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LA TENDA DELLA TOLLERANZA Con la sola forza delle proprie mani e della

Cronaca di un’esperienza di progettazione collettiva

LA TENDA DELLA TOLLERANZA Con la sola forza delle proprie mani e della

creatività, cinque studenti della Facoltà di Architettura, insieme con chi scrive, nel luglio 2008 hanno messo in opera una piccola struttura multireligiosa temporanea nel giardino della Vasca Navale, nell’area universitaria del Valco San Paolo.

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Una tenda sospesa, un tessuto alveolare, interamente fatto di cartoni riciclati; una struttura organica, articolata, complessa (sono più di duemila triangoli estrusi) aperta, bucata verso il cielo e al tempo stesso avvolgente, che contempera il senso di libertà e di protezione, sotto la cui ombra il 17 luglio si è riunito un gruppo di circa settanta persone - studenti, professori, ma anche abitanti del quartiere e soprattutto rappresentanti di diverse comunità religiose della città - per inaugurare lo spazio che, per una settimana, è rimasto aperto all’uso libero e spontaneo come luogo per la meditazione, il silenzio o l’incontro.

Le parole del Rettore Guido Fabiani, che ha celebrato l’apertura della tenda multireligiosa con il simbolico taglio del nastro, esprimono tutto il senso di questo esperimento: in un’epoca di fondamentalismi religiosi l’università può farsi portavoce di forme nuove di dialogo di cui l’architettura, ancorché provvisoria, è l’espressione più compiuta, basate sul comune bisogno di cercare nella sfera spirituale la risposta a tante incertezze. Nella storia dell’uomo i luoghi sacri sono in fondo luoghi d’incontro, di scambio e di crescita della comunità, dove coltivare il senso di appartenenza e di accoglienza. La comunità laica, multireligiosa, che istituzioni come l’università difendono e rappresentano, vive la propria dimensione spirituale in luoghi condivisi, in spazi adattabili, dove l’alternanza e la diversità dell’uso sono prove di tolleranza. La forma di questo insolito luogo per il culto laico, come qualcuno ha precisato, ricorda le tende dei nomadi del deserto o la tenda di Abramo. E come le tende, che esposte alle intemperie si consumano, la nostra struttura di cartone, traduce in termini fisici quello che l’emerito teologo Giovanni Franzoni, presente all’inaugurazione, definisce l’espressione del divino nel mondo degli uomini: il passaggio, con un inizio e una fine. E così è stato: una settimana la sua durata. Come previsto, il 26 luglio al tramonto i cinque studenti, i coordinatori e qualche volontario, hanno smontato la struttura e lasciato di questa esperienza qualche articolo di giornale ed un ampio repertorio di fotografie.

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Il laboratorio vivente

“Riti del costruire” è anche un’espressione eloquente per sottolineare il valore che il costruire insieme assume nella creazione di un luogo simbolico. Pensato come un vero e proprio laboratorio vivente di ricerca e di progettazione, collaborativo ma anche opportunistico, basato cioè sulla naturale specializzazione delle competenze, il workshop voleva prima di tutto essere un’occasione per sperimentare l’interattività e l’osmosi di un gruppo composto da cinque studenti2 e da due “architetti adulti”3.

Per otto mesi questa piccola organizzazione ha operato secondo il principio dell’emergenza, sia da un punto di vista procedurale sia da un punto di vista strumentale, alternando momenti di controllo del contingente e momenti governati da forze spontanee di auto- organizzazione. Il processo di morfogenesi è stato pertanto il risultato di una produttiva interazione tra materiali e persone, che ha generato una sovrabbondanza e una ridondanza di idee, di configurazioni e di programmi, e di complesse manovre di selezione e di sintesi, facilitate anche dagli scambi con critici e con interlocutori esterni4, coinvolti personalmente nell’iniziativa o comunque interessati alla riuscita del progetto, primo fra tutti il Centro Interconfessionale per la Pace.5

Tra gli eventi più importanti, nel febbraio 2008, è stata organizzata una tavola rotonda - inserita nel calendario di “Roma Reale Roma Plurale”6 - per approfondire il tema dello spazio della spiritualità. L’idea era di costruire una piattaforma interdisciplinare e interculturale dove discutere i requisiti teorici che uno spazio come questo dovrebbe avere, e da questo dibattito far emergere, per quanto possibile, le differenze e le

similitudini tra le diverse culture.

La funzione di questo “bombardamento speculativo”, come lo definirebbe Koolhaas, era di fornire all’équipe di progettazione un materiale complesso che, con un processo di manipolazione, portasse progressivamente a quel distillato di funzione, di forma, di spazialità, di articolazione della materia, di luce e di ombra, che un prototipo architettonico deve necessariamente avere.

In quell’occasione si chiedeva agli oratori di rispondere a quella domanda iniziale: Come far convivere l’idea di religiosità condivisa con quella di

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Lo spazio sacro come viatico

Nella cultura occidentale associamo il senso del sacro a quello dell’eternità, e nell’architettura questo si traduce nel valore di permanenza, di grandiosità e di opulenza che il luogo sacro delimitato esprime in sé stesso ed in relazione al contesto che lo accoglie.

Quando però si torna al culto delle origini o ci si affaccia ad altre culture, si trovano molti esempi in cui l’architettura sacra non è necessariamente espressione della firmitas vitruviana: un senso del transitorio e del precario di natura temporale o materiale accomuna molte esperienze ed acquista in ogni luogo specifici significati.

Spazi rimediati, “adibiti” al culto sono spesso il risultato di un’emarginazione sociale, l’espressione della difesa di tradizioni e di un’appartenenza culturale minacciata, ma anche l’espressione di uno spirito di adattamento che, come spesso accade, porta a forme sublimi di creatività e di invenzione. Questa mancanza di radicamento fisico implica il superamento della sacralità intesa come attaccamento statico ad un luogo specifico, e rafforza il carattere dinamico della religiosità, il senso del percorso nell’esperienza mistica.

Tradotto in termini spaziali “l’etica dello sdradicamento” porta con sé molte conseguenze: come dice Bruno Zevi “in architettura, una concezione temporalizzata, spaziale ad un grado metafisico, si attua in un solo periodo: ai tempi delle catacombe, ebraiche e cristiane. Allora percorsi ipogeici lunghi decine di chilometri, sovrapposti e intrecciati senza alcun disegno geometrico, corrodono, minano le fondamenta stesse della città romana sovrastante, tutta monumentalmente spaziale e statica: la città divina, del tempo, diviene sotterranea per far saltare quella terrestre. L’architettura cessa di essere spazio, diviene viatico, itinerario, cammino senza meta.” (1993)

Associare lo spazio del culto ad un’esperienza cinetica, temporallizzata, con un inizio e una fine, in funzione del rito, della cerimonia e della riunione della comunità, è un fenomeno piuttosto diffuso.

Per molte culture, sia abramitiche, che darmiche e taoiche7 la natura temporanea dell’architettura è una condizione fisica: essa per durare nel tempo deve essere ciclicamente rimaneggiata. Spesso questo “limite” materiale acquisisce un significato rituale, attribuendo al gesto della

ripetizione della costruzione un valore sacro. Nelle religioni orientali,

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tempio, fatto tradizionalmente con materiali naturali, in particolare in legno dipinto, è simbolo del ciclo vitale delle divinità e diventa momento fondante del rito. La moschea in terra cruda di Djenné in Mali è un altro straordinario caso di rituale della ri-costruzione: ogni anno per il rifacimento dell’intonaco si organizza un vero e proprio festival in cui gli uomini e le donne della comunità partecipano con mansioni precise, divenute fortemente simboliche nel corso dei secoli.

A questi nobili esempi si dovrebbero aggiungere molte esperienze a cui quotidianamente, anche nella nostra città, assistiamo: la trasformazione momentanea di uno slargo abbandonato in luogo di riunione di una comunità, dopo il tramonto, nei giorni del ramadam; o l’adeguamento di un garage in periferia per accogliere una comunità di fedeli per una cerimonia speciale.

Rivolgere l’attenzione a queste espressioni culturali auto-organizzate, come abbiamo già avuto modo di raccontare nei precedenti capitoli, ha per noi un significato particolare. Innanzitutto queste architetture informali, come anche le architetture naturali, esibiscono una naturale attitudine economica, basata sul risparmio materiale ed energetico, dalla quale impariamo che la scarsità delle risorse non implica necessariamente la rinuncia alla qualità spaziale e formale. Anzi, il bisogno di adattarsi alle condizioni locali ha favorito la creatività e l’invenzione. Inoltre sono spesso il coagulato intelligente di tecnologia e bellezza.

Complessità e principio di adattamento

Con in mente il principio di adattamento caro a molte culture, abbiamo affrontato il tema della diversità e della complessità funzionale associata ad uno spazio che prevede un’alternanza di usi e di significati.

La parola adattamento ha tuttavia un’ambivalenza di significati: come

principio dinamico descrive la capacità che ha lo spazio di cambiare

configurazione nel tempo, in funzione del rito che si sta svolgendo, per accogliere la diversità dei riti (per esempio una comunità che si dispone in cerchio o un individuo solitario che cerca un luogo silenzioso ed avvolgente); come principio organizzativo-materiale sspiega l’atto creativo e il prodotto architettonico in virtù di un lungo processo di sedimentazione di idee e di progressiva incarnazione materiale, dove ha

sopra:

Grande Moschea di Djenné in Mali: il rifacimento dell’intonaco.

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sempre luogo l’imprevisto.

Tradotto in termini metodologici ciò significa gestire i conflitti e le incertezze coerentemente con l’idea che la sostenibilità culturale e materiale del progetto risiede nella continuità tra strategia e forma, e tra intelligenza strutturale, prestazioni funzionali e flessibilità temporale. Una delle maggiori difficoltà del progetto era l’adeguamento ad un budget molto esiguo.

Ma limitare le risorse, impiegare cioè materiali a basso costo e tecniche di assemblaggio semplici, è per molti architetti divenuto il tema di ricerche molto originali. Pensiamo alle investigazioni di architetti come Shigeru Ban, che usa per lo più tubi in cartone, o di gruppi come i Rural Studio, specializzati nel recupero di materiali che hanno già avuto un ciclo di vita, o ancora del meno conosciuto Marcel Kalberer con il gruppo di artisti Sanfte Struckturen che operano principalmente con materiali viventi vegetali.

Nel nostro caso, la scelta di usare gli imballaggi di cartone ondulato, oltre che per il loro costo nullo, era la risposta a tre requisiti: la reperibilità, la leggerezza e la manovrabilità. Questo “limite” inoltre ci ha permesso di aggiungere al valore simbolico dell’opera il richiamo “laico” ai temi ambientali, intesi come responsabilità globale e come ambizione etica individuale.

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1. Shigeru Ban Chiesa di Takatori (1998) prefettura di Kobe, Giappone: in tubi di cartone,

2. Yona Friedman + Eda Schaur Museum for Simple Technologies (1990) Madras, India: “prototipo” come lo definisce lo stesso Friedman di “self-planning” cioè di una progettazione senza disegni di piante e facciate, che parte dalla manipolazione creativa del materiale.

3. Rural Studio Mason’s Bend Community Center (2000) Alabama, USA: spazio meditativo costruito con vecchi parabrezza 4. M. Kalberer Weidendom (2001) Rostock, Germania: cattedrale in materiale vegetale vivo. Si tratta di piante di salice piantate nel terreno che nel loro processo di crescita completano l’architettura.

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Manipolazioni geometriche: “dalla trama al volume”

Abbiamo inaugurato il workshop con un seminario intitolato “dalla trama al volume”, un’esplorazione manuale - fatta con diversi materiali e diversi principi costruttivi come aste rigide, tessere, superfici piegate etc. - sulle possibili configurazioni che una geometria bidimensionale, al variare di determinati parametri, può assumere tridimensionalmente.

Perché cominciare con la geometria?

Una prima ragione è manifestamente simbolica: mandala e mosaici sono comuni esempi di geometrie piane cariche di significati allegorici. Trasformare il simbolismo bidimensionale in un principio generatore di spazio, integrando gli aspetti figurativi nell’architettura piuttosto che lasciarli come manifestazioni letterali, è un modo per rispettare l’identità multiforme di un luogo pensato per accogliere le diversità.

La seconda ragione è di natura strumentale e metodologica: nell’approccio diagrammatico, come sappiamo, è fondamentale impostare il processo di manipolazione collettiva e creativa come esito di una

tensione tra controllo e libertà, tra stato cosciente e stato incosciente, tra

rigore ed errore. Indagare le potenzialità di un principio costruttivo, non ancora in funzione del suo uso, lascia affiorare le componenti irrazionali, non guidate dalle intenzioni, e fa emergere la creatività intrinseca di un materiale astratto a cui non si è ancora assegnata matericità e scala. La sperimentazione metodica sul materiale inoltre è il miglior modo per comprendere l’idea che l’indeterminatezza è un principio tanto programmatico quanto strutturale e formale, che non presuppone per forza un’arbitrarietà procedurale.

A questo primo esperimento è seguito un lavoro simultaneo a diverse scale e con diversi supporti che ha alimentato il ciclo produttivo di