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Colonialismo e immagine dell’«alterità» africana nella stampa torinese al tempo dell’andata a Massaua*

di Michele Nani

Nel lavoro di tesi ho problematizzato lo spazio della costruzione dell’«alteri- tà» nel consolidamento dell’identità nazionale italiana, attraverso il dibattito sulla stampa di un’importante città in occasione di momenti cruciali: la rice- zione dell’affaire Dreyfus e dei processi antiebraici basati sull’accusa di omi- cidio rituale (1894-1899); l’emersione di una concettualizzazione più rigida del Mezzogiorno fra Fasci siciliani e «caso» Niceforo; i tornanti della politi- ca coloniale (1885, 1887, 1896). Seguendo alcune fondamentali indicazioni di Flaubert, Klemperer e Gramsci mi sono soffermato, più che sull’elabora- zione degli intellettuali, sul «senso comune» e sugli stereotipi, mediati da giornali e riviste. A questa attenzione per la dimensione trasversale della dif- fusione di rappresentazioni che tendono alla gerarchizzazione delle differen- ze (se non ad una vera e propria «razzizzazione»), si è affiancata, per rendere conto delle specificità e delle controtendenze, la segnalazione della forte inci- denza delle culture politiche di riferimento (liberale, cattolica, socialista) e degli atteggiamenti politici congiunturali.

Lo studio che segue riproduce, con alcuni tagli, qualche modifica stilistica e un nuovo titolo, un paragrafo del secondo capitolo della Quarta Parte della tesi - “Abissino val sempre Abissino” Colonialismo e «barbarie» africana

(1885-1898).

* Dalla tesi discussa il 23 febbraio 2001, presso il Dipartimento di Studi Storici dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, a conclusione del Dottorato di ricerca in Storia sociale europea, XII ciclo, Ai confini della nazione. Ebrei, meridionali e africani nella

stampa torinese dell’età umbertina, relatore prof. Giovanni Miccoli. Per ragioni di

spazio si sono ridotte le note alle sole fonti. Voglio almeno ricordare il mio debito ver- so i più recenti lavori di studiosi di cose coloniali italiane quali R. Bonavita, U. Chelati Dirar, G. Gabrielli, C. Gallini, N. Labanca, S. Montaldo, S. Puccini, F. Surdich e A. Triulzi. Un ringraziamento particolare va al prof. G. Miccoli, che ha seguito le mie ri- cerche, ed alla prof.ssa M. Salvati, che ne ha sollecitato l’accoglienza in questa sede.

In sintonia con il senso comune che si va diffondendo in Europa du- rante i lavori della Conferenza di Berlino, la stampa torinese guarda con favore ed interesse all’apertura di quella che si ritiene l’«éra dell’espan- sione coloniale», una sorta di «grande gara di tutte le potenze per im- piantarsi fra i popoli barbari o semi-barbari»1. Di conseguenza, l’ingres- so del giovane Stato italiano nello scramble africano suscita più consen- si che perplessità. Queste ultime non mancano e toccano anche gli orga- ni più risolutamente filocoloniali, ma riguardano essenzialmente le mo- dalità della partecipazione a quella che da più parti si definisce la «feb- bre» africana. Le critiche generalmente discendono dai termini della lot- ta politica (partiti, correnti, uomini), come evidenziano le diffuse criti- che all’artefice dell’andata a Massaua, il ministro Pasquale Stanislao Mancini. Sono dunque rare le prese di posizione fondate sul rifiuto del- l’aggressione coloniale. In linea generale né i liberali, né i cattolici, non- ostante le vivaci polemiche politiche (e, per i secondi, la contestazione dello Stato post-risorgimentale), riescono ad esprimere un durevole ri- fiuto di principio, ma al più appunti faziosi e congiunturali.

La «morale del cannone» e le retoriche dell’espansionismo

Sovente intrecciate, le linee discorsive che sorreggono l’adesione ideo- logica all’espansionismo sono sostanzialmente tre: la politica di poten- za, i benefici economici, la missione di civiltà. Quest’ultima presenta due varianti conflittuali, a seconda del concetto di «civiltà» a cui si fa riferimento: civiltà borghese o civiltà cristiana.

Uscita da meno di venticinque anni da una secolare frammentazio- ne politica, l’Italia ambisce ad uno statuto di grande potenza, che do- vrebbe consentire di perseguire obiettivi strategici e di prestigio. La dignità di «nazione», elemento cruciale nella politica dell’Otto e No- vecento, è uno dei principali veicoli del giudizio sulle forme statuali e civili. In particolare, per uno Stato come l’Italia, tale elemento risulta centrale, e la sua presenza è ricorrente nel discorso pubblico: la presa di Roma è appena dietro le spalle della classe dirigente della Sinistra2.

1Dalla Crimea al Sudan, in «Gazzetta Piemontese» [«GPI»], 7 febbraio 1885.

Un elemento «risorgimentale» era stato evocato da più parti ancora nel 1882, quale legittimazione della rinuncia all’intervento italiano in Egitto a fianco degli inglesi. Durante la spedizione nel Mar Rosso, l’occasione di una collaborazione si ripresenta: caduta Karthum e morto Gordon, il Regno Unito offre agli italiani di collaborare alla guerra contro i sudanesi insorti, suscitando questa volta l’entusiasmo dei ceti di governo e della stampa. La posizione della «Gazzetta pie- montese» è emblematica, perché riesce ad inglobare in un unico di- scorso il vecchio rifiuto ed il nuovo assenso:

non siamo davanti ad una lotta d’un popolo per la sua indipendenza; siamo davanti ad una lotta che fa una Potenza civile contro orde semi-sel- vaggie, condotte da un furbo od un fanatico, combattenti per rendere per- manente uno stato d’anarchia, di abbiezione, di brigantaggio, di commer- cio ignominioso, con grave pericolo e minaccia per quell’Egitto che noi avremmo voluto libero e civile3.

La qualifica di «popolo» (dunque di «nazione») stabilisce così un netto crinale fra le forze che si contrappongono sullo scacchiere mon- diale. La forza militare sancisce e sorveglia tale crinale: al punto che lo stesso diritto mantiene la sua valenza solo a parità di contendenti (ed è, infatti, «inter-nazionale»). Laddove invece si dia asimmetria civile, ov- vero mancato riconoscimento delle forme del diritto, si rendono neces- sarie altre forme di relazione. Anche la violenza ha quindi un fondamen- to, come sembra argomentare la poesiola di uno dei redattori del giorna- le satirico «Il Fischietto»: «E temo che quel prence Menelicche, / Se manca dei cannoni la morale, / Al nostro giocherel risponda picche!...»4. Questa «morale del cannone» non va ridotta ad una battuta ad effet- to. Ancora la «Piemontese», criticando l’irresolutezza di Mancini di-

nuove imprese: nella grande tavola centrale di un importante settimanale satirico, l’e- vocazione dei Mille garibaldini è posta a tutela dei «mille d’Assab» (I mille d’Assab, in «Pasquino» [«PA»], XXX, n. 3, 18 gennaio 1885, pp. 20-21).

3Dalla Crimea al Sudan, cit., ove si rievoca l’intesa anglo-piemontese del 1855-

56, un parallelo diffuso a Torino: «L’Inghilterra non ebbe a pentirsi della nostra al- leanza in Crimea, e non lo avrà nemmeno nel Golfo arabico». (Cfr. [G. B. BOTTERO], Torino, 7 febbraio, in «Gazzetta del Popolo» [«GP»], 7 febbraio 1885).

4FRAELEUTERIO, La spedizione di Assab, in «Il Fischietto» [«FIS»], XXXVIII, n.

nanzi ad un eccidio consumatosi nei pressi del possedimento italiano di Assab, offre una sistemazione della questione:

Così, con una spesa di qualche migliaio di lire in passeggiate inutili di navi e di funzionari, in telegrammi diplomatici, memoriali e protocolli, fu esaurita una questione che qualsiasi altro paese non avrebbe lasciata senza vedere qualche forca eretta, e qualche capanna dankala incendiata [...] non si fa della politica coloniale con del sentimentalismo, con delle fisime di un ipotetico diritto internazionale di là da venire, con dei memoriali, delle note diplomatiche, delle inchieste, considerando i popoli selvaggi, o non ancora inciviliti, come le nazioni che hanno istituito da secoli la diplomazia.

E, pochi giorni dopo, con un pizzico di nostalgia, si ribadisce che il vecchio Piemonte «non avrebbe lasciato i miserabili danakil di Beilul ordinare l’eccidio della spedizione Giulietti senza dare una severa le- zione che avrebbe tolta a quei selvaggi qualsiasi idea di altre stragi». Dopotutto, come ricorda un anonimo collaboratore apertamente afri- canista del medesimo giornale, «qualche scaramuccia con selvaggi, qualche severa punizione di delitto non sarebbe ancora una guerra», che, quindi, come il diritto internazionale, rientra in una sfera distinta5. Laddove le autorità non siano in grado di garantire l’ordine o avallino atteggiamenti anti-europei, entra in gioco una vera e propria polizia extranazionale. Se questo legittimo intervento non fosse sufficiente, al- lora si aggiungerebbe semplicemente un argomento alle motivazioni che premono per l’estensione dei possessi italiani d’oltremare. Il peso dell’equazione nazione-civiltà è ribadito anche dai critici di questa im- postazione: non a caso, chi si oppone con qualche argomentazione di principio all’espansionismo italiano, come la «Gazzetta di Torino», si serve del riferimento all’ethos nazionale e riconosce che non è lecito conculcare la «rivendicazione d’un popolo a libertà», proprio in conti- nuità con le vicende egiziane di qualche anno prima6.

5Si vedano, rispettivamente: Dopo l’eccidio!, «GPI», 1 gennaio 1885; Tentenna-

menti, ibidem, 5 gennaio 1885; La politica coloniale. Una risposta alla lettera del se- natore Corte, ibidem, 19 febbraio 1885.

6Cosa andiamo a fare in Affrica?, in «Gazzetta di Torino» [«GT»], 27 gennaio

1885. Tanto più che «s’ignora ancora che razza di ordine noi dovremmo concorrere a mantenere nel Sudan!...» (L’ingenuità dell’on. Crispi, ibidem, 30 gennaio 1885 - grassetto nell’originale).

Anche la stampa cattolica intransigente affronta il problema della politica coloniale in un’ottica generale: «Per quanto sieno barbari gli Assabesi, pur sono uomini, e costituiscono un popolo»7. Di qui le con- traddizioni nell’azione italiana, sia in colonia, sia – tratto centrale nel- la polemica dell’«Unità cattolica» – nella legittimazione della presa di Roma. Proprio la rivendicazione dell’esistenza di una «nazione» ha re- so possibile la distruzione del potere temporale della Chiesa: e quindi o vien meno il diritto italiano all’unificazione e all’integrità nazionale, oppure il medesimo diritto riguarda gli africani, che presto si prepare- ranno a cacciare lo straniero8.

Minor spazio, nella logica della legittimazione dell’intervento nel Mar Rosso, ha il discorso economico, mentre gli sbocchi commerciali rientrano nelle aspirazioni diffuse, ma si limitano a prospettive generi- che. Gli accenti si fanno più forti nel pieno della missione, non appena la «Gazzetta di Torino» sottolinea le grandi potenzialità commerciali del porto di Massaua e confida nel loro utilizzo proficuo da parte degli italiani9. Una sistemazione più ampia è presente nel discorso dell’ano- nimo «africanista» che, a fronte della crisi agraria, si augura che l’Ita- lia metta a coltura terre vergini, per non finire fra i «soccombenti nella lotta per la vita che si combatte fra i popoli». In un intervento succes- sivo, l’autore aggiunge alle ragioni coloniali anche l’eccesso di popo- lazione, che, con il Piemonte ai vertici delle statistiche sull’emigrazio- ne, deve avere qualche richiamo sui lettori. Infine, accetta la presa di Massaua e auspica che divenga una sorta di Aden italiana10.

7I principii di Roma capitale gettati dall’Italia nel Mar Rosso, in «L’Unità Catto-

lica» [«UC»], 5 febbraio 1885. E infatti un tono di minimizzazione e di spostamento delle responsabilità verso gruppi marginali affiora in alcuni articoli riguardo gli ecci- di di esploratori italiani. Cfr. Lettere romane, ibidem, 5 gennaio 1885 (Roma, 2 gen- naio): «non si posso incolpare della crudelissima strage altri che pochi nomadi sel- vaggi, che... vatteli a pesca!».

8I principii di Roma, cit. È ovviamente un ragionamento per assurdo: per acquisi-

re il diritto alla colonizzazione, le classi dirigenti italiane dovrebbero prima ricono- scere quello del Papa a Roma.

9«GT», 25 febbraio 1885.

10La politica coloniale, cit. (l’autore fa anche esplicitamente riferimento agli

eventi del 1881 quando la «Gazzetta» per prima aveva rivendicato la necessità di prendere Tripoli); Politica coloniale. L’opinione in favore, ibidem, 25 febbraio 1885;

L’aspetto forse più interessante del discorso pubblico filocoloniale risiede nella retorica sull’«incivilimento» dei barbari, che prelude di- rettamente alla costruzione di un’alterità inferiorizzata: lo stesso di- scorso su violenza e diritto in colonia rinvia alla differenza radicale – e alla gerarchia – fra europei e non. La dialettica fra civiltà e barbarie ri- vela anche in patria profonde differenze culturali e politiche, nella contrapposizione fra variante laico-liberale e variante cattolica. Con- viene partire da questa seconda declinazione, nella quale si fondono la critica ad alcuni aspetti dell’imperialismo e un radicale etnocentrismo a sfondo religioso. La stampa cattolica non manca mai di sottolineare la coincidenza di evangelizzazione ed incivilimento: ad esempio, nelle parole dello stesso don Giovanni Bosco, in riferimento alla meta delle missioni salesiane, la Patagonia, popolata da «numerose tribù selvagge abbandonate alla inerzia ed allo squallore, perché prive del benefizio della religione, delle scienze, delle arti, dell’agricoltura, del commer- cio, e di tutto ciò che spetta alla vita civile»11. Gli apostoli della fede cristiana,

armati unicamente della Croce, s’introducono in mezzo ai popoli bar- bari e li convertono all’Evangelio. L’opera di questi apostoli non rassomi- glia in nulla a quella dei conquistatori moderni; e se gli uni menano gran rumore e spargono di sangue le contrade, gli altri prendono pacifico pos- sesso dei luoghi e non li bagnano che col proprio sangue. Che se il Gover- no italiano volesse davvero operare qualche cosa in Africa, dovrebbe te- nere ben diversa via... Ma invece ha preso le mosse dall’intralciare l’Ope- ra di Propaganda Fide, e poi ha preteso di propagare la civiltà.

I missionari, si conclude alludendo a Gioberti, «diffonderanno tra i popoli barbari la luce dell’Evangelio e fabbricheranno gli altari sulle rovine accumulate dai ‘Poliorceti vandalici dell’età moderna’»12. Il «Corriere di Torino», più vicino ad ottiche conciliatoriste, suggerisce apertamente iniziative congiunte fra Stato e Chiesa: «la missione sulle pacifiche vie della religione, della morale e della civiltà frutterà assai più dei sanguinosi trionfi ottenuti sui campi di battaglia». Ma ribadi- sce, in seguito, il medesimo concetto, per cui «la Religione» è la sola

11È l’apertura di una relazione ai cooperatori, ripresa in «Bollettino Salesiano»,

n. 1, gennaio 1885, p. 3.

che «mostrando mitezza, induca civiltà» ed «ha virtù di uccidere la barbarie»:

un crocefisso brandito da un frate dinanzi ad una folla di barbari vale assai più che un esercito di baionette appuntate contro a loro; perché quel- lo li doma, queste li irritano; dinanzi a quello sentono il soffio animatore della vera civiltà, dinanzi a queste non veggono che una barbarie sott’altra forma, non veggono che un’ambizione di conquista più ordinata, meglio camuffata, ma sempre rapace né più né manco che la loro13.

Nel presentare le popolazioni africane, per la stampa cattolica gioca un ruolo decisivo il giudizio sulle forme religiose. Ove prevale la pole- mica politica interna, con un artificio che ha del letterario, si può arri- vare all’utilizzo di un collaboratore pseudo-musulmano, con tanto di citazioni coraniche. Il testo che viene presentato all’interno di un edi- toriale, come fosse una traduzione dall’arabo, rivelerebbe uno sguardo critico degli stessi musulmani contro i liberali italiani, che non rispet- tano la propria religione in patria14. Più tradizionalmente, la caduta di Khartoum, attribuita ad un tradimento, viene ricondotta all’«influenza religiosa dell’islamismo», che Gordon e gli inglesi non avrebbero con- siderato con la dovuta attenzione15. In polemica con la stampa liberale, sulla questione della presenza di missionari al seguito della spedizione italiana, si giunge ad affermazioni recise e risentite. A chi contesta il diritto dei cattolici alla diffusione della fede si replica retoricamente, con tono beffardo, mimandone le affermazioni: «Predicare il Vangelo

13E., I paesi africani sul Mar Rosso, in «Corriere di Torino» [«CT»], 20 gennaio

1885; Le spedizioni pacifiche, ibidem, 17 febbraio 1885. A Mancini, che in parlamen- to aveva celebrato la missione civilizzatrice italiana, un altro foglio cattolico replica: «poveri africani mi state freschi!», poiché l’Italia, attraverso carceri, spese pubbliche, caffè, bettole e bordelli, «porta in Africa la civiltà dell’immoralità, dell’ignoranza e delle tasse: ed essendo così farebbe meglio a non sacrificare i nostri soldati e i nostri denari»; invece «vera civiltà non si può dare senza vera religione», poiché «civiltà e religione sono sinonimi» (Esportazione di civiltà italiana in Africa, in «La Voce del- l’Operaio», IX, n. 11, 5 aprile 1885).

14Il rispetto del Corano a Massaua e della religione cattolica a Roma, «UC», 25

febbraio 1885.

15Le alleanze europee e la spedizione africana, «CT», 10 febbraio 1885 (Roma, 8

febbraio). La polemica anti-islamica è una costante dell’approccio cattolico, anche nel quadro dell’apostolato missionario.

agl’infedeli è venir meno alla tolleranza religiosa! La buona politica colonizzatrice consiste nel rispettare l’idolatria degli indigeni!». E, an- cora per assurdo, si conclude con un invito parallelo: che i missionari protestanti in Italia rispettino allora il popolo cattolico16. Quanto a ci- viltà, la Cina offre l’occasione per una sistemazione del nesso fra reli- gione e moralità: «Diventare cristiani ed esser civili è tutt’una cosa: un chinese cristiano non espone i suoi ragazzi, non si dà al vizio, non è un ribelle, non commette tutte quelle barbarie che in un chinese idolatra sono fior di gentilezza»17.

Di fronte a queste posizioni, che identificano virtù cristiane e civil- tà, evangelizzazione e incivilimento, la stampa borghese assume atteg- giamenti diversificati. La «Gazzetta di Torino» rappresenta un caso estremamente interessante. Nell’intervento del suo influente corri- spondente parigino, si arriva a riconoscere il ruolo dei religiosi. Se in Abissinia si incontra il «tipo primitivo della civiltà cristiana», sarebbe tutto merito dei missionari, i «principali banditori della civiltà abissi- na», tra i quali il piemontese Guglielmo Massaia. L’autore si fa al con- tempo portatore di una visione ben precisa del rapporto fra civiltà bor- ghese e barbarie islamica, accreditando la possibilità di una contrappo- sizione religiosa in sede di politica internazionale:

l’interesse generale della civiltà cristiana richiede che tutta l’Europa faccia argine alle invasioni delle turbe mussulmane e l’Italia non può né deve, né certamente vorrebbe sottrarsi alla posizione che le crea la sua condizione di grande potenza18.

A questi proclami fa riscontro l’idea del Sudan come «paese fana- tizzato e levato in armi quasi da una generale insurrezione»19. Allo stesso tempo proprio la «Gazzetta» propone una critica alla variante laica. L’alternativa fra civiltà e barbarie è definita senza mezzi termini

16I missionari in Assab ed il Pungolo, «UC», 27 gennaio 1885.

17Le spedizioni pacifiche, cit.

18UGOLINO [A. CERESA], L’Abissinia, «GT», 12 febbraio 1885 (Parigi, 10 feb-

braio).

19E., La matassa s’imbroglia in Africa, «CT», 10 febbraio 1885. Va detto che, su

quest’organo, la presentazione del movimento del Mahdi non è particolarmente ten- denziosa, a parte l’uso sporadico del termine «orde» a definire gli africani in armi, e il giudizio sul Mahdi, un «invasato» (E., Il Mahdi, ibidem, 18 febbraio 1885).

«frase vuota di senso», cogliendo i limiti di una «civiltà che s’intro- mette a colpi di cannone e da cui deve risultare l’assoggettamento e magari lo sfruttamento di un popolo». E «increduli» saranno ancora, oltre che sui fini commerciali, sulla «missione civilizzatrice di popoli barbari»20.

All’estremo opposto, apertamente critica di queste contaminazioni linguistiche fra registri (politica di potenza e civilizzazione cristiana), il principale foglio subalpino, la «Gazzetta del Popolo», introduce un altro concetto di civiltà.

L’Europa sa che nelle crociate fu essa che venne sconfitta, tanto che oggi ancora «il sepolcro di Cristo è in mano ai Turchi» e che la rivincita contro l’Oriente non si è confermata se non in tempi molto più recenti, quando invece di accender fanatismo contro fanatismo, si fece astrazione dalle questioni religiose, sostituendovi con miglior esito la lotta del pro- gresso contro l’ignoranza, e della civiltà contro la barbarie.

Si riprende poi un topos del pensiero politico moderno: tratto pecu- liare dell’esperienza europea dal Seicento in avanti, il rifiuto delle guerre di religione avrebbe generato il principio della tolleranza di tut- ti i culti. L’andata in Africa si riduce invece ad una

quistione d’equilibrio politico-commerciale, con ampia facoltà ai mu- sulmani, così sunniti come sciiti, d’adorar Maometto anche coi riti del Mahdi... Sarebbe un insulto alla coscienza umana ed una derisione al

buonsenso il supporre un solo momento che altri intenda dare alla guerra

l’intonazione d’una crociata.

In sintesi il presunto programma anglo-italiano resterebbe ispirato alla «libertà dei culti e dei commerci, indispensabile condizione del trionfo della civiltà contro la barbarie»21. Nell’articolo del quotidiano di Bottero si espone in maniera cristallina la contrapposizione fra le missioni di civiltà. Altrove, la variante laica è ribadita in polemica con gli antiafricanisti: «In qual modo l’incivilire dei Danakil, dei Somali,