pensieri analogici, ambiguità”. (1978)
Più che una volontà di costruire un apparato razionale che spieghi la compresenza e la giustapposizione di oggetti e di tessuti eterogenei, c’è l’intenzione di liberare il linguaggio architettonico dall’ideologia, e di offrire un dispositivo con il quale muoversi con autonomia e con disinvoltura attraverso la storia e anticipare le configurazioni spaziali della contemporaneità. Prende così forma un sistema iconografico, molto efficace sul piano comunicativo, che mentre risveglia l’immaginazione e allena l’occhio alle associazioni visive e simboliche, funziona come strategia compositiva.
In La Città analoga al contrario il collage è per così dire un’opera d’arte, una metafora, una sintesi grafica delle ricerche di anni: la riproduzione di un paesaggio urbano dove al tessuto della città storica, ai suoi episodi e ai suoi monumenti, si sovrappongono frammenti planimetrici e figure appartenenti al repertorio della produzione architettonica personale, in una forma fissa e immutabile. Scrive Ezio bonfanti “[...] è la pratica additiva della paratassi, cioè una composizione di elementi
sopra:
Colin Rowe Collage City (1978): pianta di Parma e pianta di Le Corbusier
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compiuti e autonomi, accostati assemblati, senza alcuna possibilità di individuare una subordinazione gerarchica.”7 A differenza del collage di Rowe però, qui si parte con un catalogo di forme finite, di “pezzi da museo”, già pazientemente costituito, il cui assemblaggio risulta come in un manufatto, da un’attenta e controllata composizione, dove non si nasconde la ricerca di una logica formale e di possibili significati simbolici condivisi.
confrontare il lavoro di Rowe e quello di Rossi, che nelle modalità operative possono sembrare simili, aiuta a capire le profonde differenze tra la cultura del pragmatismo di stampo anglosassone e la cultura storicista e nostalgica, propriamente italiana. Sono gli intellettuali del primo filone – a cui potremmo affiliare Venturi e Rowe – a penetrare con maggiore incisività il panorama contemporaneo: con l’arte della provocazione, dell’ironia e del gioco, essi hanno saputo orientare le proprie ricerche sull’individuazione di nuovi strumenti progettuali. La tecnica adottata da Rowe è per noi un importante riferimento perché, legittimando l’uso dell’intuito e della fantasia nella trascrizione rigorosa del materiale vivente e nella sua trasformazione in materiale astratto, ha anticipato lo sviluppo del linguaggio diagrammatico e ha validato la sostanziale continuità metodologica e formale nel passaggio dall’analisi alla sintesi compositiva.
Erede di questo approccio è senza dubbio Rem Koolhaas.
a fianco:
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Delirious New York
Non si può oggi parlare di teoria urbana senza fare riferimento al pensiero di Rem Koolhaas. Rem Koolhaas è infatti considerato da molti il padre fondatore della teoria urbana moderna, quella cioè che irrevocabilmente prende le distanze dalla dottrina modernista.
già nel suo primo testo di architettura, Delirious new York, pubblicato nel 1978, Koolhaas inaugura lo spirito provocatorio e scaltro che lo contraddistinguerà, ma qui la scrittura è ancora molto asciutta e solo sottilmente polemica.
Attraverso una ricostruzione, o meglio, come la definisce Marco biraghi8, una costruzione della storia di Manhattan, seguendo il principio benjaminiano di montaggio della storia, frutto cioè di consapevoli selezioni e censure, Koolhaas disegna un progetto ipotetico in cui la “cultura della congestione” si fa espressione della più autentica vita metropolitana, mentre l’architettura è sintesi allo stesso tempo ambiziosa e popolare, di un mondo in cui tutto, anche la natura, è prodotto dell’artificio, dell’eccesso, dell’esuberanza tecnologica e programmatica. Ed è proprio qui che emerge la sua denuncia polemica nei confronti della cultura urbanistica europea, improntata all’ideologia e poco pragmatica. Critica l’antimanhattismo di Le corbusier che, nel cercare una “soluzione” per la congestione di Manhattan propone un paesaggio monotono, non differenziato, in realtà dimostra di non sapersi misurare con la logica della Metropoli, prodotto di una complessa stratigrafia di storie tutt’altro che lineari. con l’idea di assegnare alla natura il ruolo di superficie connettiva della città, Le corbusier fa un gesto pieno di contraddizioni, definito da Koolhaas un “non evento urbano”: i grattacieli cartesiani della Ville Radieuse infatti sono entità isolate che non interagiscono con il
continuum urbano.