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Osservazioni sulla diffusione della rete inquisitoriale nel territorio di Modena all’inizio del Seicento

di Laura Roveri

La setta dei Dodici era costituita da un gruppo di persone provenienti dall’en- troterra spoletino, che, riprendendo la tradizione cerretanesca descritta da Piero Camporesi ne Il libro dei vagabondi1, battevano le campagne modenesi

e reggiane, fingendosi sacerdoti-stregoni inviati da Dio in giro per il mondo, allo scopo di rimettere i peccati senza bisogno di confessione sacramentale e di far comunicare le persone con i propri parenti defunti. Di qui l’attenzione dell’Inquisizione modenese, che li processò nel 1608-1609.

La mia tesi, prendendo le mosse dallo studio e dalla trascrizione integrale degli incartamenti processuali, si è incentrata su alcuni nuclei problematici sollevati dagli atti inquisitoriali contro la setta dei Dodici: in primo luogo, l’organizzazione e la struttura reticolare delle vicarie foranee inquisitoriali, che avevano in qualche caso reso possibile, e in un altro caso ostacolato la cattura di alcuni sospettati. È di questo primo tema che il presente lavoro rap- presenta l’approfondimento.

In seconda istanza, ho posto la mia attenzione sugli aspetti più propria- mente folklorici ed antropologici che traspaiono dagli interrogatori dei rei e dalle deposizioni dei testimoni: all’insieme, cioè, di pratiche, rituali, saperi e credenze giudicati eterodossi e superstiziosi dalla Chiesa della Controriforma ma considerati perfettamente legittimi dai vagabondi-stregoni della setta dei Dodici e dal loro pubblico di contadini e popolani. Sono emersi dalle carte processuali aspetti del folklore legati soprattutto all’influsso degli astri sulla vita dell’uomo, al ritorno delle anime dei morti e al viaggio nell’aldilà, alle simbologie relative al sangue, al potere magico del Vangelo di San Giovanni e della cera benedetta2.

1P. CAMPORESI(ed), Il libro dei vagabondi, Torino, 1973.

2Sul materiale folklorico contenuto nel processo contro la setta dei Dodici segna-

lo A. PROSPERI, Croci nei campi, anime alla porta. Religione popolare e disciplina

In seguito alle vicende legate alla devoluzione di Ferrara (12 gennaio 1598) e alla riduzione del ducato estense alle città di Modena e Reg- gio, sin dai primi mesi del 1598 Modena divenne sede di inquisitore, cioè fu innalzata dalla condizione di Vicaria al rango di Inquisizione principale; di conseguenza, la Suprema Congregazione del Sant’Uffi- zio dedicò un’attenzione particolare a questa nuova sede dell’Inquisi- zione, appena nata e subito posta di fronte a numerosi ostacoli, in rela- zione ai difficili rapporti tra la casa d’Este ed il papato.

Il 14 marzo 1598 Giovanni Montefalcone ricevette l’investitura a primo inquisitore generale della città di Modena tramite una patente che gli venne consegnata dall’inquisitore di Ferrara. Montefalcone si trovò subito a dover affrontare il problema dei rapporti con alcune ter- re vicine a Modena: Carpi, Nonantola e Brescello. Esse non apparte- nevano né alla giurisdizione di Modena né a quella di Reggio; l’uso precedentemente consueto le vedeva assoggettate all’inquisitore gene- rale di Ferrara. In seguito al trasferimento della capitale dello stato estense a Modena, Montefalcone reclamò per l’Inquisizione modenese il controllo di quelle terre, che appartenevano politicamente ai territori degli Estensi, e che dunque dovevano passare, allo stesso modo, sotto la cura spirituale del Sant’Uffizio di Modena.

Anche per la provincia della Garfagnana si presentarono difficoltà giurisdizionali, poiché in essa i confini politici dello stato estense si sovrapponevano ai confini religiosi delle diocesi di Lucca e di Sarza- na. Ma l’intervento della Curia romana risolse le complicazioni abba- stanza agevolmente, tanto che già nei primi anni del Seicento l’inqui- sitore della città estense era divenuto «Inquisitore generale di Modena, Carpi, Nonantola e loro diocesi e della Provincia di Garfagnana»3.

ZI(ed), Il piacere del testo. Saggi e studi per Albano Biondi, vol. I, Roma, Bulzoni,

2001, pp. 83-117, ed il mio contributo Gli stregoni erranti. La cultura popolare nelle

carte di un processo dell’Inquisizione modenese nel medesimo volume, pp. 119-139.

3A. BIONDI, Lunga durata e microarticolazione nel territorio di un Ufficio del-

l’Inquisizione: il “Sacro Tribunale” a Modena (1292-1785), in «Annali dell’Istituto

storico italo-germanico in Trento», VIII, 1982, pp. 73-90, p. 79. Per quanto riguarda lo stato di avanzamento degli ultimi processi celebrati in Modena al tempo in cui era ancora Vicaria, Montefalcone si rese però ben presto conto del disordine dell’archivio e dell’abbandono di una regolare attività di persecuzione di atteggiamenti e compor- tamenti contrari alla fede cattolica. Oltre a questo, negli ultimi 14 anni non erano mai

Struttura e funzionamento del Sant’Uffizio di Modena

L’istituzione inquisitoriale, per poter svolgere al meglio i propri com- piti doveva necessariamente essere strutturata secondo un’organizza- zione reticolare dalle maglie assai fitte. L’artefice del riassetto del San- t’Uffizio modenese fu frate Arcangelo Calbetti da Recanati, il terzo in- quisitore generale. Negli anni 1600-1607 egli creò il sistema delle Vi- carie o Congregazioni foranee, destinato a durare immutato fino all’a- bolizione del Sant’Uffizio a Modena, cioè fino al 1785.

Quella di Calbetti era l’epoca in cui la Chiesa, uscita dal Concilio di Trento, incominciava ad attuare una vasta campagna tesa alla rac- colta di informazioni, coinvolgente tutte le diocesi d’Italia, al fine di «prendere possesso del contado in forme organizzative efficienti»4.

Così anche a Modena nel 1612 venne svolta un’inchiesta assai det- tagliata, al fine di ottenere notizie sulla situazione di ogni «Terra, Ca- stello o Villa» sottoposta alla giurisdizione dell’Inquisizione cittadina. Nel saggio sul «Sacro Tribunale» di Albano Biondi si riporta il formu- lario mandato a tutti i vicari dell’Inquisizione. L’indagine diede luogo ad una prima redazione dell’elenco delle congregazioni foranee del ducato estense5.

Il nome del luogo. Se sia Terra, o Castello, o Villa, grosso o piccolo. Sotto qual Dominio o Giurisdittione sia in temporale. Sotto qual Diocesi, o giurisdittione in spirituale. Se sia di Marchese alcuno, o di Conte, etc. Se sia podestaria o no, o vero habbia Governatore, o Commissario. Con quai Dominij confina. Se sia in piano, o in monte. Quanto lontano sia da Modena. Quanto lontano dalla Terra o Castello principale dove sta il po- destà, o governatore, et la corte. Sotto qual congregatione sia. Quanti fuo- ghi faccia, appresso a poco. Quante anime faccia, appresso a poco. Quan-

stati pubblicati gli editti generali del Sant’Uffizio, col risultato che nelle zone di mon- tagna la gente non sapeva neppure cosa fosse l’Inquisizione, e che gli ebrei, ignari dell’esistenza di un Indice dei libri proibiti, possedevano testi pieni – a detta dell’In- quisitore – di errori, bestemmie e maldicenze. Il clero secolare ed il potere civile era- no restii a concedere la propria collaborazione; quanto alle proprietà materiali della sede inquisitoriale, gli apparati di tortura, in disuso da lungo tempo, erano inutilizza- bili, e le suppellettili pressoché inesistenti.

4A. BIONDI, Lunga durata e microarticolazione, cit., p. 85.

te Chiese habbia. Et il nome loro. Qual Chiesa sia Pieve, quale Parochia- le. Se vi sia Chiesa o convento d’alcuna religione, et quanti religiosi vi stiano appresso a poco. Il nome et cognome et grado de i Rettori delle Chiese. Se siano vicarij foranei di Monsignor Reverendissimo Vescovo. Se siano Vicarij o Commissarij dell’Ufficio della Santa Inquisitione. Di qual provincia o parte sia, come di Garfagnana, del Frignano, etc. Se vi sia alcun fiume o torrente che soglia impedire il transito da un luogo al- l’altro, et quanto lontano dal luogo, et come si chiami. Chi sia Notaro del Santo Officio, o di chi si serva per Notaro. Se siano Arcipreti o Rettori o Prevosti. Che il tutto sia scritto in lettera intelligibile accioché non si fac- cia errore de’ nomi, etc.6.

Informazioni simili vennero in seguito raccolte in un volume mano- scritto, ora contenuto nella busta 278 del Fondo Inquisizione dell’Ar- chivio di Stato di Modena. Esso fu composto, dopo una nuova inchie- sta, raccogliendo le lettere di risposta che, nell’ultimo quinquennio del Seicento, erano state fornite dai vicari foranei dell’Inquisizione mode- nese. Tali indagini dovettero essere effettuate ad intervalli abbastanza ravvicinati nel tempo, per tenere sempre aggiornati i nominativi dei curati e dei notai patentati del Sant’Uffizio che svolgevano compiti at- tivi per conto dell’Inquisizione.

Il documento che segue, tratto dal volume sopra ricordato, seppure risalente alla fine del Seicento, è comunque rappresentativo della si- tuazione delle vicarie periferiche dell’Inquisizione modenese dopo la ristrutturazione compiuta da Calbetti. Si tratta della descrizione della zona di pianura di Cavezzo, a nord di Modena.

Reverendissimo Padre Signor, Signor Padrone mio Colendissimo. Ca- vezzo.

In essecutione de’ stimmati cenni di Vostra Paternità Reverendissima non manco dargli la sequente nottitia del Vicariato del Santo Uffitio della mia Congregatione del Cavezzo.

La medesima dunque è composta di tre Chiese, cioè Cavezzo, Motta e Disvetro, che sono incorporate insieme. La Chiesa del Cavezzo è distante da due miglia da Disvetro, e altretanto dalla Motta. Da Disvetro alla Mot- ta ci saranno quasi due miglia. Le tre Parocchie unite faranno quatro mi-

6Archivio di Stato di Modena (d’ora in poi: ASMO), Fondo Inquisizione, busta

278, «Descrizione delle Vicarie del Sant’Officio di Modena», anche in A. BIONDI,

glie di lunghezza per un verso, e quatro e meza per l’altro, e per larghezza saranno più di due miglia tutta pianura, sì l’una comme l’altra.

Il Cavezzo farà da duacento fameglie, Disvetro poco meno, e la Motta da cento cinquanta, sì che in tutto saranno da cinquecento cinquanta fuo- chi in circa.

Da Levante confina con Medolla e Villafranca della Congregatione di Camuranna, Diocesi di Nonantola. Da Settentrione la Chiesa di S. Giaco- mo per parte, e per parte S. Possidonio, tutte nel Mirandolese, Diocesi di Reggio. Da occidente per parte la prefatta Parocchia di S. Possidonio, e il fiume Secchia per l’altra, che divide il Modonese dal Carpiggiano. Da Mezzo Giorno il fiume Secchia e le Parocchie di S. Prospero e Staggia, Chiese della Diocesi di Nonantola.

Non posso dar più chiare nottitie alla Paternità Vostra Reverendissima; quando, occorrendo, non mi somministri mottivi di potter maggiormente sodisfare a’ miei doveri. Non si manca dal Signor Francesco Forcinelli, Giudice dell’aque, di far comandare a’ lavorare al fiume Secchia li Patten- tati del Santo Uffitio, e non ostante l’havergli fatti fare più pregni, e gra- vatogli, temono anche nuovamente che li sbirri vaddino a pignorarli; ne porgo perciò aviso a Vostra Paternità Reverendissima, assicurandovi che vorrà riparare a tal inconveniente, mentre mai sono stati astretti per il pas- sato a detto lavoriere7.

Gli porgo quell’incommodo col avisarla, per non mancare a’ miei do- veri, nel resto mi prottesto conformarmi alla somma lei prudenza, non ha- vend’altro oggetto, che il desiderio di farmi in fatti connoscere qual hu- miltà mi [...]8.

Di Vostra Paternità Reverendissima Cavezzo, li 27 Marzo 1696.

Humilissimo, devotissimo e obbligatissimo servitore Santi Malavasi9.

A sostegno e controllo del sistema delle Vicarie foranee, l’istituto inquisitoriale dava lavoro a numerose persone nella sede centrale di

7Da questa lettera emerge l’attrito spesso presente tra giurisdizione temporale e

giurisdizione spirituale; in questo caso i patentati del Sant’Uffizio si vedono gravare di un nuovo compito da parte del potere civile: il servizio di manutenzione di argini e chiuse presso il fiume Secchia.

8Un’unica parola illeggibile.

9ASMO, Fondo Inquisizione, busta 278, «Descrizione delle Vicarie del Sant’Offi-

Modena. Vi erano diversi patentati del Sant’Uffizio sottoposti all’in- quisitore: un vicario; consultori teologi, canonisti e legisti; ufficiali e ministri; revisori delle opere a stampa, specializzati nelle varie mate- rie; un revisore alle porte della città per il Sant’Uffizio; vari «familia- ri», tra i quali alcuni nobili10.

Per poter svolgere mansioni a diverso titolo inerenti all’attività del Sacro Tribunale, tutte queste persone (tra i cittadini ed i foranei a Mo- dena erano circa 200) dovevano ottenere una speciale abilitazione, la cosiddetta patente, che veniva loro concessa dall’inquisitore, ma dove- va comunque essere ratificata dalla Suprema Congregazione romana.

Il territorio modenese era suddiviso tra le diocesi di Modena (com- prendente, fra le sue 27 congregazioni, Bomporto, San Cesario, Citta- nova, San Felice, Fiumalbo, Spilamberto, Sorbara, Vignola), di Carpi11, di Nonantola (diocesi che presentava la situazione più eterogenea, in- cludendo anche i vicariati montani del Frignano, come Pavullo e Sesto- la, oltre a quelli della collina, come Castelvetro, e della pianura, come San Prospero), e la provincia della Garfagnana. Qui l’Inquisitore di Modena dovette concordare con i Vescovi di Lucca e di Sarzana i no- minativi delle persone alle quali affidare le vicarie in diocesi di Lucca (Castelnuovo e Silico) e in diocesi di Sarzana (Verrucola).

In tutto vi erano 43 congregazioni, alle quali appartenevano 232 chiese o parrocchie. I vicariati foranei erano controllati da tre persone ciascuno: un vicario del Sant’Uffizio, un notaio, e un mandatario o nunzio, il «braccio» dell’inquisitore.

Il vicario era di solito un parroco autorevole, che aveva l’obbligo, nei periodi di Quaresima e di Avvento, durante la messa, di dare lettu- ra dell’editto generale contenente la notifica dei reati contro la religio- ne cattolica che i fedeli erano in obbligo di denunciare. Il vicario do- veva poi comunicare a Modena l’avvenuta lettura dell’editto in tutte le chiese della sua congregazione.

10Questa articolazione è descritta in R. CANOSA, Storia dell’Inquisizione in Ita-

lia dalla metà del Cinquecento alla fine del Settecento. Modena, vol. I, Roma,

1986, p. 123.

11Per quanto riguarda le questioni sollevate dall’arciprete di Carpi al momento

dell’innalzamento di Modena da vicaria al rango di Inquisizione principale, si veda

A. BIONDI, La “Nuova Inquisizione” a Modena. Tre inquisitori (1589-1607), in Città

Assai spesso i fedeli erano spinti a sporgere denuncia in confessio- nale, e venivano invitati dal sacerdote – per poter ricevere piena asso- luzione – a ripetere le accuse nel corso di una regolare testimonianza all’autorità inquisitoriale competente, il vicario del luogo: carica che tuttavia, nei piccoli centri veniva quasi sempre ricoperta dallo stesso confessore. Ciò dava luogo a quella che Adriano Prosperi12ha definito una commistione tra «foro interno» e «foro esterno»: la giustizia divi- na riguardo ai peccati, amministrata dal confessore, si confondeva e si sovrapponeva alla giustizia del Sacro Tribunale in materia di ortodos- sia della fede, un’ortodossia che veniva ricercata attivamente da quei vicari-confessori che erano al contempo uomini di Dio ed informatori del Sant’Uffizio. Veniva così a cadere, di frequente, il principio della segretezza della confessione sacramentale: chi era confessore ed anche vicario dell’Inquisizione non poteva non informare il Sacro Tribunale nel caso in cui fosse venuto a conoscenza, in confessionale, di opinio- ni o atteggiamenti contrari alla fede13.

Scontri con il potere temporale

L’attività inquisitoriale a Modena, soprattutto dal momento del trasfe- rimento del Duca in città, era inevitabilmente destinata a conoscere at- triti e contrasti con il potere politico.

Cesare d’Este, scacciato da Ferrara nel 1598 da papa Clemente VIII Aldobrandini, di sicuro non vedeva di buon occhio alcuna ingerenza da parte della Curia romana negli affari dello stato estense. Il Duca era spalleggiato dal ministro Laderchi, il quale gli suggeriva di appoggiare il nascere di un Ufficio inquisitoriale a Modena solo se «strutturato se- condo il modello veneziano, cioè con qualche forma di controllo da

12A. PROSPERI, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Tori-

no, 1996, pp. 476-484. Ora anche E. BRAMBILLA, Alle origini del Sant’Uffizio. Peni- tenza, confessione e giustizia spirituale dal medioevo al XVI secolo, Bologna, 2000,

pp. 358-359 e 568-571.

13Il tema è trattato da A. PROSPERI, Anime in trappola. Confessione e censura ec-

clesiastica all’università di Pisa fra ’500 e ’600, in «Belfagor», 1999, n. 321, pp.

parte del potere civile»14. Ma la corte estense dovette cedere alla tena- cia dei primi inquisitori nell’affrontare energicamente i casi di conflit- to con la casa d’Este e con la nobiltà locale.

I motivi di contrasto fra l’Inquisizione e il Duca riguardavano so- prattutto il potere del Sacro Tribunale di arrestare, per cause ad esso spettanti, dipendenti della casa regnante, senza avere limiti e controlli da parte della burocrazia di corte e senza doverne dare necessariamen- te preventiva informazione, cosa che invece il Duca rivendicava come un proprio diritto. I dubbi sul modo di procedere in tali casi vennero fugati dal cardinale Arrigoni, il quale, a nome della Sacra Congrega- zione romana, nel 1609 scrisse una lettera all’allora inquisitore di Mo- dena, frate Michelangelo Lerri, pregandolo di mantenere un comporta- mento fermo ma più morbido nei confronti della corte ducale, al fine di evitare che scoppiasse qualche scandalo. L’inquisitore doveva dun- que avvisare il Duca di quanto stava per intraprendere nei confronti di un suo sottoposto, ma intanto doveva procedere in modo solerte, rac- cogliendo «le informationi necessarie per avere l’intiera cognizione della verità»15.

Di tali frequenti dissapori si avverte l’eco anche in una annotazio- ne, aggiunta da mano ignota, alla lettera che Michelangelo Lerri, all’e- poca ancora inquisitore di Reggio, aveva fatto recapitare nel maggio del 1608 a Serafino Borra, inquisitore a Modena, per avvertirlo della presenza, nelle terre dello stato estense, di «certi guidoni» che andava- no truffando la gente. L’annotazione precisava: «perché capitando o questi o gl’altri gli faccia fermare et arrestare se capitano in quelli contorni, e mi mandi subito messo a posta, che si mandaranno a pi- gliare commandi a massari o altri ufficiali di communità in nome del Santo Officio per tale effetto, intimandogli la scommunica»16. Per otte-

14A. BIONDI, Lunga durata e microarticolazione, cit., p. 79.

15Lettera del cardinale Arrigoni a Michelangelo Lerri (11 aprile 1609), riportata

in R. CANOSA, Storia dell’Inquisizione in Italia, cit., p. 128. Un ulteriore nodo irrisol-

to nei rapporti tra potere politico ed Inquisizione era quello della competenza su que- stioni riguardanti la comunità ebraica modenese. Di questo aspetto si è occupato am- piamente Albano Biondi.

16ASMO, Fondo Inquisizione, busta 32, processo Contra quosdam questuantes

fingentes se peregrinos, annotazione alla lettera di Michelangelo Lerri a Serafino

nere la collaborazione degli sbirri della guardia cittadina, infatti, assai spesso l’inquisitore era costretto a minacciarli di scomunica.

Il potere civile si intrometteva a volte negli affari del Sant’Uffizio anche quando non era in discussione la condotta dei dipendenti della corte ducale. Nella sua deposizione del 4 giugno 1608, Bartolomeo de’ Manenti, servitore dell’Inquisizione modenese, riferisce di avere incontrato svariate difficoltà nel convocare presso il Sant’Uffizio, per conto dell’inquisitore, l’oste Giovanni Battista Campioli. Bartolomeo de’ Manenti era stato intimidito dal podestà Arlotti in persona, il quale lo aveva «braccato» e lo aveva minacciato, alla presenza di un notaio e di due uomini d’armi di sua fiducia, di fargli dare «tre tratti di corda» perché aveva cercato di condurre in prigione l’oste. Infatti il podestà «non voleva che mettessi in pregione alcuno senza dir una parola a lui, o al signor giudice»17.

Carteggi

A garantire il perfetto funzionamento della macchina inquisitoriale, per il quale si dimostrava necessaria una rapida e tempestiva circola- zione di notizie, di informazioni e di autorizzazioni a procedere, prov- vedeva il complesso sistema di scambi epistolari fra le Inquisizioni provinciali e la sede centrale romana, nonché fra le diverse Inquisizio- ni cittadine.

Sempre per via epistolare veniva gestito il sistema del conferimento delle patenti ai nuovi inquisitori o a coloro che, periodicamente e di necessità, cambiavano la sede in cui prestavano il proprio servizio. A volte potevano verificarsi intoppi nel conferimento di tali patenti, co- me dimostra il caso di frate Michelangelo Lerri, destinato a trasferirsi ai primi di luglio del 1608 dall’Inquisizione di Reggio a quella di Mo- dena: nel fitto carteggio da lui intrattenuto con il suo predecessore, fra- te Serafino Borra, egli non mancava di indicare, dapprima quasi di sfuggita, poi sempre più insistentemente via via che il tempo passava, che ancora non gli era stata recapitata la patente.

17ASMO, Fondo Inquisizione, busta 32, processo Contra quosdam questuantes,

cit., verbali degli interrogatori, c. [56]r. D’ora in poi le carte non numerate verranno