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I principali relitti noti che abbiano restituito carichi di marmo lunense rappresentano un utile elemento di confronto per comprendere le dinamiche del trasporto delle colonne di Volterra265: si tratta dei relitti di Beausèjour alle foci del

Rodano266, Meloria C267, Baia della Caletta a Lerici268, Porto

Novo in Corsica269, Saint Tropez270, Coscia di Donna in Sardegna

sud-occidentale271. Le evidenze desumibili da questi siti, tutti

databili grossomodo tra il I ed il II secolo d. C., confermano che i manufatti di marmo lunense venivano trasportati in forma di

265 Per una analisi più approfondita dell'argomento rimando alla mia tesi di laurea, alle pp. 105-116. 266 BERNARD, 2001.

267 GAMBOGI, CIBECCHINI, BARGAGLIOTTI, 1997.

268 MARTINO, OCCELLI, 2009.

269 BERNARD, BESSAC, 1998.

270 BENOIT, 1952.

semilavorati. In particolare i relitti di Porto Novo e Saint Tropez dimostrano che le colonne dovevano essere spesso trasportate complete di tutte le loro parti (fusto in più rocchi o tamburi, base, capitello), quando ovviamente le dimensioni dei manufatti e la portata della nave utilizzata lo permettessero.

Un fattore interessante è rappresentato dalla valutazione del peso dei carichi pertinenti a questi relitti di naves lapidariae:

– Beausèjour: 23,7 ton – Meloria C: 50 ton

– Baia della Caletta: 92 ton – Porto Novo: 138 ton – Saint Tropez: 200 ton

– Coscia di Donna: 265-275 ton

Considerando che il peso totale delle colonne di lunense della frons scaenae del teatro di Volterra si aggira intorno alle 100 ton mi pare evidente che tutto l'apparato architettonico di marmo lunense (senza considerare però gli elementi di rivestimento, i fregi, gli architravi) poté essere trasportato in solo una traversata da Luni fino al porto di destinazione, che doveva chiaramente essere, come vedremo meglio, Vada

Volaterrana. Sarebbe stato necessario un solo giorno di

navigazione (circa 6-7 ore), inoltre, per coprire le 45 miglia di distanza tra Luni e Vada a 4-5 nodi di velocità272. La stessa

considerazione vale ovviamente per le colonne in bardiglio (del peso totale di 65 ton, escludendo il braccio Nord) pertinenti alla porticus ampliata nel 42 d.C. Questo particolare non mi sembra di poco conto poiché ci fornisce la misura di quanto i tempi logistici di trasporto del materiale lapideo, anche nel caso di edifici monumentali come un teatro, non dovessero essere così proibitivi come spesso ipotizzato in passato273. E' chiaro che, anche ammettendo il trasporto di

tutte le colonne in un'unica soluzione, ciò avrebbe dovuto presupporre che tutti gli elementi architettonici del carico fossero già stati cavati e sbozzati a Luni, operazioni che potevano richiedere un tempo piuttosto lungo; tuttavia nel caso delle colonne di Vallebuona, di dimensioni comunque non monumentali, il lavoro in cava dovette svolgersi in tempi piuttosto ragionevoli274.

272Era questa la velocità media di una nave romana in condizioni di vento favorevole. ARNAUD,

2005, P. 37.

273 Cfr. BARRESI, 2002; DE LAINE, 1997, passim.

Abbiamo già avuto modo di sottolineare ( vd. supra, p.56) che, in base ai dati desumibili dall'Edictum de Pretiis, il costo del trasporto via mare delle merci doveva incidere dell'1,3% per ogni cento miglia percorse rispetto al costo del materiale trasportato. Ricordo che non vi è certezza che le informazioni espresse nell'Edictum possano essere applicate a tutti i tipi di merci, e che quindi qualsiasi calcolo può essere affetto da un ampio margine di errore; non sappiamo, cioè, se il materiale lapideo fosse soggetto a tariffe differenti. Inoltre va rilevato che l'editto dioclezianeo, pur riferendo i prezzi di numerose varietà di marmi e pietre colorate allo stato grezzo di semilavorati275,

non cita il marmo lunense. Il Duncan-Jones276 ha tuttavia

tentato di proporre un'ipotesi sul costo del marmo lunense che appare senza dubbio verosimile: valutando il volume del materiale grezzo utilizzato per un'edicola che riporta su un'iscrizione il costo dell'edicola stessa, lo studioso ha proposto che in età giulio-claudia un piede cubico di marmo lunense costasse dai 4 ai 5 sesterzi, dunque tra 1 ed 1,25 denari di I-II secolo d.C.; pertanto un metro cubo di marmo lunense poteva costare intorno ai 180 sesterzi (o 45 denari)277.

Sulla base di questa ipotesi il costo totale delle colonne del teatro di Volterra, ancora in stato di semilavorazione, doveva aggirarsi sui 10-11.000 sesterzi. Considerate queste cifre, che pur rimanendo indicative paiono piuttosto verosimili278, il

costo del trasporto delle colonne su nave sulla distanza delle circa 45279 miglia che separa Luni da Vada avrebbe potuto

oscillare tra i 58 e i 64 sesterzi. Come termine di paragone possiamo ricordare che la paga annuale di un legionario nel I

si possano formulare ipotesi piuttosto attendibili. Rivedendo la tempistica calcolata da Kozelij (KOZELIJ, 1988, PP. 31-40), forse esagerata, l'incrocio dei dati forniti da Barresi (BARRESI, 2002, PP.

76-77) e da Occelli (MARTINO, OCCELLI, 2009, PP. 119-120) permettono di ipotizzare che ciascuna

colonna del teatro di Volterra potesse essere cavata e sbozzata grossolanamente in poco più di una settimana di lavoro, considerando giornate lavorative di 14 h e tre operai per fusto. Barresi (Ibidem) ricorda però che la sola operazione di sbozzatura di marmi come il tasio o il

proconnesio ( di durezza non molto diversa dal lunense, in merito al quale non si posseggono dati precisi) doveva richiedere 300 ore al metro cubo per singolo operaio; considerando che le colonne di Volterra hanno in media un volume prossimo al metro cubo, tre operai, lavorando 14 h al giorno, avrebbero impiegato poco meno di una settimana in questa operazione. Pertanto proporrei che i tempi di cavatura e sbozzatura di ciascun fusto del teatro di Volterra dovessero ammontare a non meno di due settimane.

275Cfr. BARRESI, 2002, PP. 74-75.

276 DUNCAN-JONES, 1974, PP. 119-126.

277 Si ricordi che il denaro dioclezianeo, su cui si basa ovviamente l'Edictum de Pretiis, risulta molto svalutato rispetto al denaro di I-II secolo d.C., nella proporzione di 1 denaro di I-II secolo=100 denari dioclezianei. (Cfr. BARRESI, 2002, P. 76).

278Cfr. MARTINO, OCCELLI, 2009, P. 122.

279La distanza è di 45,6 mi nautiche, pari a 57 mi romane secondo l'Itinerarium Maritimum; cfr. CARRO, 2002, P. 226.

secolo d. C. era di 900 sesterzi280. Tanto il costo del materiale

quanto quello del trasporto via mare sembrano risultare piuttosto modesti, se si considera che stiamo valutando un materiale pregiato (sebbene il lunense dovesse essere uno dei marmi più economici), utilizzato nella costruzione di un edificio monumentale pubblico.

Ho accennato all'inizio di questo paragrafo al fatto che il porto di destinazione delle colonne del teatro dovesse essere quello di Vada Volaterrana. Escluderei infatti che il marmo sia giunto a Volterra dal porto di Pisa, risalendo i fiumi Arno ed Era per circa 80 Km: oltre alla distanza certamente maggiore (quasi doppia!) rispetto al passaggio per la Val di Cecina, infatti, bisogna considerare che, se già persistono dubbi sulla possibilità di navigare il Cecina in risalita, almeno altrettanto problematica mi pare la navigabilità dell'Era, dal percorso tortuoso e dalla scarsa portata (10 mc/sec); la risalita di un affluente, poi, risulta sempre problematica nel punto di confluenza con il fiume che lo accoglie281. Infine una rapida

occhiata alla carta di acclività del territorio di Volterra (vd in appendice), permette di valutare immediatamente la difficoltà di risalire il colle volterrano provenendo dall'Era, poiché le pendenze rilevate in tutta la fascia settentrionale e nord- orientale della altura risultano estremamente elevate, con picchi superiori al 55%.

Per quanto tracce di viabilità antica tra Volterra e la Valdera siano state individuate282, e fermo restando il fatto che contatti

tra Volterra e Pisa dovessero di certo passare anche attraverso questa valle283, sembrerebbe davvero improbabile che potendo

sfruttare un porto più vicino ed un percorso più breve, e con strade a minor pendenza, si possa prendere in considerazione il passaggio delle colonne del teatro di Volterra attraverso la Valdera. La via prescelta dovette essere dunque quella di Vada

Volaterrana e della Val di Cecina. L'importanza del porto di Vada nell'ambito dell'Etruria costiera in epoca romana è ormai

acclarata284; d'altra parte essendo Vada il porto di Volaterrae285

è più che ragionevole pensare che dovesse esistere un rapporto diretto tra la città ed il suo porto, facilitato certamente da una

280Cfr. DUNCAN-JONES, 1974, P. 345.

281Cfr. QUILICI, 1986, P. 201.

282Cfr. PASQUINUCCI, GENOVESI, 2007.

283Cfr. BRUNI, 1997.

284 Cfr. PASQUINUCCI, DEL RIO, MENCHELLI, 2002; PASQUINUCCI, DEL RIO, 2004.

viabilità lungo la valle del Cecina, di cui purtroppo non restano oggi che pallidi indizi. A ciò si aggiunga che, come abbiamo avuto già modo di ossevare, la movimentazione di carichi lapidei pesanti doveva necessitare di infrastrutture adeguate: se le navi potevano trasportare infatti decine o anche centinaia di tonnellate di marmo in un sol viaggio, infatti, il resto del trasporto (tanto su strada che su fiume) doveva venire frazionato, salvo i casi eccezionali di enormi blocchi monolitici quali ad esempio gli obelischi.

Questa operazione richiedeva macchinari che necessitavano di adeguati spazi di manovra per spostare i pesanti manufatti da un mezzo di trasporto ad un altro, aree in cui stoccare eventualmente il materiale in attesa di essere trasportato al cantiere di destinazione286, personale esperto addetto a tutte

queste operazioni, una rete stradale già pronta per la distribuzione della merce. E' chiaro che in caso di necessità, in assenza di infrastrutture preesistenti, possiamo anche accettare la possibilità che venisse istituito ad hoc un cantiere attrezzato alla movimentazione dei manufatti in un luogo qualsiasi, purché le condizioni ambientali lo permettessero. Tuttavia mi pare maggiormente plausibile che le colonne di marmo per il teatro di Volterra non poterono essere sbarcate in un punto non ben determinato della costa, ma che esse dovettero essere conferite presso una struttura ben attrezzata già esistente , che non può che essere, alla luce delle attuali conoscenze, che il porto di Vada Volaterrana. Le numerose campagne di scavo condotte negli ultimi anni in località San Gaetano di Vada, che hanno messo in luce i ricchi resti di un importante e vivace quartiere retroportuale287, spingono

peraltro a confermare queste considerazioni. Non va dimenticato, ad ogni modo, che la gestione di questo tipo di materiali pesanti doveva rappresentare, a Vada, un evento piuttosto eccezionale per cui le macchine elevatrici, che erano mobili e la cui struttura poteva variare a seconda dell'entità del carico da spostare, poterono essere installate appositamente per l'occasione. Inoltre bisogna ammettere che non risultano ancora chiare le dinamiche di approdo relative al porto di Vada

Volaterrana, dove sembra plausibile che le operazioni di

carico-scarico potessero svolgersi lungo un tratto di costa piuttosto ampio prospiciente ai quartieri portati alla luce a S.

286Cfr. BRUNO, 2002, P. 193.

287Si vedano, da ultimo PASQUINUCCI, MENCHELLI, SANGRISO, BULZOMÌ, CAFARO, MARINI, 2011, con

Gaetano di Vada.

III.3.2 Da Vada a Volterra

Una volta scaricati dalla navis lapidaria, con l'ausilio di macchine elevatrici quali il polyspaston o la gru a ruota vitruviana descritti in precedenza288 gli elementi architettonici

destinati a Volterra potevano prendere due possibili vie:

potevano essere imbarcati su battelli di tipo marittimo- fluviale analoghi alle caudicariae di Fiumicino o alle imbarcazioni a fondo piatto francesi e nord-europee289, che

navigando sottocosta tra le pericolose secche che caratterizzano questo tratto di mare290 avrebbero raggiunto la

foce del Cecina, risalendolo poi per un breve tratto (al massimo, eventualità poco probabile, per 32 Km fino all'altezza di Saline di Volterra, dove il fiume svolta bruscamente verso Sud-Est); da qui il materiale doveva essere necessariamente trasbordato su carri trainati da buoi per poter coprire gli ultimi chilometri di strada fino alla collina di Volterra;

– in alternativa i manufatti potevano essere trasportati su carri dal porto di Vada fino al fiume Cecina, su una distanza di 8 Km circa: da qui potevano essere trasbordati su imbarcazioni e seguire il percorso fluviale appena descritto, oppure potevano proseguire lungo la bassa pianura alluvionale del Cecina coprendo circa 40 Km su strada fino alla destinazione finale.

Questi i percorsi possibili lungo la Val di Cecina che, sottolineo, dovevano in ogni caso prevedere un tratto di trasporto su strada almeno lungo i 9-10 Km che separano Saline da Volterra. Vediamo ora più in dettaglio, sulla scorta delle considerazioni proposte nella prima parte di questo lavoro, quale di questi itinerari potesse essere il più probabile.

288 Vd. Supra. 289Vd. supra.

III.3.3 Il trasporto fluviale e la questione della navigabilità del Fiume Cecina

Devo premettere che non esistono informazioni certe relative alla navigazione del Cecina nell'antichità. Abbiamo già avuto modo di rilevare quanto le fonti sottolineino l'importanza delle vie d'acqua nella logistica dei trasporti commerciali291. Allo stesso tempo va ricordato che, sebbene in

linea di principio il trasporto fluviale fosse più rapido e conveniente rispetto a quello su strada, non è detto che la presenza di un corso d'acqua in un dato territorio implichi automaticamente la sua navigabilità (a maggior ragione quando si parla di pesanti carichi lapidei). La questione si fa poi più complessa nel nostro caso poiché ci interessa valutare la navigabilità del Cecina in risalita, operazione di gran lunga più complessa rispetto alla navigazione a favore di corrente.

In assenza di indicazioni nelle fonti letterarie i fattori da tenere in considerazione sono molteplici e complessi:

– la portata del fiume;

– il tipo di regime del corso d'acqua, se a carttere torrentizio o meno;

– l'ampiezza e la profondità dell'alveo;

– la disponibilità, per l'epoca in questione, di imbarcazioni adeguate;

– la forza della corrente;

– le variazioni stagionali nella portata, che implicano l'eventualità che il fiume potesse essere utilizzato per la navigazione solo in dterminati periodi dell'anno;

– la presenza lungo gli argini di evidenze relative alle banchine per l'alaggio che ad esempio sul Tevere presentano dimensioni notevoli, fino a 19 m di larghezza; ricordo che l'alaggio costituiva l'unico sistema che consentisse la risalita di un fiume in epoca pre-industriale;

– il profilo del corso del fiume, se lineare o tortuoso.

Per quanto concerne il Fiume Cecina gli elementi a nostra disposizione relativi alla sua navigabilità in epoca romana risultano davvero scarsi. Non sono state rinvenute infatti evidenze relative ad una sistemazione degli argini finalizzata all'alaggio, né si registra la presenza di scali o approdi lungo il

corso del fiume. I resti archeologici del ponte romano sul Cecina all'altezza di Riparbella292 testimoniano di una viabilità

trasversale al fiume (forse relativa alla Via Emilia, come supposto già da Targioni Tozzetti293), ma non ci dicono nulla in

merito alla sua navigabilità. Non si registra, poi, il rinvenimento di relitti di imbarcazioni fluviali.

Fondando sull'osservazione delle attuali condizioni idrografiche del fiume la conclusione più immediata punterebbe senza dubbio ad escludere la navigabilità del Cecina, ad eccezione forse della zona della foce. Che il tratto terminale del fiume potesse essere interessato dalla presenza di un approdo, o comunque da una frequentazione in epoca romana, può essere suggerito dai resti della villa di San Vincenzino , individuata sulla riva sinistra del Cecina a poca distanza dalla foce e datata nelle sue varie fasi tra il I secolo a.C. ed il V secolo d.C.294 A ciò si aggiungono una serie di

rinvenimenti ceramici ed anforacei riferibili per lo più ad età tardo repubblicana ed imperiale, individuati subito fuori dell'imboccatura del fiume e poco più a Sud, nell'area della Secchiella295. Il fatto che la foce del Cecina costituisse un riparo

naturale alla navigazione è ricordato peraltro dal Targioni Tozzetti, il quale a tal proposito riferisce che "[...] in tempo di calma vi possono entrare piccoli bastimenti, ai quali nelle burrasche serve di sicuro porto, a cagione della sua tortuosità, e d'una lingua di terra che le resta a mezzogiorno, e rompe i Fiotti del Mare.296" Questa notizia si accorda con quella del

progetto di Carlo Ginori di adattare la foce del Cecina al riparo delle imbarcazioni tra il 1738 e il 1754297.

D'altro canto nel corso della sua narrazione lo stesso Targioni Tozzetti non fa mai riferimento ad attività di navigazione sul Cecina e ricorda di aver guadato il fiume a piedi all'altezza del palazzo del Fitto il giorno 25 Novembre, pur con qualche difficoltà dovuta all'impetuosità della corrente298. Questo particolare appare di non poco conto se si

considera che a fine Novembre, date le abbondanti piogge e considerato il substrato impermeabile dell'alveo del fiume299, 292Cfr. FIUMI, 1976, P. 293Cfr. TARGIONI TOZZETTI, 1770, P. 410. 294Cfr. DONATI, 2002. 295Cfr. DONATI, 2002, P. 811; MASSA, 1982, PP. 56-57. 296 TARGIONI TOZZETTI, 1770, PP. 362-363. 297Cfr. MARCHETTI, 2003, P. 52. 298 TARGIONI TOZZETTI, 1770, P. 409. 299Vedi supra.

il Cecina si doveva trovare in un periodo di portata massima; eppure fu possibile all'erudito settecentesco guadare il corso d'acqua a piedi, il che fa chiaramente pensare ad una profondità comunque modesta.

In definitiva la testimonianza di Targioni Tozzetti sembra suggerire che anche nel corso del XVIII secolo il Cecina possedesse le caratteristiche di un modesto corso d'acqua a carattere torrentizio, non dissimili da quelle osservate oggi, secondo cui si registra una portata che oscilla tra un massimo di 1030 m3/sec ed un minimo di 0,01 m3/sec, con una portata

media annua di 5-10 m3/sec300. Bisogna però tenere conto di

due elementi fondamentali prima di giungere a conclusioni affrettate: il primo è che non sono mai state effettuate indagini di carattere geologico e paleoclimatico volte ad individuare le variazioni delle condizioni idrogeologiche del bacino del Cecina rispetto all'epoca romana301; potrebbe anche essere

possibile che la portata del fiume in antico fosse nettamente superiore rispetto a quella osservata negli ultimi secoli. Un secondo fattore da tenere in considerazione è l'entità degli emungimenti dell'acqua di falda e del sub-alveo del fiume praticati in epoce moderna. Negli Anni '80 del secolo scorso il totale delle utilizzazioni di acqua, comprendenti uso idropotabile, agricolo ed industriale, ammontava a circa 22 milioni di m3 all'anno302. Dati più recenti indicano una cifra

nettamente inferiore pur se sempre elevata, raggiunta in seguito a politiche di maggior tutela ambientale, intorno agli 8,5 milioni di m3 all'anno303. Chiaramente lo sfruttamento più

massiccio delle acque del Cecina è operato dalle industrie, in particolare dalla Solvay304.

E' evidente che, pur considerando oscillazioni anche sensibili nei decenni, lo sfruttamento di acqua del sub-alveo a partire dall'età industriale deve aver certamente comportato una riduzione della portata del fiume rispetto ad epoche più antiche. Inoltre se pensiamo che in età medievale il Fiume Fine, di portata nettamente inferiore rispetto al Cecina, era certamente in parte navigabile305, non possiamo escludere che 300Cfr. MAZZONI, 2004, P. 11. A titolo di confronto si pensi che la portata media dell'Arno alla foce è

di 110 m3/sec.

301 Ringrazio a tal proposito i suggerimenti fornitimi dal prof. Giannecchini, docente di idrogeologia presso la Facoltà di Scienze della Terra dell'Università di Pisa.

302Cfr. RAGGI, BICCHI, 1985, PP. 35-36.

303Cfr. MAZZONI, 2004, PP. 12-13.

304Cfr. MAZZONI, 2004, PP. 13-14.

anche il Cecina lo fosse. Ricordo inoltre almeno due toponimi, di certo post-antichi, ma di un qualche interesse per i nostri fini: il torrente Marmolaio, affluente del Fine nel territorio di Santa Luce ed il Botro Marmaio, modesto canale che scende dal colle di Volterra verso il Cecina. In entrambi i casi il termine "marmo" va ricollegato probabilmente all'alabastro; tuttavia, e questo è certo almeno per il torrente Marmolaio utilizzato per il trasporto dell'alabastro alla fine del XIX secolo306, i due

toponimi testimoniano della possibilità dell'utilizzo di vie fluviali per il trasporto nel bacino del Cecina.

Volendo ipotizzare che il Cecina fosse navigabile in risalita si potrebbe proporre che il problema del basso fondale dell'alveo venisse superato utilizzando imbarcazioni a fondo piatto analoghe alle navi gallo-romane e romano-celtiche307 o alle

caudicariae di Fiumicino. I battelli di Arles e di Mainz, che

potevano trasportare carichi lapidei di circa 30 ton, avevano un pescaggio di soli 50-60 cm; tuttavia, come abbiamo visto, per compensare il ridotto pescaggio gli scafi dovevano essere molto sviluppati in lunghezza (30-40 m): imbarcazioni di questo tipo308, ideate per fiumi imponenti come il Rodano ed il