• Non ci sono risultati.

Il tema della guerra nelle due prime elezioni del dopo conflitto L’apporto delle mitologie politiche “nate dalla

guerra” alla modernizzazione politica in Italia e Francia

(1919-1924)*

di Andrea Baravelli

La ricerca ha inteso analizzare il ruolo avuto dal ricordo della guerra quale grande tema legittimante (e delegittimante) per le diverse forze politiche af- frontatesi in campagna elettorale nell’Italia e nella Francia del primo dopo- guerra. In particolare, sono state indagate sia le elezioni politiche svoltesi in Italia fra il 1919 e il 1921, sia quelle avutesi in Francia fra il 1919 e il 1924. Intendendo compiere un lavoro di scavo archivistico approfondito, capace di integrare gli aspetti propri della politica “alta” con quelli della politica “bas- sa”, delle grandi tematiche di tipo nazionale o generazionale con le dinami- che territoriali dei collegi, lo studio ha mosso dall’esame di collegi campioni in entrambi i paesi. In Italia tali collegi sono stati identificati – seguendo mo- tivazioni geografiche, politiche e culturali – nei collegi di Brescia, di Bologna e di Chieti. Per la Francia, invece, nei dipartimenti della Meuse, della Sarthe, dell’Hérault e della Terza circoscrizione della Senna. Lo studio ha prevalen- temente riguardato lo spoglio di una grande quantità di periodici (nazionali e locali) al fine di cogliere le dinamiche delle campagne elettorali e, in partico- lare, le retoriche evocanti il ricordo della guerra utilizzate dai diversi soggetti impegnati nella competizione. Accanto ai giornali, grande attenzione è stata data ai fondi di personalità politiche e ai fondi di polizia conservati presso gli archivi di stato dello località prescelte e presso gli archivi nazionali di Roma e di Parigi. Il fine ultimo della ricerca è stato quello di determinare se sia ef- fettivamente nata, quale ruolo abbia avuto e come si sia evoluta una cultura politica di tipo nuovo, generalmente definita come cultura politica di Union

sacrée.

* Il saggio qui proposto costituisce un estratto dal III capitolo della mia tesi di Dottorato di ricerca in Storia politica comparata dell’Europa del XIX e XX secolo, Dipartimento di Politica, Istituzioni e Storia della Facoltà di Scienze Politiche, Uni- versità di Bologna, XII ciclo, relatore prof. Gaetano Quagliariello.

Introduzione

La prima guerra mondiale costituisce lo sfondo di questa ricerca, per- ché la straordinarietà dell’evento, capace di sconvolgere istituzioni, uo- mini e mentalità, ebbe significative ripercussioni anche sulla politica dei paesi coinvolti. Non solamente i soldati tornarono dalle trincee tra- sformati, ma anche milioni di civili vennero investiti da analoghi pro- cessi di alterazione dell’identità, personale e di gruppo. Tutto un insie- me di nuove fratture, di classe, generazionali, economiche e politiche, vennero dunque ad aggiungersi a quelle già esistenti. La guerra scosse tutte le consuetudini, provocando una mobilitazione sociale e politica che alla fine del conflitto si tradusse nella massificazione della vita pubblica. In Italia, in particolare, si portarono a compimento quei pro- cessi di assolutizzazione della politica che già con la guerra di Libia avevano cominciato a imporsi1. Soprattutto, però, la guerra diede un vi- gore inedito a una convinzione non nuova nel panorama politico italia- no, quella, cioè, che alla politica spettasse il compito di rigenerare mo- ralmente e spiritualmente la collettività2. Accanto a questa convinzione, anche “l’esperienza della guerra” si trasformò in un mito e, da mito- poiesi avente lo scopo di rendere accettabile un passato intrinsecamente sgradevole, finì per divenire un elemento condizionante l’intera scena politica europea nel dopoguerra3. Come scrive Mario Isnenghi:

1Adrian Lyttelton, riflettendo sulla trasformazione del linguaggio politico, nota

come sia stata l’agitazione nazionalista in occasione della guerra di Libia ad avere imposto, per la prima volta, il trasferimento del conflitto con lo stato parlamentare (tramite il potere del linguaggio) dal piano “secolare” al piano “sacro”. Un passaggio fondamentale, questo, per comprendere l’estremizzarsi di identità partitiche e la loro assimilazione a vere e proprie fedi religiose. Si veda A. LYTTELTON, Il linguaggio del conflitto politico nell’Italia pre-fascista, in «Problemi del socialismo», n. 1, 1988, pp.

170-183.

2Si veda E. GENTILE, Un’apocalissi nella modernità. La Grande Guerra e il Mito

della rigenerazione della politica, in «Storia contemporanea», n. 5, 1995, pp. 773-

787. Inoltre, si veda G. PROCACCI, Attese apocalittiche e millenarismo, in P. CORNER-

S. ORTAGGI-G. PROCACCI-L. TOMMASSINI(edd), Grande Guerra e mutamento, fascico-

lo di «Ricerche storiche», settembre-dicembre 1997, pp. 643-656.

3George L. Mosse, riflettendo sulla Germania di Weimar, ha per primo segnalato

la fondamentale importanza che l’esperienza di guerra ebbe nel favorire una evidente “brutalizzazione” della politica. Infatti, gli anni della guerra abituarono l’opinione

Di chi sono?, a chi appartengono quei morti? E in che rapporto si

possono o debbono mettere con essi coloro che hanno attraversato i com- battimenti uscendone vivi? Le forze associative e politiche? Le comunità di origine dei caduti? I processi mentali che si avviano quando le armi

hanno appena cessato di uccidere vedono entrare in azione una moltepli- cità di soggetti privati e pubblici, aventi variamente titolo nel profilare il senso di quelle vite e di quelle morti. Nella lotta politica d’ogni giorno i morti diventano immediata occasione, per le diverse forze politiche, di rinfacciarsi vicendevolmente oblii e tradimenti, rispetto a tutto quel san- gue versato4.

Il motivo di questa lotta fra i soggetti della politica per imporre la propria interpretazione del “perché” della guerra è, infatti, profonda- mente connesso con il tentativo di farsi riconoscere quali migliori inter- preti dei tempi nuovi. E poiché era comune la convinzione che, dopo la guerra, nulla potesse essere più come prima, si ritenne fondamentale ri- farsi a questa esperienza per conquistare consenso e richiedere legitti- mamente il voto agli elettori. Infatti, all’indomani di un evento così violentemente perturbatore degli assetti sociali e psicologici quale fu la guerra, la crisi dei sistemi politici europei non poteva che avere l’aspet- to di una crisi di legittimità5. La Grande Guerra, poiché si riteneva avesse fatto tabula rasa di principi e mentalità, apparve, così, come la pubblica a percepire la politica come si era percepito il conflitto e, cioè, come una contrapposizione amico/nemico, dove il secondo termine dell’antitesi non poteva che venire completamente disumanizzato. Non fu un processo che riguardò le sole forma- zioni estremiste, poiché tutti i partiti ne furono coinvolti, in un crescendo di violenza verbale che legittimava, di pari passo, il passaggio alla violenza fisica. Si veda G.L. MOSSE, Le guerre mondiali : dalla tragedia al mito dei caduti, Roma-Bari, 1990, pp.

175-199. Quello proposto da Mosse è solo uno dei possibili spunti di ricerca, ma molti altri – a proposito della molteplicità dei fenomeni di trasformazione che investi- rono la politica europea del dopoguerra – potrebbero citarsi.

4M. ISNENGHI, G. ROCHAT, La Grande Guerra. 1914-1918, in Storia d’Italia nel

secolo ventesimo, vol. II, Milano, 2000, pp. 487-488. Corsivo mio.

5Un’ottima antologia sul tema della legittimità è quella curata da G. PECORA, Po-

tere politico e legittimità, Milano, 1987. Sul rapporto tra i concetti di legalità e legitti-

mità si veda P. POMBENI, Partiti e sistemi politici nella storia contemporanea (1830-

1968), Bologna, 1994, pp. 52-57. Inoltre, si veda anche ID., Autorità sociale e potere

politico nell’Italia contemporanea, Venezia, 1993. Infine, da un punto di vista stori-

co, il tema è affrontato da G. GRIBAUDI, Premessa a Conflitti, linguaggi e legittima- zione, in «Quaderni Storici», n. 94, 1997, pp. 3-19.

fonte di nuovi valori, nuove credenze e, in definitiva, di “nuove legitti- mità”6. I discorsi attorno al diritto a governare “legittimamente” il pae- se presero dunque avvio dall’assunto che la guerra, per le sue dimen- sioni e straordinarietà, avesse determinato le condizioni per la costru- zione di nuovi rapporti politici e sociali. Rispetto a questo mutamento l’intera società avrebbe dovuto rapportarsi, ridefinirsi e adeguarsi7. Era, essa, una grande e definitiva prova della criminalità della società bor- ghese, o, al contrario, della sua purezza; della preveggenza e capacità di istituzioni e di uomini, oppure, della loro inettitudine; del valore eroico delle élites o di quello tenace delle masse. Insomma, la guerra rappre- sentò il perno di qualsiasi costruzione ideale e di ogni argomentazione politica che si ponesse il problema della conquista del potere.

In Italia, però, la guerra fu una fonte di legittimità estremamente de- bole e contestata. Innanzitutto, il modo in cui la nazione era entrata nel conflitto aveva diviso la nazione, minando la comune credenza nelle “regole del gioco” e indebolendo la stessa unità della comunità politica.

6Per conquistare la simpatia popolare, una “nuova legittimità” deve soddisfare al-

meno due condizioni. Innanzitutto il gruppo rivoluzionario deve sintonizzarsi con i valori morali e intellettuali che decenni e decenni di storia hanno sedimentato nell’a- nimo collettivo. Soprattutto, però, deve apparire come “modificabile” il potere già esistente. Se il potere originario viene insidiato da concorrenti rispettosi del “sentire” popolare, si inaugura «l’epoca dei torbidi e l’apparato statale frana sotto i colpi della guerra civile» (G. PECORA, “Introduzione” a Potere politico e legittimità, cit., p. 29).

Nella situazione europea all’indomani della Grande Guerra sussistevano le condizioni per l’affermarsi di “nuove legittimità”: la vittoria dei rivoluzionari russi ne è un esem- pio importante.

7Nota con acume Giovanni Orsina che, di norma, lo spazio pubblico (definito co-

me: «lo spazio all’interno del quale si svolgono tutte le attività, materiali o discorsive, che interagiscono con il potere pubblico: con i modi e metodi del suo esercizio, con le persone e istituzioni che lo gestiscono, con la competizione che si svolge intorno ad esso, con la sua legittimazione, contestazione, ridefinizione, eccetera») presenta «una struttura piuttosto stabile e definita, una notevole forza d’inerzia, e un livello considerevole di resistenza al cambiamento […]. Al contrario, nei momenti di pas- saggio da un regime a un altro, e a maggior ragione quando la transizione implica un profondo ripensamento dei meccanismi di legittimazione del potere, lo spazio per l’autonoma iniziativa degli attori politici si dilata in misura considerevole, e di conse- guenza cresce anche drasticamente il peso storico delle individualità». In G. ORSINA, Il dito e la luna. Politica, cultura e società nella storiografia inglese degli anni No-

vanta, in G. ORSINA(ed), Fare storia politica. Il problema dello spazio pubblico nel-

Inoltre, la qualità morale dei suoi capi non pareva essere uscita raffor- zata dai tre anni e mezzo di conflitto. Nel nostro paese, dunque, l’evo- cazione della guerra rappresentò più uno strumento in mano ai partiti (che lo utilizzarono per rinforzare la propria organizzazione e unifor- mare i diversi linguaggi politici) che un mezzo per limitarne l’ascesa. Tuttavia, il tentativo di usare tale nuova frattura per rilegittimare il si- stema politico italiano venne fatto. I soggetti politici, infatti, ebbero chiara percezione di come la Grande Guerra potesse sostituire i prece- denti clivages e come, conseguentemente, sia i linguaggi retorici, che le metafore o le parole chiave dovessero ad essa adeguarsi. Un caso esem- plare per analizzare le dinamiche di funzionamento di tale processo può essere individuato nelle vicende politiche del collegio di Bologna.

Bologna: il laboratorio politico dell’Italia post-giolittiana

Non è una votazione, è una valanga di voti! La valanga della guerra che si è scatenata su quelli che l’hanno voluta. Noi abbiamo dato la spinta, ma i no- stri avversari sono sepolti dalle loro rovine8.

Era questo il commento con il quale Genunzio Bentini, eletto nelle fila socialiste nel novembre 1919, sottolineava l’importanza avuta dal- la guerra e dalla sua evocazione per il conseguimento di un risultato elettorale a dir poco sbalorditivo9. In effetti, l’esito delle elezioni parve la definitiva consacrazione della conquista, da parte del socialismo, di una completa e indiscutibile egemonia locale. La marcia trionfale del socialismo bolognese aveva avuto quale prima tappa le elezioni politi- che del 1904, allorquando il partito di Turati, pur presentandosi auto- nomamente e senza accordi con i partiti democratici (radicali e repub- blicani), aveva conquistato cinque degli otto seggi disponibili. Le ele- zioni del 1909 e del 1913 ne avevano poi confermato l’ascesa di con- sensi e di influenza politica10. Inoltre, ulteriore conseguenza delle pri-

8Riportata da P.P. D’ATTORRE, La politica, in R. ZANGHERI(ed), Bologna. Storia

delle città italiane, Roma-Bari, 1986, p. 128.

9Il Psu ottenne, infatti, 81.592 voti (pari al 68,8% dei suffragi, di cui il 62,9% in

città) ed elesse sette deputati su otto.

me elezioni tenutesi a suffragio universale, si palesò con drammatica evidenza lo stato di irreversibile crisi in cui pareva versare il liberali- smo bolognese. Condizione critica che si traduceva, «da un lato, nella definitiva incapacità liberale di ricompattare interessi sociali e compo- nenti ideologiche diverse in un progetto politico e in un’organizzazio- ne partitica adeguata ai tempi; dall’altro, in un’autonomizzazione pro- gressiva del gruppo clericale»11. La “città”, come avrebbe chiaramente dimostrato l’esito delle elezioni amministrative del 1914, si era per il momento arresa alla “campagna”12.

In un contesto già segnato dalla radicalizzazione dello scontro ideo- logico e sociale, contraddistinto dalla precoce disarticolazione del si- stema politico liberale, la guerra parve offrire la possibilità di una ri- scossa per forze sociali e politiche che, se non agonizzanti, certo ver- savano in uno stato di grave crisi di consenso e di identità13. I repubbli-

“partito” clericale cittadino – conquistarono tre seggi su otto. Nel 1913, nonostante la scissione all’interno del partito socialista – con la conseguente presentazione di una lista da parte dei socialisti riformisti – il partito socialista conquistò sei degli otto col- legi disponibili. Solo due collegi andarono alla lista clerico-moderata (il terzo colle- gio cittadino, dove fu eletto Francesco Cavazza, e il collegio di Vergato, dove Luigi Rava venne una volta di più riconfermato).

11P.P. D’ATTORRE, La politica, cit., p. 116.

12Annotazioni ancora valide a proposito dell’influenza della contrapposizione

campagna/città nell’evoluzione politica di Bologna furono espresse da GIOVANNIZI-

BORDI, Critica socialista al fascismo [ed. or. Bologna, 1922], in Il fascismo e i partiti

politici italiani, Bologna, 1924. Inoltre, si veda P.P. D’ATTORRE, Per un profilo delle

classi dirigenti bolognesi, in S. ADORNO- C. SORBA(edd), Municipalità e borghesie

padane tra ottocento e novecento. Alcuni casi di studio, Milano, 1991.

13Già prima della guerra – raggiungendo il culmine con l’imbarazzante “astensio-

ne” delle forze politiche moderate e conservatrici dalla competizione elettorale nella decisiva consultazione amministrativa del 1914 – era apparso evidente l’incapacità del tradizionale sistema politico di contenere la spinta socialista. Tutto contribuiva a erodere le fondamenta di tale sistema: l’atteggiamento neutrale del giolittismo nei conflitti sindacali alimentava il vittimismo (e la sensazione di essere abbandonati dal- lo stato) di un padronato agricolo che, nel Bolognese, si trovava impegnato in una lot- ta durissima con un movimento socialista molto più organizzato, aggressivo e “tota- lizzante” che altrove; l’ormai sempre più evidente propensione dei cattolici a “svin- colarsi” dall’alleanza con il liberalismo per proporsi, autonomamente, quale argine sociale e politico; la vincente controffensiva culturale del conservatorismo bolognese che, avvalendosi di strumenti moderni e messaggi aggiornati, alimenterà l’insofferen-

cani e i radicali trassero dal conflitto lo stimolo per archiviare definiti- vamente, con la loro convinta partecipazione al Fascio democratico di resistenza (dalla cui esperienza sarebbe poi scaturito il primo fascio di combattimento bolognese), l’esperienza politica del “popolarismo” e puntare con decisione a rappresentare il “terzo polo” della politica lo- cale. I nazionalisti, che non erano riusciti ad “agganciare” il conserva- torismo agrario bolognese nell’anteguerra, videro nel conflitto una straordinaria occasione per riproporre il proprio partito quale strumen- to di coagulazione delle disperse forze borghesi e divennero dunque l’anima dei diversi comitati patriottici. Nel 1917, con la costituzione del comitato Pro Patria (formato da conservatori, quali Pini, Tanari e Ghigi, e da democratici, quali Jacchia, Nenni e Silvagni), la saldatura tra diverse anime politiche parve avverarsi. Sotto il manto della retori- ca patriottica, quindi, si compì un’ampia ricomposizione, in chiave an- tisocialista, delle diverse forze che componevano il liberalismo bolo- gnese. Inoltre, l’inserimento di Bologna in zona di guerra creò, in mo- do del tutto artificiale, quella condizione gerarchicamente ordinata di cui molti liberali (Tanari in testa) avevano più volte lamentato l’assen- za. Sottoposta a gravi limitazioni da parte dell’autorità militare, anche l’azione dell’ente comunale non si sviluppò con quel vigore che i con- servatori avevano tanto temuto14. L’atmosfera di protezione da parte delle autorità diede infine esca alla violenza personale: il palazzo mu- nicipale e lo stesso sindaco vennero più volte aggrediti. Ma, soprattut- to, il periodo bellico fece assaggiare alla impaurita borghesia cittadina

za per i limiti della democrazia parlamentare. Su questo tema la bibliografia è estre- mamente ampia. Mi limito, allora, a rimandare ad alcuni volumi dotati di una ricca ed esauriente bibliografia: R. ZANGHERI (ed), Bologna, cit.; N.S. ONOFRI, La strage di palazzo d’Accursio. Origine e nascita del fascismo bolognese. 1919-1920, Milano,

1980; P.P. D’ATTORRE, Novecento padano. L’universo rurale e la «grande trasforma-

zione», Roma, 1998; R. FINZI(ed), Storia d’Italia. Le Regioni dall’Unità a oggi. L’E-

milia-Romagna, Torino, 1997.

14Sull’azione della giunta Zanardi si veda P.P. D’ATTORRE, La politica, cit., pp.

120-125; N.S. ONOFRI, La grande guerra nella città «rossa», Milano, 1966; R. MAT-

TARELLI, Un momento del «socialismo municipale»: l’amministrazione Zanardi a Bo-

logna nel periodo 1914-18, in «Rivista storica italiana», n. 1, 1969, pp. 85-106; P.

FURLAN, L’amministrazione socialista Zanardi a Bologna, in M. DEGL’INNOCENTI

(ed), Le sinistre e il governo locale in Europa dalla fine dell’800 alla seconda guerra

l’ebbrezza di una rinnovata riaffermazione di sé stessa e del proprio ruolo di comando. Lo sbalorditivo passaggio dalla piazza “rossa” alla piazza “tricolore”, in questo senso, rappresentò, oltre che un fonda- mentale precedente, l’atto simbolico maggiormente visibile e più cari- co di conseguenze per il futuro15. Anche per questo, dunque, non sa- rebbe più stato possibile l’accettazione, da parte di quella stessa bor- ghesia, di un puro e semplice ritorno alla “satrapia rossa” d’anteguer- ra. Nell’autunno del 1919, tuttavia, i giochi erano ancora aperti e le élites cittadine potevano ancora sperare di salvare, toccando le corde del sentimento patriottico, le proprie posizioni di comando.

La guerra e i candidati: una legittimazione debole

Essendo quelle del novembre 1919 elezioni dominate dalla presenza della guerra, era lecito supporre che, anche a Bologna, i candidati avrebbero dovuto rispondere – sia al momento della selezione in lista, che in quello della campagna elettorale vera e propria – del proprio passato. Ciò fu vero soprattutto per i socialisti, i quali trassero dall’at- teggiamento mostrato dai propri uomini negli anni precedenti il prete- sto per una “soluzione dei conti” tutta interna al partito. Anche il fram- mentato mondo liberale dovette però confrontarsi, come dimostra la spinosa faccenda della mancata alleanza con i “combattenti”, con il nodo della scarsa legittimità “bellica” posseduta dai propri notabili. Infine, benché fosse altra e ben più elevata perché ultraterrena la legit- timazione a cui si richiamavano, anche i popolari ritennero giusto ri- compensare i propri «figli, che hanno combattuto meglio o per lo me- no quanto coloro che vogliono arrogarsi il vanto esclusivo di avere combattuto»16. Tuttavia, per gli uomini del nuovo partito popolare, l’essere stato un combattente non rappresentava un particolare merito. Il valore militare, infatti, rientrava nei doveri del buon cristiano e la decisione di candidare un reduce di guerra (il maggiore Alberto Maz- za) equivaleva al riconoscere che la nuova categoria sociale degli ex-

15Si vedano le felici intuizioni di M. ISNENGHI, L’Italia in piazza. I luoghi della

vita pubblica dal 1848 ai giorni nostri, Milano, 1994. In particolare pp. 207-300.

combattenti, come quella degli agricoltori o degli impiegati, meritava di essere rappresentata in Parlamento da deputati che fossero prima di tutto cattolici e, solo in second’ordine, rappresentanti delle particolari esigenze della categoria sociale di appartenenza.

Per i liberali, che più si dibattevano nell’incertezza sulle possibili strade da percorrere al fine di rinnovare un partito che appariva come palesemente inadeguato ai tempi, la questione della “lezione” che si doveva necessariamente trarre dalla guerra, prima che lo sfascio fosse completo, rappresentava lo stimolo per un complesso dibattito teorico che investiva sia la natura del liberalismo che le sue forme di organiz- zazione. La riflessione era, però, resa convulsa dalla consapevolezza che occorreva fornire soluzioni rapide alla crisi d’identità del liberali-