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Sistemi integrati nel trasporto di carichi lapidei in epoca romana. Il caso delle colonne di marmo lunense del teatro di Volterra.

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

p. 3

Capitolo I.

Considerazioni sulla distribuzione e

commercializzazione dei marmi e di altre pietre da costruzione in epoca romana. p. 5

Capitolo II.

La logistica dei trasporti.

II.1 Dalla cava al mare

p. 15 II.1.1 Estrazione dei blocchi p. 15 II.1.2 La "lizzatura" p. 17 II.1.3 Altri metodi di trasporto dei blocchi p. 19 II.1.4 Paranchi, gru, ed altri macchinari p. 20 II.1.5 Porti ed infrastrutture p. 26

II.2 Le naves lapidariae

p. 27

II.3 Il trasporto di materiale lapideo per via fluviale

II.3.1 Caratteristiche del trasporto fluviale p. 33 II.3.2 Il trasporto di materiale lapideo p. 37 II.3.4 Le imbarcazioni romano-celtiche e gallo-romane

utilizzate nel trasporto di materiale lapideo p. 42

II.4 Il trasporto di materiale lapideo per via di terra

p. 47

II.4.1 Trazione e mezzi di trasporto

p. 49

II.4.2

Il carro di Eleusi p. 54 II.4.3 Il ruolo delle strade nel trasporto di materiale lapideo

p. 56

(2)

Capitolo III. Il trasporto delle colonne di marmo

lunense del teatro di Volterra: un possibile itinerario

Premessa

p. 61

III.1 Note di geomorfologia e di idrografia del territorio

della Val di Cecina

p. 63

III.1.1 Caratteri idrologici del Fiume Cecina p. 65

Caratteristiche idrografiche p. 66

III.1.2 Le rocce del Volterrano p. 67

Alcune considerazioni sul trasporto delle rocce del Volterrano p. 68

III.2 Le colonne di marmo lunense del teatro di Volterra

p. 71

III.2.1 Il marmo lunense nella decorazione architettonica del teatro p. 71 III.2.2 Dimensioni e peso delle colonne del teatro p. 74

III.3 Un possibile itinerario per il trasporto delle colonne

del taeatro di Volterra

p. 78

III.3.1 Il trasporto per mare p. 78 III.3.2 Da Vada a Volterra p. 83 III.3.3 Il trasporto fluviale e la questione della navigabilità del Fiume Cecina p. 84

III.3.4 Brevi considerazioni sul popolamento e sulla viabilità della Val di Cecina p. 89 III.3.5 Il percorso su strada p. 94 III.3.6 Dinamiche e tempi del trasporto p. 97

III.4 Conclusioni

p. 104

(3)

Introduzione.

Lo spunto per il seguente lavoro nasce dalla prosecuzione di un'analisi sui trasporti marittimi di carichi lapidei in epoca romana, da me proposta in sede di tesi di laurea. E' parso interessante approfondire ed ampliare l'orizzonte della discussione, estendendo la ricerca a tutte le fasi del trasporto di carichi pesanti, argomento che risulta di un certo interesse per diverse ragioni. Anzitutto si percepisce la necessità di raccogliere ed interpretare una serie di dati talvolta slegati: così come il trasporto di altre merci, il trasporto di materiale litico pesante in età romana era oggetto di un sistema integrato che sfruttava le diverse vie di comunicazione a disposizione e che va colto nel suo complesso. A causa di una visione spesso preconcetta, al contrario, si è teso in passato a sottostimare il valore e la frequenza del trasporto fluviale e terrestre dei materiali lapidei.

Solo a partire dagli ultimi anni si sta sottolineando l'importanza di valutare con cautela tutti gli aspetti delle operazioni di trasporto di questi oggetti pesanti, prestando particolare attenzione al contesto topografico dei singoli casi: elementi essenziali nella valutazione appaiono la presenza di corsi d'acqua navigabili, e la eventuale possibilità di percorrerli anche controcorrente; l'esistenza di strade, di cui si dovranno considerare ampiezza e pendenze a seconda dell'entità dei carichi; la presenza di infrastrutture adeguate alla movimentazione dei pesanti manufatti.

Il progresso nella ricerca archeologica ha permesso di approfondire la conoscenza degli svariati aspetti tecnologici connessi a questo argomento. Non sarà superfluo sottolineare, infatti, che dato l'alto peso specifico della pietra lo spostamento di carichi lapidei doveva comportare una serie di difficoltà, che pure le conoscenze tecniche ed ingegneristiche di epoca romana permettevano di affrontare con successo. Se informazioni più sostanziose a tal proposito stanno cominciando ad emergere soprattutto per quel che concerne il trasporto fluviale, maggiori lacune si registrano in merito al trasporto su strada: non si conoscono con precisione le caratteristiche tecniche dei carri utilizzati per questi "trasporti eccezionali"; bisognerà pertanto fondare su informazioni indirette, desumibili dall'entità dei carichi, dalla pendenza delle strade e dal potere di trazione degli animali utilizzati.

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Mi è parso utile premettere a queste considerazioni una riflessione sintetica sul complesso sistema di commercializzazione dei materiali lapidei in epoca imperiale; per ovvie ragioni il fulcro di questo mercato si incentrava sui marmi e sulle rocce pregiate, in merito alle quali possediamo chiaramente informazioni maggiori rispetto alle normali pietre da costruzione, il cui ruolo non va tuttavia sminuito.

La rapida analisi di questi argomenti, suddivisi in un ordine consequenziale che vuole ricalcare idealmente il tragitto realmente percorso dalle pietre dalla cava al cantiere, è servita anche da valida fonte di confronti per lo studio di un caso specifico: il trasporto di carichi lapidei pesanti a Volterra in epoca romana. Il caso è parso di particolare interesse date le peculiari condizioni topografiche entro cui si inseriva la Volterra romana: posta sull'alto colle che ospita ancora l'attuale centro storico, la città era servita sulla costa dal porto di Vada Volaterrana, ad essa collegata attraverso la valle del Fiume Cecina. E' possibile dunque, per Volterra, analizzare tutto il ventaglio della rete dei trasporti: marittimo, fluviale e terrestre. Al fine di restringere ad un ambito più preciso e meglio conosciuto la ricerca, ho preferito valutare in particolare le condizioni di trasporto delle colonne di marmo lunense utilizzate nella costruzione del teatro di epoca augustea.

Ad una breve descrizione delle condizioni morfologiche ed idrologiche dell'area del volterrano e della Val di Cecina, non senza un accenno agli affioramenti di pietra da costruzione locale, seguirà pertanto una valutazione del peso e delle dimensioni del marmo trasportato dalle cave apuane sin sulla ripida altura di Volterra. Partendo da questi dati si tenterà di ricostruire tra gli itinerari possibili un percorso che appaia più probabile, anche considerandone gli aspetti economici, principalmente in relazione ai fattori orografici ed ambientali ed alle evidenze archeologiche, purtroppo estremamente scarne in merito. Vedremo come, pur avanzando con estrema cautela, si possa proporre che nel tragitto tra il porto di Vada e la città di Volterra il percorso su strada potesse costituire il principale asse di comunicazione.

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CAPITOLO I

Considerazioni sulla distribuzione e

commercializzazione dei marmi e di altre pietre da

costruzione in epoca romana.

[...] Vetus Mosellam atque Ararim facta inter utrumque fossa conectere parabat, ut copiae per mare, dein Rhodano et Arare subvectae per eam fossam, mox fluvio Mosella in Rhenum, exin Oceanum decurrerent, sublatisque itineri difficultatibus navigabilia inter se Occidentis Septentrionisque litora fierent. [...] (Tacito, Annales, XIII, 53).

Vetere si preparava ad unire la Mosella e l'Arari tramite un canale, affinché le merci trasportate per mare, quindi sul Rodano e sull'Arari e poi, grazie a quel canale, alla Mosella e da qui al Reno, giungessero infine all'Oceano; sì che, aggirate le difficoltà del tragitto via terra, le sponde di Occidente e Settentrione fossero messe in comunicazione attraverso vie navigabili.

Le parole di Tacito, che accennano al progetto di costruzione di un canale di comunicazione tra la Saône e la Mosella ideato sotto il regno di Nerone, sembrano sottolineare con chiarezza l'importanza di disporre di adeguate vie d'acqua per facilitare i trasporti sulle lunghe distanze1. Ciò doveva risultare ancor più

vero nel caso del conferimento di carichi pesanti, quali quelli composti da elementi lapidei di grandi dimensioni. Analogamente al passo di Tacito risulta altrettanto interessante una lettera di Plinio il Giovane (Epist., L) che propone all'imperatore Traiano la costruzione di un canale tra il lago di Nicomedia ed il Mar di Marmara al fine di facilitare il trasporto di merci varie, compresi i marmi, sino ad allora movimentati a pena di grandi sforzi per via di terra. A tal proposito non sembra superfluo ricordare come Nicomedia dovesse senza dubbio costituire uno dei principali porti di smistamento di pregiati marmi microasiatici, in particolare il proconnesio e, probabilmente in minor misura, il pavonazzetto2.

Se risultano piuttosto ovvi, anche in via intuitiva, i vantaggi

1 Sull'argomento si veda DEMAN, 1987.

(6)

offerti dallo sfruttamento di vie marittime e fluviali, va ricordato tuttavia che non sempre, e non in tutte le fasi del trasporto, essi potevano risultare disponibili3; ciò induce a non

sottovalutare l'entità dell'utilizzo di percorsi via terra, per quanto senza dubbio più lenti e dispendiosi e pertanto meno preferibili in linea di principio4. Per tali ragioni, piuttosto che

istituire una sorta di classifica tra le tre principali vie di trasporto (marittima, fluviale, terrestre) basata su teorici computi di costi-benefici, sarebbe meglio parlare di sistemi

integrati per il trasporto di materiali lapidei, che

comprendessero lo sfruttamento di tutte e tre le vie. Quel che è certo è che in ogni caso lo spostamento di carichi pesanti dovette comportare una serie di sfide tecnologiche, superate di solito brillantemente se pensiamo all'enorme volume di manufatti in pietra che hanno viaggiato da un capo all'altro del Mediterraneo durante l'età imperiale5.

Nell'affrontare sinteticamente il tema della diffusione dei marmi in epoca romana sarà bene riportare alcune precisazioni. In epoca romana, ma più in generale durante l'Antichità, si designava con il termine "marmo" una serie di tipi litologici di varia composizione, la cui principale caratteristica comune era quella di poter essere lucidati: rientravano pertanto nel novero serpentini, graniti, brecce e calcari fossiliferi6. E' indubbio che una grande varietà di queste

rocce, tanto bianche quanto colorate, venissero commerciate sulla lunga distanza in quello che Fant definisce eloquentemente come "an improbable phenomenon"7.

L'affermazione di Fant ben si connette alla considerazione che l'entità della domanda di pietre di alta qualità destinate ai progetti edilizi imperiali, principalmente a Roma, distorce probabilmente il quadro delle attività di cava su piccola scala, localizzate entro aree di distribuzione limitate8.

Di certo una stragrande quantità di materiale litico adoperato nelle quotidiane operazioni edilizie doveva provenire da cave di pietra locali, come ben attestato ad esempio a Sabratha, Nîmes e Vienna9. Ancor più interessante a 3 RUSSELL, 2008, PP. 107-110.

4 Cfr. SIPPEL, 1987, PP. 35-45.

5 Sulla diffusione dei marmi nel mondo romano si vedano, su tutti, PENSABENE, 1995 e PENSABENE,

2002; più recentemente, LAZZARINI, 2004, PP. 73-122.

6 Cfr. TEDESCHI GRISANTI, 2003, P. 79.

7 FANT, 1988, P. 147.

8 Cfr. RUSSELL, 2008, P. 110.

(7)

tal proposito appare il caso di Roma, recentemente indagato in profondità da Jackson e Marra10 che si sono occupati di censire

la diffusione delle pietre vulcaniche negli edifici di epoca romana della Capitale. Il citato studio, oltre a proporre una aggiornata carta geologica dell'Urbe11, fornisce un quadro

evidente del massiccio utilizzo dei vari tipi di tufo locale che costituivano l'ossatura di gran parte delle costruzioni di Roma. Dal bacino dei Monti Sabatini, a Nord della città, provenivano il tufo giallo, il Fidenates, il Cappellaccio, il Grotta Oscura, il

lapicidinis Pallensibus, che potevano ragguingere Roma

attraverso il Tevere, la Via Flaminia e la Via Tiberina. A sud-est di Roma si coltivavano invece le cave di Lapis Albanus, del tufo di Tuscolo, di Lapicidinis Rubris, di peperino e Gabinus, collegate alla Capitale tramite l' Aniene, la Via Appia, la Via Prenestina e la Via Tiburtina. E' interessante notare come Vitruvio (De Arch. II, 7, 4) citi i lapicidinis Rubris e Pallensis come pietre da utilizzare necessariamente a Roma, data la maggior vicinanza delle cave, nonostante la loro inferiorità tecnica rispetto ad altre rocce da costruzione reperibili in Italia: [...] cum ergo propter propinquitatem necessitas cogat ex

Rubris lapicidinis et Pallensibus et quae sunt urbi proximae copiis uti, si qui voluerit sine vitiis perficere, ita erit praeparandum... Il passo di Vitruvio sottolinea l'importanza del

tema della reperibilità del materiale da costruzione, la cui vicinanza doveva costituire un elemento di primaria importanza nell'organizzazione logistica del trasporto, di certo sempre impegnativo sotto il profilo dei costi economici e tecnologici.

Chiaramente Vitruvio, che scrive negli anni immediatamente precedenti il principato di Augusto, non tiene ancora in grande considerazione il marmo o altre pietre pregiate di importazione, che cominciano di fatto a circolare in modo massiccio solo a partire dall'età imperiale. In effetti l'uso del marmo in epoca repubblicana appare ancora scarso e limitato ad esempi piuttosto circoscritti, correlati all'arrivo di quella

asiatica luxuria il cui fascino cominciò ad invadere l'Urbe a

partire dalle conquiste del II secolo a.C. in Grecia ed Oriente12. 10 JACKSON, MARRA, 2006.

11 JACKSON, MARRA, 2006, PP. 404-410.

12 Un segno evidente di questo graduale processo di grecizzazione delle élites romane è senza dubbio fornito dal ben noto contesto del relitto di Mahdia, naufragato al largo delle coste tunisine nei primi decenni del I secolo a. C. con il suo imponente carico di colonne di marmo greco e raffinate opere d'arte; si vedano HELLENKEMPER, SALIES, 1994 e PARKER, 1992, P. 252 con ampia

(8)

Proprio alla metà del II secolo a.C. risale una delle più antiche attestazioni dell'utilizzo architettonico e moumentale del marmo a Roma: il Tempio Rotondo del Foro Boario, caratterizzato dall'uso di colonne in pentelico13. In questo

periodo le pur modeste quantità di marmo importato provenivano infatti da Oriente: le cave di Luni cominceranno ad essere coltivate in maniera più sistematica solo in età tardo repubblicana, o almeno non prima dell'80 a.C. circa14. L'aspetto

su cui vorrei porre l'accento qui è però quello della portata simbolica dell'introduzione di pietre pregiate nell'edilizia romana15. L'utilizzo del marmo assume una serie di valenze

culturali complesse, che prevedevano l'adeguamento da parte del committente ad un modello in cui identificarsi: in epoca repubblicana questo modello poteva presentare sfumature più spiccatamente intellettuali, correlate al fenomeno di "grecizzazione" cui accennavo, unitamente all'idea di rimarcare una rivendicazione della effettiva conquista militare dei regni del Mediterraneo orientale.

A partire dall'età augustea a queste valenze se ne sostituiscono altre, più legate alle necessità di gestione del potere e del consenso dell'imperatore insite nel meditato progetto ideologico formulato da Augusto16. E' con Augusto

infatti che Roma comincia ad essere rivestita di marmo, che questa volta è principalmente il lunense17, nell'ottica di un

vasto programma di rinnovamento urbanistico. Se a Roma il largo uso del marmo tende a simboleggiare il potere e la munificenza del princeps, nelle Province occidentali il marmo lunense, o in alternativa una pietra locale di analogo aspetto18,

diviene quasi immediatamente il simbolo della adesione delle élites locali al nuovo ordine politico, presentandosi come importante e visibile strumento di consenso in territori di recente conquista19. Non è un caso infatti che, come rimarcato

da Pensabene20, i principali modelli formali adottati nei

programmi monumentali delle città della Narbonese prima e della Spagna poi si rifacciano ai Fori di Cesare e di Augusto, complessi il cui impatto ideologico risultava ovviamente

13 Cfr. COARELLI, 2002, P. 304.

14 Cfr. DOLCI, 2002, P. 10.

15 Cfr. RUSSELL, 2008, PP.110–111.

16 Sull'argomento si veda, su tutti, ZANKER, 2006.

17 Cfr. PENSABENE, 2002, P. 15.

18 Cfr. PENSABENE, MAR, 2004; MORLEY, 2008, PP. 576-577.

19 Cfr. CANTO, 1990, PP. 289-295.

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profondo.

A questi aspetti, più intimamente connessi alla figura di Augusto ed al marmo lunense, si aggiungono altri elementi simbolici di cui si possono caricare le pietre pregiate: alcuni marmi, per la loro rarità e per il conseguente costo elevato21,

divengono espressione di un vero e proprio status symbol accessibile a pochi22. E' il caso questo di marmi e graniti, per lo

più microasiatici ed africani, come il pavonazzetto, il giallo antico, il serpentino spartano, il granito grigio, le cui cave erano di proprietà imperiale ed il cui commercio era effettuato sotto il diretto controllo dell'autorità statale; l'utilizzo di queste pietre era di solito riservato ad edifici, pubblici ma anche privati, commissionati dalla famiglia imperiale o tutt'al più appartenenti agli alti ranghi dell'aristocrazia senatoria23. E'

in tale ottica che si sviluppa, soprattutto in contesti provinciali o distanti da Roma, la ricerca e l'utilizzo di una serie di "marmi di sostituzione" simili per fattezze alle rocce più famose, ma più economici e/o più facilmente reperibili: un vero e proprio processo imitativo dello splendore delle opere edilizie dei Cesari24. Questo non esclude comunque l'utilizzo, talvolta

sostanzioso, di pietre di sostituzione anche a Roma stessa, che di fatto rappresentava di gran lunga il più grande mercato e polo attrattivo per le pietre pregiate di tutto l'Impero.

Il completo studio recentemente svolto da Lazzarini sulle pietre e marmi antichi25 ha chiaramente messo in luce la

centralità di Roma, e in un secondo momento delle altre capitali tetrarchiche della Penisola, come principale destinataria nel commercio di questi materiali. Riporto di seguito le carte di distribuzione di tre marmi particolarmente amati nell'Antichità: il Giallo Antico, l'Africano (Fig.1) e il Portasanta (Fig.2).

21 Cfr. BARRESI, 2002, P. 73.

22 Cfr. MORLEY, 2008, P. 574.

23 Cfr. PENSABENE, 2002, PP. 19-21. Particolare è ad esempio il caso del porfido rosso egiziano,

destinato esclusivamente alla famiglia imperiale e tenuto sotto stretto controllo; l'uso primario del porfido rosso è infatti attestato quasi esclusivamente a Roma, ad eccezione di un utilizzo più diffuso di meri scarti di lavorazione per la creazione di sectilia (si veda LAZZARINI, 2004, PP.

105-106).

24 Cfr. TEDESCHI GRISANTI, 2003, PP. 80-81; THORPE, RIGBY, 2007, PP. 78-79.

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Fig. 1: diffusione del Giallo Antico e dell'Africano (LAZZARINI, 2004)

Fig.2: diffusione del Portasanta (LAZZARINI, 2004)

Risulta evidente come l'utilizzo primario di queste rocce, impiegate principalmente nell'esecuzione di colonne, decorazioni architettoniche e sectilia, si concentri in tutti e tre i casi quasi esclusivamente in Italia (soprattutto a Roma, Aquileia e Ravenna), con sporadiche attestazioni nelle Province26. Considerando la dislocazione delle principali cave

di pietre colorate disperse in ogni angolo dell'impero (Fig.3), si può avere la percezione della capillarità di questo sistema di distribuzione, che soggiaceva spesso anche ad un forte gusto per l'esoticità: a Roma, in contesti particolarmente lussuosi, si arriva a trascurare l'utilizzo di rocce locali di assoluto pregio in favore di materiale di importazione27.

26 Cfr. LAZZARINI, 2004, PP. 107-113.

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Fig.3 (LAZZARINI, SANGATI, 2004)

L'ampio raggio di distribuzione di manufatti in pietra di vario genere (colonne, capitelli, lastre, sarcofagi...) risulta peraltro ben documentato dagli oltre 40 relitti noti caratterizzati da carichi lapidei, dislocati in tutto il mediterraneo e databili per lo più ad epoca imperiale (Fig.4)28.

Fig.4: carta di distribuzione dei principali relitti di naves lapidariae.

A chiarire il ruolo sensibilmente accentrato svolto dalla amministrazione imperiale ha poi contribuito lo studio dei vasti depositi di marmi rinvenuti a Portus29, sede della statio

marmorum, permettendo di inquadrare il commercio di questi

materiali entro un sistema in larga parte controllato

28 Per una rassegna completa di questi relitti rimando alla mia tesi di laurea. 29 Cfr. PENSABENE, 2002.

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dall'Impero30. Il coinvolgimento degli imperatori nella gestione

del ciclo produttivo dei manufatti litici ebbe un peso decisamente importante,che però, come accennato, sarà opportuno non esasperare31. L'avvento dell'Impero contribuì

senza dubbio a far scattare la molla ideologica per l'avvio dello sfruttamento intensivo delle cave di pietre pregiate, andando a costituire al contempo il presupposto logistico per tale sfruttamento: la cavatura, lo stoccaggio ed il trasporto di grandi blocchi necessitava infatti di uno sforzo economico ingente e di infrastrutture adeguate che richiedevano l'intervento di una amministrazione pubblica32.

E' bene però non confondere questa considerazione con l'idea di una diffusa proprietà imperiale delle cave, per la maggior parte gestite in realtà dai municipia o da privati33.

Svetonio (Tib. 49, 2) ascrive a Tiberio la risoluzione di avocare all'imperatore i diritti di sfruttamento dei giacimenti marmiferi, che dovevano tuttavia limitarsi alle cave di Luni, Teos, Docimium e Simitthus, con le successive aggiunte di quelle del granito del Mons Claudianus e del serpentino spartano34. Dunque a rientrare direttamente nel demanio

imperiale, nel Patrimonium Caesaris prima e nel Fiscus poi35,

sono pietre di interesse strategico-economico o altamente pregiate e costose e pertanto più assimilabili a simbolo di potere. Ad ogni modo, anche nel caso di cave di proprietà imperiale, la prassi di appaltare a privati in parte o del tutto il ciclo produttivo risultava estremamente diffusa36. Oltre alle

operazioni di cava, infatti, è certo che i privati, mercatores e

redemptores marmorarii37, potessero provvedere anche al trasporto del materiale lapideo con le proprie navi. Un passo del giurista Gaio presente nel Digesto (Cod. Iust. 19.2.25.8; Gaius,

X, ad Edict. Prov.) menziona chiaramente la responsabilità dei privati per eventuali danni occorsi durante il trasporto di colonne di marmo. D'altro canto è attestata al contempo l'esistenza di imbarcazioni statali impiegate, ad esempio, in Egitto38. 30 Cfr. FANT, 1993, PP. 161-162; FANT, 2001. 31 Cfr. RUSSELL, 2008, PP.110-111. 32 Cfr. PENSABENE, 2002, PP. 32-33. 33 Cfr. MARC, 2005. 34 Cfr. PENSABENE, 2002, P. 17.

35 Si vedano a tal proposito DOLCI, 2002, P. 20 e PENSABENE, 1976, PP. 186-190.

36 A tal proposito si veda DOLCI, 2002, PP. 14-15 per l'età repubblicana e FANT, 2001, PP. 173-174 per

l'età imperiale.

37 CIL, VI, 33873 e CIL, X, 1549. Cfr. su tale tema PENSABENE, 2002, P. 58.

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Oltre a vere e proprie imprese tecnologiche dal forte valore propagandistico come il trasporto degli obelischi39, le

operazioni più direttamente controllate dall'amministrazione imperiale dovevano riguardare la movimentazione di imponenti elementi architettonici semilavorati destinati ad opere monumentali40. E' chiaro che ci troviamo di fronte ad un

panorama complesso nel quale, pur appoggiandosi ad infrastrutture pubbliche41, ampio spazio doveva invece essere

dato alle transazioni private per un'ampia gamma di manufatti costituiti da materiali meno pregiati, e di dimensioni più ridotte. A tal proposito va ricordato che il trasporto su lunghe distanze delle normali pietre da costruzione era, se possibile, evitato42: per l'approvvigionamento di rocce di poco valore

estetico e simbolico non valeva la pena di investire una gran quantità di tempo e risorse economiche.

Come sottolineato recentemente43 il fabbisogno di questi

materiali edili era affidato per lo più ad industrie "periubane", tanto che la maggioranza delle più importanti città dell'Impero si trovava a meno di 30 km di distanza da una fonte primaria di pietra da costruzione44. Oltre al già citato caso delle rocce

tufacee impiegate a Roma penso ad esempio al calcare di Lutezia utilizzazto a Parigi, le cui cave si trovavano a pochi km dall'insediamento di epoca romana, entro una vasta ansa formata dalla Senna45. Allo stesso tempo però, se necessario,

anche pietre che potevano essere adoperate nell'edilizia quotidiana viaggiavano in grandi quantità su lunghe distanze46.

Il calcare di Norroy, cavato a Pont-à-Mousson nella Francia nord-orientale (Fig. 5), giunge ad esempio a Bonn (250 km lungo la Mosella), a Mainz (distante 300 km per vie fluviali e di terra) e a Strasburgo (450 km per via fluviale o 120 km su strada)47.

39 Cfr. DIBNER, 1952; WIRSCHING, 2000.

40 Testimoniate anche da numerosi relitti che hanno restituito carichi massicci, come ad es. le 350 tonnellate di marmo del relitto dell'Isola delle Correnti (KAPITAN, 1961, PP. 296-298) o le colonne

del relitto di Capo Cimiti, lunghe 8,50 m (ROGHI, 1961, PP. 55-61).

41 Cfr. RUSSELL, 2008, P. 116.

42 Cfr. RUSSELL, 2008, P. 110.

43 GOODMAN, 2007, P.111.

44 Cfr. GOODMAN 2007 e ADAM, 2001, PP. 20-21.

45 Cfr. BLANC, HOLMES, HARBOTTLE, 2002.

46 Cfr. RUSSELL, 2008, P. 113.

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Fig.5: collocazione geografica del distretto di Meurthe-et-Moselle con Pont-à-Mousson.

Analogamente, il calcare di alta qualità di Bois-des-Lens aveva come mercato locale primario quello di Nîmes, distante una ventina di km ad Est delle cave, dove veniva utilizzato come materiale da costruzione e per la statuaria48. Oltre a

Nîmes questa pietra era utilizzata in altre città poco distanti (entro i 40 km) per strutture monumentali e per la statuaria; l'uso di questa pietra in città più lontane, come Nizza (250 km), Fréjus (200 km) e Narbonne (150 km) è invece attestato solo per la costruzione di strutture monumentali49. Rimanendo nel

contesto delle Province occidentali, il marmo di Santa Tecla cavato poco a nordest di Tarragona50, pur trovando a Tarraco

un utilizzo ampiamente diffuso in edilizia, viene esportato semilavorato in lastre, basi e supporti per epigrafi in varie città della Spagna, giungendo fino a Cartagena51, a 550 km di

distanza.

Questi esempi permettono di affermare che nel caso dei materiali lapidei categorie quali locale (per la facile reperibilità), regionale (perché piuttosto costoso da esportare) ed inter-regionale (perché di eccezionale valore) vanno in realtà letti alla luce di vari fattori, che non lasciano spazio a facili schematizzazioni52. Una stessa roccia, a seconda delle

necessità e della disponibilità economica dei committenti, poteva viaggiare su tratte più o meno lunghe ed in forme più o meno monumentali ed ingombranti: dalla lastra di pochi cm di spessore alle colonne di decine di tonnellate di peso. Quanto alle modalità del trasporto, oltre ad essere determinate

48 Cfr. PEARSON, 2006; BESSAC, 1996.

49 Cfr. RUSSELL, 2008, P. 120. Riguardo alla diffusione delle pietre decorative nella Francia di età

romana, si vedano gli interventi compresi in CHARDRON-PICAULT, 2004.

50 RODÀETAL., 2009.

51 Cfr. RODÀETAL., 2009, P. 134.

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dall'entità volumetrica del carico, esse dovevano di volta in volta adattarsi alle condizioni topografiche (presenza di fiumi navigabili, pendenza del terreno, ecc..) ed alla disponibilità di infrastrutture presenti tanto nei siti di partenza del materiale quanto in quelli di destinazione. Quel che è certo e che qui più interessa indagare è che in ogni caso, ma soprattutto per manufatti di grandi dimensioni, il trasporto di materiale lapideo comportava la necessità di accorgimenti tecnologici particolari.

CAPITOLO II

La logistica dei trasporti

II.1 Dalla cava al mare.

II.1.1 Estrazione dei blocchi

Fig.6: le antiche cave di Aliki, sull'isola di Thasos.

Più che sul metodo di estrazione dei blocchi ci interesserà qui soffermarci sulla logistica del loro trasporto, che doveva risultare problematico sin dalle sue prime fasi. L'estrazione avveniva di solito con la creazione, mediante l'uso di picconi pesanti, di linee di frattura nella pietra ( cesurae ) lungo le quali si praticavano fessure ove inserire dei cunei di metallo, causando il distacco del blocco53 (Fig.7). Per la sbozzatura o

per la produzione di lastre direttamente in cava si potevano utilizzare invece delle seghe a pendolo, di cui ci riferisce anche

53 Sui metodi di estrazione si vedano KOZELJ, 1988; BESSAC, 1988; BARRESI, 2002, PP. 69-77; BRUNO,

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Plinio (N.H., XXXVI, 9)54. Come è ormai noto gran parte delle

operazioni di semi-lavorazione dei blocchi avveniva in cava, seguendo peraltro diffusi parametri di standardizzazione dei manufatti55. Parte della semi-lavorazione poteva tuttavia

avvenire anche nei porti di destinazione, come attestato a

Portus, dove dalla Fossa Traiana provengono colonne

quadrilobe e doppie di pavonazzetto che dovevano probabilmente venir suddivise prima di essere imbarcate sui battelli fluviali56.

Fig.7: ricostruzione del metodo di distacco dei blocchi per cesurae. A destra, segni di lavorazione lasciati dal piccone pesante nelle cave di marmo tasio di Aliki.

Una volta estratto ed adagiato sul piano di cava, probabilmente grazie a funi ed imbracature, il blocco veniva sbozzato e conferito ad un primo sito di stoccaggio dove avvenivano ulteriori operazioni di semi-lavorazione57. Questa

prima fase di trasporto variava ovviamente a seconda della topografia delle diverse cave. Alcune pietre venivano estratte da giacimenti direttamente digradanti verso il mare, come il marmo tasio di Aliki58 (Fig. 6), quello di Capo Latomio a Skyros

(Valaxa)59, quello della baia di Kefalos a Kos60 o quello del Capo

Tenaro61 in Grecia (Fig. 8).

54 Cfr. BRUNO, 2002, PP. 188-191, che riferisce anche di una sega a telaio azionata ad acqua,

rinvenuta nel laboratorio di un marmista nel quartiere residenziale di Efeso; a tal proposito anche RITTI, GREWE, KESSNER, 2007.

55 Cfr. BRUNO, 2002, PP. 182-183. 56 Cfr. PENSABENE, (2005??). 57 Cfr. FABIANI, 2006, P. 138; BRUNO, 2002, PP. 182-183. 58 BRUNO, 2002, P. 181. 59 BRUNO, 2002b. 60 CHIOTIS, PAPADIMITRIOU, 1995. 61 BRUNOET AL., 2002.

(17)

Fig.8: la baia di Mezapos; sullo sfondo le antiche cave del Capo Tenaro.

Analogamente altre rocce potevano provenire da giacimenti situati in posizione favorevole rispetto a fiumi e corsi e d'acqua come ad esempio le cave del tufo di Cervara, vicinissime all'Aniene62, o quelle ben più prestigiose di Sienite (il "granito

rosso") e Diorite di Assuan, sul Nilo63. In tutti questi casi poteva

essere sufficiente far scorrere i blocchi su traversine di legno per brevi distanze (Fig.9), sfruttando l'"abbrivio" delle pendenze naturali della costa o della sponda del fiume64. Una

volta coperti questi brevi tratti rimaneva chiaramente il problema, che affronteremo a breve, di come caricare sui carri o sulle navi i pesanti manufatti.

Fig.9: lo scorrimento dei blocchi su traversine di legno (ADAM, 1984).

II.1.2 La "lizzatura"

Nella gran parte dei casi, tuttavia, le cave non godevano di posizioni così favorevoli: spesso l'estrazione della pietra avveniva in contesti estremamente disagevoli, come nel caso del marmo di Paros che, come tramanda Plinio (N. H. XXXVI, 2, 14), veniva cavato anche in galleria. I giacimenti si trovavano di norma in zone montuose, per cui la prima fase del trasporto dei blocchi doveva consistere semplicemente nella discesa a valle, e da qui verso il mare, i fiumi o le vie di terra a seconda delle destinazioni dei manufatti65. Questa operazione veniva 62 Cfr. QUILICI, 1986, PP. 209-210.

63 Cfr. LAZZARINI, SANGATI, 2004, PP. 74-76.

64 Cfr. BRUNO, 2002, P. 183.

(18)

effettuata per lo più tramite la cosiddetta "lizzatura", termine moderno adottato nelle cave di Carrara ed utilizzato per antonomasia nella lingua italiana. La parola prende il nome dalla "lizza", ovvero una sorta di slitta di legno su cui si caricava il blocco litico e che veniva fatta scivolare su traversine lungo ripide "vie di lizza" che scendevano dalla montagna66.

Le "vie di lizza" erano costruite utilizzando di solito gli scarti stessi della lavorazione del marmo, come ben documentato nelle cave del Pentelico a Spilia67 (Fig.10). Altre vie di lizza

antiche conservate sono la via claudiana a Styra (Eubea), quelle del distretto del monte Pyrgari, quella di Kilindroi presso Karystos in Eubea68 ed alcune vie del bacino di

Colonnata a Carrara69.

Fig.10: via di lizza antica al Pentelico. A destra, "lizzatura" a Carrara (inizi '900).

Per facilitare la discesa dei blocchi, in particolar modo di quelli più pesanti, queste vie presentavano fortissime pendenze, fino a 45 gradi70; tale circostanza richiedeva

ovviamente grande cautela, che si esercitava guidando il blocco per mezzo di spesse funi che venivano via via assicurate a pilastrini di legno o di marmo (a Carrara chiamati "piri"71),

posti ai margini del percorso (Fig.12).

66 Cfr. DOLCI, 1980.

67 Cfr. KORRES, 1995, PP. 62-64.

68 Per le vie di lizza sin qui citate si vedano BRUNO, 2002, P. 185 e WURCH-KOZELJ, 1988, P. 60.

69 Cfr. DOLCI, 1980, PP. 80 SS.

70 Cfr. BRUNO, 2002, P. 185.

71 Su alcuni "piri" risalenti forse ad epoca romana nel bacino di Colonnata a Carrara, si veda DOLCI,

(19)

Fig.11: uno dei "piri" lungo una via di lizza moderna a Carrara.

Fig. 12: ricostruzione della "lizzatura" nell'antichità (ADAM, 1984). A destra, lizzatura

sul Corchia, anni '20 del '900.

II.1.3 Altri metodi di trasporto dei blocchi

Una interessante soluzione per il trasporto di imponenti blocchi monolitici su brevi distanze ci è tramandata da Vitruvio

(De Arch., X 11-12), che ricorda l'ingegnoso sistema ideato

dagli architetti greci Chersifrone e Metagene per spostare le enormi colonne e gli architravi del tempio di Artemide ad Efeso (Fig.13). Per le colonne il meccanismo consisteva sostanzialmente nel forare alle due estremità il fusto e nell'imbracarlo in una struttura che permettesse di tirarlo facendolo rotolare come un rullo. Per gli architravi si adottava lo stesso principio, aggiungendo ovviamente delle grandi ruote di legno sui lati corti. Un sistema analogo dovette essere utilizzato nel trasporto dei tamburi delle colonne del tempio G di Selinunte, che recano i fori per il passaggio dell'asse di

(20)

rotazione al loro interno72.

Fig.13: ricostruzione dei meccanismi di Chersifrone (A) e Metagene (B). (ADAM, 1984).

Chiaramente questi sistemi, riferibili al VI secolo a.C., non sono indicativi dei normali metodi di trasporto adottati in epoca romana, essendo peraltro applicabili solo a brevi distanze e su percorsi piuttosto lineari; Vitruvio stesso sembra riportarli più per il gusto di riferire un'impresa eccezionale che per indicarli ad esempio. Tuttavia citare qui questi meccanismi mi è sembrato utile per introdurre alcune riflessioni sulle macchine utilizzate per la movimentazione dei manufatti litici.

II.1.4 Paranchi, gru ed altri macchinari

Il trasporto su lunghe distanze dei blocchi di pietra presupponeva ovviamente l'utilizzo di imbarcazioni e carri: entrambi questi mezzi prevedevano che il carico fosse deposto dall'alto. Nei casi in cui, come ad esempio nelle citate cave di Aliki a Thasos, la topografia dei luoghi lo permettesse, si può ipotizzare che i manufatti potessero essere caricati sfruttando lo scivolamento dall'alto con il semplice sistema dei piani inclinati73. Per lo più, tuttavia, si rendeva necessario l'utilizzo di

macchinari74 che consentissero di ridure gli sforzi necessari

alla movimentazione di pesi ingenti, talvolta consistenti in decine di tonnellate. Chiaramente questi dispositivi dovevano trovare impiego anche nei porti di arrivo del materiale, per consentirne lo scarico a terra o l'alleggio su imbarcazioni

72 Cfr. ADAM, 1984, P. 31.

73 Cfr. WILSON, 2008, P. 339.

(21)

fluviali. I principi meccanici adottati nelle macchine di epoca romana erano ben noti già ai Greci sin dall'età arcaica, ad eccezione della vite e della ruota dentata che risalgono ad età ellenistica75. E' in quest'epoca che, soprattutto in seno alla

scuola di Alessandria, vengono prodotti una serie di scritti fondamentali per la nostra conoscenza della meccanica dei Greci: tra gli altri i Problemi Meccanici dello pseudo-Aristotele e la Sintassi meccanica di Filone di Bisanzio76. Questo bagaglio

di informazioni è raccolto e rielaborato da Vitruvio, in particolare nel X libro del De Architectura, che descrive con dovizia di particolari soprattutto i dispositivi costituiti da carrucole. Sottolineare l'importanza delle fonti letterarie ed iconografiche in un contesto che prevedeva l'utilizzo quasi esclusivo di materiali deperibili (funi e legno) sembra quasi superfluo77.

Le macchine descritte da Vitruvio (X, 2-10) sono essenzialmente delle gru che integrano l'uso di più carrucole con un verricello. Un verricello consiste semplicemente in un tamburo ad asse orizzontale (se l'asse è verticale si parla invece di argano) attorno al quale, per mezzo di una manovella, si avvolge una corda fissata ad un peso da spostare: maggiore è la lunghezza della manovella, maggiore è la potenza esercitata. In Fisica meccanica la carrucola è una leva di primo genere costituita da una puleggia, ovvero un disco che ruota intorno ad un asse, ed una fune che scorre attorno ad essa. La carrucola può anche essere mobile (Fig. 14) quando si sposta in modo solidale con il carico (leva di secondo genere) o

composta se costituita da due o più carrucole; la carrucola

composta è detta anche paranco.

Fig. 14: schema di carrucola mobile. 75 Cfr. WILSON, 2008, P. 337.

76 Sull'argomento si vedano WILSON, 2008 e LEWIS, 1997.

77 Gli unici rinvenimenti archeologici di epoca romana relativi a questi macchinari si riferiscono a tre pulegge, rinvenute rispettivamente a Nemi, Londra e Cenchrae, presso Corinto; cfr. WILSON,

(22)

Il vantaggio meccanico fornito dal paranco è molto semplice: esso risulta inversamente proporzionale al numero di carrucole utilizzate, anche se l'attrito esercitato dalle funi va in realtà a ridurre in una certa proporzione il vantaggio meccanico78.

F= P/n

Dove F è la forza necessaria a spostare un oggetto; P è il peso dell'oggetto ed n il numero di carrucole. Dovendo sollevare, ad esempio, un oggetto di 100 Kg di peso, con un paranco a due carrucole sarà necessario esercitare una forza di 50 Kg circa, mentre con un paranco a cinque carrucole sarà necessaria una forza pari a soli 20 Kg circa.

Fig. 15: carrucola semplice (1) e paranchi a più pulegge: per alzare di 10 cm lo stesso peso, se con la carrucola semplice occorrono 100 Newton di forza con il paranco a 4 pulegge bastano 25 Newton.

Vitruvio ( De Arch. X, 3) parla anzitutto di paranchi a tre (trispastos ) e cinque pulegge ( pentaspaston ), associati ad un verricello che esercita la trazione. Nel caso della movimentazione di carichi davvero imponenti, però, si doveva ricorrere al polyspastos, paranco a più carrucole con braccio mobile, che permetteva la rotazione del sistema (Fig. 16). Come vedremo meglio in seguito, mi sembra chiaro che un sistema del genere dovesse rivelarsi estremamente utile nelle operazioni di carico e scarico di manufatti pesanti all'interno dei porti, dalla nave al molo e viceversa, o da un'imbarcazione ad un'altra.

(23)

Fig.16: polyspastos. Fig.17: modello di gru basato sui principi vitruviani.

Vitruvio cita anche l'utilizzo di una ruota, che i Greci chiamavano amphìesis, utile ad aumentare enormemente la potenza di trazione del verricello collegato al paranco: all'interno di questa ruota poteva camminare un numero variabile di operai che la mettessero in moto, garantendo la possibilità di sollevare carichi di decine di tonnellate di peso79.

Questo sistema è peraltro raffigurato in almeno due importanti rilievi: il primo proviene dall'anfiteatro di Capua (Fig. 19), mentre il secondo è il noto rilievo degli Haterii di epoca domizianea (Figg. 17-18).

Fig. 18: il rilievo degli Haterii e ricostruzione della macchina elevatrice. (ADAM, 1984)

(24)

Il rilievo degli Haterii mostra chiaramente la presenza di una ruota azionata da cinque uomini al suo interno, ed un albero a V rovesciata che, grazie ad una serie di tiranti, permetteva di spostare il carico in avanti o indietro.

Fig.19: il rilievo di Capua; a destra ricostruzione della macchina elevatrice (ADAM,1984).

Il rilievo di Capua rappresenta, seppur con minor ricchezza di particolari, un dispositivo analogo azionato a trazione umana. Per fornire un'idea della potenza elevatrice di questo tipo di macchinari si pensi che Plutarco ( Marcello, 14.8 ), pur esagerando senza dubbio il suo racconto, tramanda di come Archimede avesse usato un polyspaston per spostare la nave di Ierone di Siracusa usando solo la mano sinistra e rimanendo comodamente seduto80. Wurch-Kozelj81 riferisce anche di gru

fisse più semplici, a due, tre e quattro alberi (rispettivamente

dikolos, trikolos e tetrakolos), sempre azionate da argani o

verricelli (Fig. 20): questo tipo di macchine doveva probabilmente trovare un utilizzo più diffuso direttamente in cava, per caricare i blocchi sui carri. Tale operazione poteva anche essere effettuata trascinando i manufatti su traversine mediante argani a trazione animale (Fig. 21), come ben illustrato nell'opera di Nicola Zabaglia, Contignationes ac

pontes, pubblicata a Roma nel 1743. Analoghe gru potevano

essere direttamente fissate alle pareti delle cave, nel caso in cui il piano di cava si trovasse ad una quota inferiore rispetto al piano di carico del materiale: evidenze dei fori per l'installazione di dispositivi di questo genere in epoca antica sono state individuate nelle cave del Pentelico, di Chio e di

80 Per una rassegna di fonti su tale argomento, si veda WILSON, 2008, P. 344.

(25)

Thasos82.

Figg. 20-21: tavole tratte da Contignationes ac pontes, di Nicola Zabaglia (1743). A sinistra, ricostruzione di una gru a tre alberi azionata da un argano. A destra, particolare delle operazioni di carico di blocchi litici su carri; si noti la presenza di un argano azionato da buoi per trascinare i manufatti con l'aiuto di traversine di legno.

I manufatti venivano assicurati ai paranchi mediante diversi metodi di imbracatura83: i blocchi parallelepipedi potevano

presentare tenoni laterali che servissero da maniglie per il fissaggio delle funi; in fase di rifinitura o di posa i tenoni potevano essere scalpellati o nascosti alla vista all'interno delle murature. Un'altra soluzione era quella di agganciare il blocco con grosse tenaglie di ferro fissate su due facce dell'oggetto in pietra (Fig. 23). Uno dei sistemi più diffusi durante tutto l'Impero, applicabile anche alle colonne, era quello di inserire delle grappe di ferro componibili terminanti con un occhiello (in Fig. 22 è la louve indicata da Adam) in apposite fessure praticate nella pietra84. Le evidenze archeologiche relative a

questi dispositivi risultano abbondanti per l'epoca romana per quanto attiene ai segni presenti sui manufatti litici (fessure, ecc..), mentre più rari, sebbene comunque attestati, sono i rinvenimenti relativi a tenaglie e grappe85.

82 Cfr. WURCH-KOZELJ, 1988, ibidem.

83 Sull'argomento si veda ADAM, 1984, PP. 49-53.

84 Cfr. ADAM, 1984, PP. 50-51.

(26)

Fig. 22: sistemi di imbracatura (ADAM, 1984) Fig.23: tenaglie; Museo di Chemtou.

II.1.5 Porti ed infrastrutture.

Come ho già avuto modo di sottolineare nel I capitolo, il trasporto di materiale lapideo su lunghe distanze si basava su un sistema integrato che poteva usufruire, in misure diverse a seconda dei casi, tanto delle vie di mare che di quelle terrestri e fluviali. Se è vero, come vedremo meglio in seguito, che quasi sempre almeno una parte di tragitto avveniva su via di terra, va anche detto che una ingente quantità di marmi e di altre rocce viaggiò per mare, soprattutto alla volta di Roma. Di certo la quasi totalità delle pietre pregiate provenienti dalle cave di proprietà imperiale giungeva a Portus, da dove veniva poi smistata ai vari cantieri di committenza imperiale a Roma e non solo86. Tuttavia i rinvenimenti effettuati a Fiumicino lungo

la Fossa Traiana dimostrano la presenza a Portus di 22 varietà di marmi, chiaramente non tutti provenienti da cave imperiali.

Fig. 24: pianta dei porti di Claudio e Traiano (BOETTO, 2006)

(27)

Il controllo, la gestione e la distribuzione di questi manufatti lapidei erano incentrati attorno alla statio marmorum, il magazzino di deposito dei marmi dotato di un ufficio incaricato, la ratio marmorum. Dislocata sino ad epoca domizianea presso lo scalo fluviale della "Marmorata" sotto l'Aventino e poi spostata a Portus, la statio marmorum di Roma era diretta da un procurator marmorum87. E' assai probabile che stationes marmorum fossero anche presenti quantomeno nei principali porti di partenza dei marmi di proprietà imperiale per questioni di controllo burocratico, ma ad eccezione forse del caso di Carystos88 non è possibile

confermare questa ipotesi.

Quel che conta è che i principali siti costieri coinvolti nel commercio del marmo erano in realtà alcuni tra i principali porti del Mediterraneo: Efeso per i marmi docimeni e il pavonazzetto, Nicomedia e Cizico per il proconnesio e parte del pavonazzetto, il Pireo per i marmi greci, Cartagine, Utica e Alessandria per le pietre africane ecc...89 Tale circostanza non

era tanto legata alla vicinanza di questi centri alle rispettive cave ( le cave di pavonazzetto in Frigia, ad esempio, distavano comunque 200 miglia dalla costa), quanto al fatto che questi porti potevano fornire le strutture amministrative (le stationes

marmorum ?) e logistiche necessarie al commercio del marmo.

Per strutture logistiche intendo spazi, magazzini per lo stoccaggio di ingenti quantità di materiali ingombranti, officine di marmorarii per rifinire la semilavorazione dei manufatti90,

ma anche moli capaci di offrire l'ormeggio a grandi naves

lapidariae e di garantire spazio di manovra alle gru e ai

macchinari di cui abbiamo parlato nel precedente paragrafo91.

II.2 Le Naves lapidariae

"[...] ora questi stessi monti vengono fatti a pezzi per ricavarne marmi delle specie più varie. I promontori vengono spaccati per lasciar passare il mare e la natura è ridotta ad un piano livellato. Svelliamo ciò che era 87 Cfr. PENSABENE, 2002.

88 Cfr. PENSABENE, 2002, P. 18. A Luni la presenza di una statio marmorum potrebbe essere attestata

dal toponimo "La Marmora" (DOLCI, 1990, PP. 31-32).

89 Cfr. PENSABENE, 2002 e WARD-PERKINS, 1980. Porti di dimensioni più modeste, come quelli di

Luni e Carystos, dovevano essere sorti più specificamente incentrati intorno alle attività estrattive, ma dovevano essere verosimilmente dotati di strutture ampiamente adeguate. 90 Cfr. PENSABENE, 2002, PP. 53-58.

(28)

stato posto a confine tra popoli diversi, si fabbricano navi per caricarvi

marmi, e le vette montane sono portate a destra e a sinistra sui flutti,

l'elemento naturale più selvaggio."(Plin. Nat. Hist. XXXVI, 1).

Questo passo di Plinio il Vecchio sottolinea almeno due aspetti importanti ai fini di questo lavoro: da un lato, tralasciando il gusto moraleggiante, fornisce un'idea della entità delle attività estrattive in epoca romana, dall'altro cita espressamente la costruzione di navi atte al trasporto dei marmi. Ho già avuto modo di affrontare diffusamente l'argomento naves lapidariae in occasione della mia tesi di laurea92, pertanto eviterò di dilungarmi in questa sede.

Fig. 25: navis lapidaria in fase di carico. Ricostruzione da BRUNO, 2002.

Mi limiterò a ricordare le principali conoscenze acquisite in merito alle caratteristiche di queste imbarcazioni. Anzitutto va detto che le fonti letterarie ci forniscono poche e vaghe informazioni al riguardo, prive di qualsiasi dettaglio tecnico; a ciò si aggiunga che, oltre al precedente passo di Plinio, le uniche altre citazioni di navi che caricassero ingenti quantità di materiale lapideo si riferiscono a quelle utilizzate per il trasporto degli obelischi dall'Egitto a Roma (Plin. N.H. XXXVI, 14, Amm. Rerum gestarum, XVII, Suet. Claudius, 20). Data l'enormità del tutto eccezionale di questi manufatti (monoliti di circa 500 tonnellate di peso) è chiaro che questi esempi non

92 Per quanto attiene alle problematiche costruttive di queste navi rimando in particolare alle pp. 45-68.

(29)

possono assurgere a paradigma; peraltro anche in questo caso le fonti non riportano alcun dettaglio costruttivo delle navi. Non mi risulta poi di fonti iconografiche relative a imbarcazioni specificamente utilizzate per il trasporto di marmi o pietre.

Quanto alle evidenze archeologiche, i relitti di epoca romana che hanno restituito carichi lapidei, di entità variabile tra le 23 tonnellate del relitto di Dramont I93 e le 350 tonnellate di

quello di Isola delle Correnti94, sono poco più di 40 in tutto il

Mediterraneo. Di questi, solo cinque (Dramont I, Mahdia, Torre Sgarrata, Camarina e Punta Scifo) hanno restituito elementi lignei relativi allo scafo. Va precisato che in alcuni casi una quantità modesta di materiale lapideo poteva costituire un carico secondario di accompagno ad altre merci (come nel caso del relitto di Skerki Bank F95, nel Canale di Sicilia), eventualità

che non doveva richiedere la presenza di imbarcazioni particolari. Per naves lapidariae dovremo intendere piuttosto quelle navi dedicate al trasporto (esclusivo ?) di manufatti litici di grandi dimensioni e peso. I pochi dati desumibili dalle tracce di scafi conservati non sono in grado di fornire elementi che facciano pensare a tecniche costruttive diverse da quelle note per tutti gli altri relitti di epoca romana; si può registrare in alcuni casi (soprattutto Mahdia e Dramont I) un sovradimensionamento delle strutture longitudinali al fine di aumentarne la resistenza alla pressione del carico, ma nulla di più.

Di fatto quasi tutte le ipotesi formulabili in merito a queste navi si devono fondare su osservazioni legate ai carichi. Non si tratta di una mera questione di dislocamento o tonnellaggio, poiché la maggioranza dei carichi lapidei noti si aggira intorno alle 100-150 tonnellate di peso, una grandezza ben sopportata da una qualsiasi grande oneraria. La questione è più legata alle dimensioni e al peso dei singoli manufatti: si pensi alle sei colonne di marmo cipollino relative al relitto di Capo Cimiti (KR), ciascuna della lunghezza di 8,5 m e del peso di oltre 18 tonnellate96. Solo una nave con caratteristiche particolari

poteva assicurare il trasporto di colonne di tali proporzioni. Anzitutto lo studio comparato della disposizione dei carichi dei vari relitti sembra dimostrare che gli oggetti venissero

93 JONCHERAY, 1997.

94 KAPITÄN, 1961. Cfr. anche PENSABENE, 2002, PP. 34-46.

95 MCCANN, OLESON, 2004.

96 Cfr. ROGHI, 1961; ROYAL, 2008, P. 51. Riporto qui questo esempio perché uno tra i più eclatanti,

ma sono numerose le evidenze relative a colonne di dimensioni, comunque imponenti, tra i 3 e i 5 m di lunghezza.

(30)

accuratamente disposti sul fondo dello scafo, distribuendo i pesi lungo il suo asse longitudinale: l'alto peso specifico dei materiali avrebbe infatti sottoposto a pressioni eccessive le tavole del ponte; inoltre lo stivaggio sul fondo avrebbe fornito maggior stabilità al carico.

Fig. 26: ricostruzione ipotetica dello stivaggio della nave della Baia della Caletta (Lerici).

Per garantire questo metodo di stivaggio i manufatti dovevano essere caricati dall'alto, pertanto le navi dovevano essere aperte97, ovvero almeno parzialmente prive di ponte;

inoltre la distanza tra un baglio e l'altro doveva essere adeguata alla lunghezza dei blocchi o delle colonne trasportati. Un ulteriore elemento che poteva ragionevolmente caratterizzare queste imbarcazioni poteva essere un rapporto tra lunghezza e larghezza inferiore rispetto a quello canonico calcolato da Pomey e Tchèrnia98 (Lungh./largh. = 3<x<4):

dunque navi più larghe, meno manovrabili ed agili ma più stabili. D'altra parte i dettagliati studi condotti sul relitto di Mahdia, uno dei pochi nel suo genere ad aver fornito dati più sostanziosi sotto il profilo costruttivo, propongono una nave che ben si adegua alle caratteristiche elencate: scafo piuttosto espanso in larghezza e bagli distanziati99 (Fig. 27).

97 Il relitto della Baia della Caletta a Lerici ha restituito cinque perni ascrivibili ai meccanismi di rotazione delle pompe di sentina del tipo "a bindolo": il loro numero fa pensare alla possibilità della presenza di più pompe, forse necessarie a fronteggiare la maggior tendenza ad imbarcare acqua nel caso di una nave priva di ponte.

98 POMEY,TCHÈRNIA, 1978, PP. 233-245.

(31)

Fig.27: ricostruzione della nave di Mahdia. ( HÖCKMANN, 1994 )

Al di là queste considerazioni, che appaiono piuttosto verosimili, sono state formulate altre ipotesi interessanti, ma prive del supporto di dati archeologici. Kozelj e Wurch-Kozelj100 hanno proposto ad esempio che le naves lapidariae

avessero uno scafo simmetrico, cioè dotato di due poppe che ne favorissero le operazioni di attracco nei porti. I due studiosi ipotizzano che oltre alla vela queste imbarcazioni potessero essere fornite anche di remi al fine di facilitare le manovre, particolarmente delicate a causa della mole degli oggetti trasportati. Meno accettabile risulta senza dubbio l'idea di Wirsching, riferita in particolare al trasporto degli obelischi a Roma101. L'autore cerca infatti di adattare alla navigazione

marittima un sistema che verosimilmente poteva essere usato per il trasporto di imponenti monoliti sul Nilo.

Plinio (Nat. Hist. XXXVI, 14, 67-68) descrive una doppia nave (amphiprymnoi) utilizzata da Tolomeo II Filadelfo per il trasporto di un obelisco ad Alessandria: tra due scafi paralleli pesantemente zavorrati, uniti da travi perpendicolari alle murate, era posta una piattaforma su cui si faceva scivolare l'obelisco; eliminando la zavorra l'imbarcazione risaliva e

100KOZELJ, WURCH-KOZELJ, 1993, PP. 116-119.

(32)

navigava con l'obelisco immerso appena sotto la superficie dell'acqua. Incrociando questa testimonianza con la propria interpretazione di un affresco rinvenuto nella tomba di Hatshepsut a Deir-el-Bahari, Wirsching propone un'imbarcazione a quattro scafi (Fig.28) che avrebbe potuto viaggiare anche in mare aperto, secondo l'autore, con l'aggiunta di un ulteriore scafo che trainasse la doppia nave. Senza contare che nessuna testimonianza archeologica può minimamente far pensare all'esistenza di un sistema del genere, i problemi di manovrabilità di una simile imbarcazione in mare mi sembrano davvero difficili da superare.

(33)

II.3 Il trasporto di materiale lapideo per via fluviale

II.3.1 Caratteristiche del trasporto fluviale

Fig. 29: rilievo da Avignone. Scena di alaggio di un'imbarcazione gallo-romana. (DEMAN, 1987).

In un suo recente intervento Patrice Pomey ha ben delineato le peculiarità costruttive delle imbarcazioni fluviali rispetto a quelle dedite alla navigazione marittima:

"A causa della sua evoluzione in un ampio spazio aperto, la nave d'alto mare è meno direttamente dipendente dall' ambiente che la circonda. Il suo relitto costituisce un contesto archeologico coerente e bastante a sè stesso che ha poco rapporto con la particolare natura del contesto ambientale, spesso aleatorio. Al contrario, il battello fluviale o lacustre non può trovare la sua coerenza archeologica se non in rapporto al suo contesto ambientale di evoluzione, che è esso stesso un contesto unico, delimitato e maggiormente frequentato102."

Questa autorevole riflessione ci spinge immediatamente a porre l'accento su un aspetto essenziale della navigazione fluviale: la variabilità delle soluzioni tecniche adottate in relazione alle condizioni idrografiche e topografiche dei diversi corsi d'acqua. Pur accettando l'assunto teorico secondo cui il trasporto fluviale era più rapido ed economico di quello via terra, si dovrà di volta in volta valutare con cautela l'effettivo grado di navigabilità dei singoli corsi d'acqua, soprattutto quando il fiume doveva essere percorso controcorrente103. Del

resto, come vedremo meglio in seguito, lo stesso Edictum de

102 POMEY, 2011, P. 19.

(34)

Pretiis dioclezianeo segnala un significativo aumento di prezzi

nel caso del trasporto fluviale controcorrente104.

E' chiaro che nei casi in cui si disponeva di corsi d'acqua adatti alla navigazione sarebbe stata una follia non approfittarne105. Il problema consta nel valutare in quale

misura e in quali periodi i diversi fiumi potevano essere navigabili. Le fonti antiche sottolineano in più casi l'importanza delle vie d'acqua, soprattutto in relazione al trasporto dei prodotti agricoli dalla villa ai mercati vicini. Varrone (De Re Rust., I, 16, 2-6) sottolinea come la connessione della villa con viae et fluvii ne incrementi senza dubbio la produttività; Columella (De Re Rust., 1, 3) e Plinio il Vecchio (Nat. Hist., 17, 28), citando Catone, rimarcano parimenti l'importanza di entrambi i tipi di vie di comunicazione. Plinio il Giovane (Lettere, V, 6, 12), nel descrivere la sua vasta proprietà di Tifernum Tiberinum, racconta di come il Tevere trasporti in città tutte le derrate agricole prodotte a monte di essa. Strabone, poi (IV, 1, 14), riporta che "[...] il percorso che il Rodano affronta insinuandosi nell'entroterra è considerevole, consentendo la navigazione anche ad imbarcazioni di grossa portata, e raggiunge numerose parti della regione."

Fig.30: Ostia, Piazza delle Corporazioni. Mosaico raffigurante una scena di alleggio da un'imbarcazione marittima (a destra) ad una marittimo-fluviale del tipo caudicaria (BOETTO, 2011).

104Cfr. ROUECHÉ, 1989, P. 307; DEMAN, 1987, P. 81.

(35)

D'altra parte le notizie relative alle corporazioni dei

nautae106 dei codicarii107 e degli helciarii108 testimoniano della

intensa attività commerciale che si svolgeva lungo il corso dei fiumi. Queste testimonianze si riferiscono in larga parte ai maggiori corsi fluviali: il Tevere, il Nilo, il Rodano, il Reno; anche in questi casi casi, tuttavia, il trasporto non doveva essere sempre così semplice.

Accanto all'esaltazione della comodità delle vie fluviali, infatti, le fonti stesse ne sottolineano gli elementi di criticità legati soprattutto alla stagionalità o alle particolari condizioni morfologiche di alcuni tratti. Strabone (IV, 1, 14), sempre a proposito del Rodano, ricorda che in risalita a partire da Lione il fiume si fa "turbolento e difficile da navigare e parte del traffico, da questo punto, si svolge preferibilmente via terra su carri". Addirittura sul Nilo l'alaggio di imbarcazioni fluviali poteva dover essere interrotto a causa di condizioni avverse109.

Plinio il Giovane, nel prosieguo del passo poc'anzi citato

(Lettere, V, 6, 12), precisa che il trasporto delle derrate agricole

sul Tevere risultava agevole in inverno e in primavera, mentre in estate il fiume " [...] si abbassa e nel suo alveo disseccato rinuncia al suo nome di imponente fiume, che ritrova solo in autunno" ("[...] summittitur immensisque fluminis nomen arenti

alveo deserit, autumno resumit."). Plinio il Vecchio, poi,

riferendosi al corso più alto del Tevere, alla confluenza del Paglia e del Chiana110, ricorda come esso non fosse

praticamente più navigabile e per aumentare la portata del fiume si dovesse ricorrere a chiuse che venivano aperte ogni 9 giorni per sfruttare l'onda di piena (Nat. Hist., III, 5, 53). A tal proposito va ricordato che, in generale, i punti di sbocco di eventuali affluenti determinano sempre una diminuzione della soglia di navigabilità dei fiumi111.

Con questo non voglio sminuire l'importanza e la frequenza nell'utilizzo del trasporto fluviale, che ad esempio per la città di Roma costituiva senza dubbio un asse commerciale strategico112, ma tento semplicemente di porlo sotto una luce

obiettiva, che non ne sottovaluti gli aspetti problematici. Una questione non di poco conto era legata ad esempio alla

106 RUSSELL, 2008, P. 113. 107 BOETTO, 2011, P. 112. 108 QUILICI, 1986, PP. 198-200. 109Cfr. CASSON, 1994, P. 131. 110Cfr. QUILICI, 1986, P. 215. 111Cfr. QUILICI, 1986, PP. 213-214.

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manutenzione del fiume: per quanto riguarda la Roma imperiale sappiamo che operazioni di drenaggio, rinforzo degli argini, costruzione di banchine, venivano condotte periodicamente, soprattutto dopo il forte impulso dato a queste attività a partire da Augusto ( Suet., Aug., 28; 30)113. A

ciò si aggiungeva la necessità di approntare adeguate strade carraie di alaggio lungo le sponde, ben testimoniate a Roma tanto dalle fonti quanto dalle evidenze archeologiche, ad esempio nelle zone del Ponte Milvio e di Montesecco114. La

risalita di un fiume, infatti, richiedeva necessariamente la pratica dell'alaggio dal momento che la sola populsione a vela, che pure spesso caratterizzava le imbarcazioni fluviali, non poteva fornire una spinta sufficiente115. Si ricordi a tal

proposito che il ricorso a cavalli o buoi per l'alaggio sembra essere introdotto in maniera sistematica solo in epoca piuttosto tarda, mentre in precedenza si ricorreva per lo più alla trazione umana offerta dagli helciarii; il numero di questi lavoratori poteva variare, a seconda dell'entità del carico e della difficoltà del percorso, tra le poche decine e le circa trecento unità116. Tale circostanza richiedeva chiaramente spazi

adeguati da poter percorrere lungo le sponde: ulteriore fattore di cui si dovrà tenere conto nel valutare la navigabilità di un corso d'acqua.

Fig. 31: Fiumicino, Museo delle Navi Romane.

113Cfr. QUILICI, 1986, PP. 200-201.

114 Qui si sono individuati camminamenti per l'alaggio larghi da 15,9 a 18,9 m. A tal proposito, QUILICI, 1986.

115Cfr. POMEY, 2011, P. 194; BOETTO, 2011, P. 112.

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Per quanto riguarda le imbarcazioni, poi, le dirette evidenze delle frequenti riparazioni effettuate sugli scafi delle

caudicariae di Fiumicino (Fiumicino 1, 2, 3 databili tra il IV ed il

V secolo d.C.)117 sembrano confermare le difficili condizioni di

navigazione anche nel contesto di un fiume di grande portata e di intenso traffico come il Tevere118.

Fig. 32: modellino ricostruttivo della caudicaria Fiumicino 1. Mainz, Museum für Antike Schiffart.

II.3.2 Il trasporto di materiale lapideo

Se in generale il trasporto fluviale doveva richiedere una serie di cautele, ciò doveva essere ancor più vero nel caso di trasporti di carichi lapidei pesanti. Ho già ricordato il passo di Plinio che descrive il trasporto degli obelischi lungo il Nilo all'epoca ti Tolomeo Filadelfo per mezzo di navi doppie (Nat.

Hist., XXXVI, 14, 67-68); questo metodo va considerato

piuttosto eccezionale, ma usuale doveva comunque essere il trasporto lungo il Nilo di grandi quantità di graniti e basalti egiziani provenienti dalle numerose cave di questa regione119.

Parimenti il marmo frigio di Docimium, oltre ad un primo

117Cfr. BOETTO, 2011, PP. 104-108.

118Va notato, in effetti, che oltre alle irregolarità e ai pericoli insiti nelle caratteristiche morfologiche del fiume, un importante fattore di rapida usura per queste imbarcazioni doveva essere costituito anche dalle frequenti operazioni di approdo e di alleggio da un natante all'altro.

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