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Il Collegato Lavoro: la legge n.183/2010

CAPITOLO II: L’attuazione della direttiva 1999/70/CE in Italia

3. I successivi interventi di riforma

3.3. Il Collegato Lavoro: la legge n.183/2010

La legge 4 novembre 2010, n.183, recante “deleghe al Governo in materia di lavori usuranti, di riorganizzazione di enti, di congedi, aspettative e permessi, di ammortizzatori sociali, di servizi per l’impiego, di incentivi all’occupazione, di apprendistato, di occupazione femminile, nonché misure contro il lavoro sommerso e disposizioni in tema di lavoro pubblico e controversie di lavoro”, nota più comunemente come Collegato Lavoro, racchiude un’eterogenea normativa lavoristica che riverbera i suoi effetti anche sul d.lgs. n.368/2001.

Significative ricadute sull’interpretazione dei presupposti legittimanti l’instaurazione di un rapporto di lavoro a tempo determinato ha in primo luogo quanto disposto dall’art.30 della legge in esame, seppur non faccia alcun esplicito riferimento al decreto n.368.

Il primo comma dell’art.30 ribadisce infatti il principio generale, costantemente affermato dalla giurisprudenza, secondo cui, in tutti i casi in cui disposizioni di legge in materia di rapporti di lavoro contengano clausole generali76, ivi comprese quelle in tema di instaurazione dei rapporti di

76Nel senso ampio ed atecnico di “qualsiasi norma a precetto generico”, A. Vallebona, Il

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lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento d’azienda e recesso, il controllo giudiziale deve limitarsi elusivamente all’accertamento “del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente”. In questo modo il Collegato Lavoro sembra voler vincolare il giudice all’accertamento del solo presupposto di legittimità, senza estendere il controllo al merito delle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che spettano soltanto all’imprenditore. La temporaneità dell’occasione lavorativa viene così in rilievo come prodotto della volontà del datore che, nell’esercizio della iniziativa economica privata, è libero di configurare nel modo più conveniente le diverse posizioni di lavoro in cui si scompone l’organizzazione aziendale77.

Le disposizioni che hanno comunque maggiori ricadute sulla disciplina del contratto a tempo determinato sono quelle contenute nell’art.32 della legge n.183/2010 in tema di regime delle impugnazioni e di conseguenze dell’accertamento e della dichiarazione giudiziale della nullità del termine apposto al contratto.

Il primo comma dell’articolo in parola riscrive l’articolo 6 della legge n.604/1966 ed estende il nuovo regime di impugnazione anche alle azioni di nullità del termine. Il licenziamento deve essere impugnato a pena di decadenza entro sessanta giorni dalla ricezione della sua comunicazione in forma scritta, ovvero dalla comunicazione, anch’essa in forma scritta, dei motivi, ove non contestuale, con qualsiasi atto scritto, anche extragiudiziale, idoneo a rendere nota la volontà del lavoratore anche attraverso l’intervento dell'organizzazione sindacale diretto ad impugnare il licenziamento stesso. L’impugnazione è inefficace se non è seguita, entro il successivo termine di duecentosettanta giorni, dal deposito del ricorso nella cancelleria del tribunale in funzione di giudice del lavoro o dalla comunicazione alla

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controparte della richiesta di tentativo di conciliazione o arbitrato, ferma restando la possibilità di produrre nuovi documenti formatisi dopo il deposito del ricorso. Qualora la conciliazione o l’arbitrato richiesti siano rifiutati o non sia raggiunto l'accordo necessario al relativo espletamento, il ricorso al giudice deve essere depositato a pena di decadenza entro sessanta giorni dal rifiuto o dal mancato accordo.

Il nuovo regime di impugnazione dei licenziamenti si applica, in base al terzo comma, anche ai licenziamenti che presuppongono la risoluzione di questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro od alla legittimità del termine apposto al contratto, al recesso del committente nei rapporti di collaborazione coordinata e continuativa (anche a progetto), al trasferimento del lavoratore, all’azione di nullità del termine apposto al contratto di lavoro.

La nuova disciplina dei termini di impugnazione del contratto a termine ha efficacia retroattiva. Essa si applica, infatti, come previsto dal successivo quarto comma, sia ai contratti a termine in corso di esecuzione con decorrenza dell’impugnativa, anche in questo caso, dalla scadenza del termine, sia a quelli già cessati, come previsto dalla lettera b) dell’art.32.4 che fa espresso riferimento ai contratti di lavoro a termine stipulati anche in applicazione di disposizioni di legge previgenti al d.lgs. 6 settembre 2001, n.368, che siano già conclusi alla data di entrata in vigore della nuova legge, data dalla quale decorrono i termini per l’impugnazione.

Il legislatore è poi tornato, dopo la sentenza n.214/2009 di illegittimità costituzionale dell’art.4 bis del d.lgs. n.368/2001, sulle conseguenze dell’illegittima apposizione del termine. L’art.32, quinto comma, dispone che “nei casi di conversione del contratto a tempo determinato, il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del danno, stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nell’art.8 della legge 15 luglio 1966,

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n.604”. Il successivo sesto comma contempla un meccanismo di riduzione della misura massima della predetta indennità in funzione promozionale di soluzioni concordate in sede contrattuale collettiva: in presenza di contratti ovvero di accordi collettivi nazionali, territoriali o aziendali, stipulati con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, che prevedano l’assunzione, anche a tempo indeterminato, di lavoratori già occupati con contratto a termine nell’ambito di specifiche graduatorie, il limite massimo dell’indennità fissata dal comma quinto è ridotto alla metà. Tali disposizioni trovano applicazione, secondo quanto stabilito dal settimo comma, per tutti i giudizi, ivi compresi quelli pendenti alla data di entrata in vigore della presente legge.

Il Tribunale di Trani prima, con ordinanza del 20 dicembre 2010 e la Corte di Cassazione poi, con ordinanza del 28 gennaio 2011, hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art.32, commi 5, 6 e 7, della legge 4 novembre 2010, n. 183. In particolare i giudici rimettenti hanno censurato la norma in esame nella parte in cui prevede, in caso di dichiarata illegittimità del termine, oltre alla conversione del rapporto, un’indennità risarcitoria omnicomprensiva predeterminata dal legislatore entro un limite compreso tra 2,5 e 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dal lavoratore e l’applicazione delle disposizioni del Collegato Lavoro a tutti i procedimenti pendenti, in qualsiasi stato e grado, con il solo limite del giudicato.

Secondo i giudici tali disposizioni sarebbero lesive delle norme di cui agli artt. 3, 4, 24, 101, 102, e 111 Cost., poiché la liquidazione dell’indennità, così come determinata dal legislatore, sarebbe sproporzionata per difetto rispetto al danno subito dal lavoratore ed indurrebbe il datore di lavoro a persistere nell’inadempimento, tentando di prolungare il giudizio o addirittura sottraendosi all’esecuzione della sentenza di condanna, insuscettibile di esecuzione in forma specifica, in virtù del disposto di cui all’art. 614 bis c.p.c.. La norma dell’art.32 era inoltre sospettata

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d’illegittimità costituzionale anche nella parte in cui prevede la sua applicazione retroattiva e generalizzata a tutti i giudizi pendenti, in qualsiasi stato e grado, con il solo limite del giudicato.

La Corte Costituzionale, con sentenza n.303 del 9 novembre 2011, ha però rigettato tutte le censure. Secondo la Consulta infatti “il Collegato Lavoro realizza un perfetto bilanciamento, garantendo al lavoratore la conversione del contratto di lavoro a tempo indeterminato, nonché una indennità che gli è dovuta sempre e comunque, e al datore di lavoro assicura la conoscenza preventiva, e massima, del risarcimento del danno che, in caso di soccombenza, sarebbe tenuto a liquidare al lavoratore”.

La Corte Costituzionale ha chiarito che l’indennità prevista dall’art.32 va chiaramente ad integrare la garanzia della conversione del contratto di lavoro a termine in un contratto di lavoro a tempo indeterminato e ha inoltre precisato che il danno forfettizzato dalla indennità in esame copre solo il periodo cd “intermedio”, quello, cioè, che corre dalla scadenza del termine fino alla sentenza che accerta la nullità di essa e dichiara la conversione del rapporto, mentre per il periodo successivo il datore di lavoro è obbligato a riammettere in servizio il lavoratore ed a corrispondergli, in ogni caso, le retribuzioni dovute, anche in ipotesi di mancata riammissione effettiva. In merito, poi, alla censura d’illegittimità costituzionale della norma in esame nella parte in cui prevede la sua applicazione a tutti i giudizi pendenti, a giudizio della Consulta tale previsione è assolutamente legittima e va esente dai dubbi di incostituzionalità prospettati, poiché non vi è ragione di differenziare il regime risarcitorio di situazioni lavorative sostanziali tutte egualmente sub iudice.

Parimenti esenti da sospetti di incostituzionalità prospettati dai giudici rimettenti le disposizioni della norma in esame riguardo alla portata retroattiva delle sue disposizioni.

La Corte ritiene che la norma in esame non sia in contrasto con la disciplina comunitaria (art.6 CEDU), dal momento che l’applicazione retroattiva delle

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sue disposizioni, avendo portata generalizzata a tutte le controversie avente ad oggetto i contratti a termine, non favorisce selettivamente lo Stato o altro ente pubblico, poiché le controversie sulle quali va ad incidere non hanno specificamente ad oggetto i rapporti di lavoro a termine alle dipendenze di soggetti pubblici, ma tutti indistintamente i rapporti a termine.

Sotto altro profilo la Corte Costituzionale osserva come a giustificazione della retroattività delle disposizioni di cui alla norma in commento, si pongano rilevanti ragioni di utilità generale, riconducibili all’esigenza di offrire una tutela economica dei rapporti a termine più adeguata al bisogno di certezza dei rapporti giuridici di tutte le parti coinvolte nei processi produttivi, di talché ricorrono tutte le condizioni previste dalla norma di cui all’art.6 CEDU per l’applicazione retroattiva di norme in suddetta materia.