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In questa sezione dedicata all’analisi e al commento della traduzione del testo di B. J. Epstein Translating Expressive Language in Children’s Literature, è bene ricordare ancora una volta la natura ibrida del libro, il quale si colloca proprio a metà tra il saggio divulgativo-pedagogico e l’articolo scientifico (per un approfondimento su questo aspetto si rimanda al capitolo I) combinando, quindi, quella soggettività autoriale, tipica appunto del saggio (sebbene qui sia veramente ridotta) con l’esigenza di precisione scientifica e oggettività propri della ricerca scientifica. In particolare, l’aspetto della soggettività appena accennato, emerge soprattutto degli esempi in cui l’autrice esprime le proprie osservazioni. Inoltre, proprio la presenza di tali parti esemplificative, insieme all’uso di tabelle che si propongono di schematizzare i concetti e semplificare la fruizione del testo da parte del lettore (soprattutto per gli studenti) – entrambi elementi tipici dei testi con scopi didattici – sono espressione di quella “parte” divulgativo-pedagogica del libro. Nei capitoli che ho scelto di tradurre, gli esempi sono tratti principalmente dai seguenti libri per bambini: - Il GGG, La magica medicina e Matilde di Roald Dahl;

- Una serie di sfortunati eventi di Lemony Snicket; - Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain; - Diario di una schiappa di Jeff Kinney;

- Campione in gonnella di David Walliams; - La serie del Mondo Disco di Terry Pratchett;

- Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio di Lewis Carroll; - Dustbin Baby di Jacqueline Wilson.

Chiaramente, sono tutti esempi in lingua inglese che ho lasciato così come erano nell’originale, e che l’autrice inserisce regolarmente nel testo sia con un semplice scopo esemplificativo e di chiarimento, sia per compiere dei confronti tra i testi originali in lingua inglese e le traduzioni in lingue scandinave, a

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seguito dei quali propone sempre anche una traduzione inversa.1 Mi è però sembrato interessante aggiungere alla fine della seconda parte della tesi, dedicata alla traduzione, un’appendice in cui ho raccolto alcune delle traduzioni in italiano di tali esempi, per fornire al lettore curioso e appassionato delle informazioni extra riguardo alla versione italiana, per esempio riguardo all’uso delle allusioni e alla scelta dei nomi fatta dal traduttore.

Oltre a tali esempi, il libro è denso di vere e proprie citazioni di altri autori e opere che sono intercalate nel testo. Esse testimoniano la ricerca di esattezza da parte dell’autrice e la scientificità del testo. Infatti, Epstein costruisce il suo discorso basandosi sul pensiero e sulle teorie di diversi studiosi, delle cui opere puntualmente cita, in parte o per intero, frasi o brani, sempre indicando tra parentesi, immediatamente dopo, la fonte in modo puntuale, così che il lettore interessato possa identificarla con facilità andando a ricercare i dati nell’elenco bibliografico. Si tratta quindi di vere e proprie citazioni nel corpo del testo, continuamente inserite e amalgamate al discorso dell’autrice, appartenenti a studiosi e teorici della traduzione – e non solo – a cui Epstein fa riferimento e si affida per dare rigore e credito alle sue riflessioni. Di fronte a tali citazioni in lingua inglese la procedura da avviare consiste naturalmente nel riportare nel testo di arrivo una traduzione accreditata e autorevole delle stesse. È chiaro che il traduttore non possa essere a conoscenza di tutte le traduzioni che sono state effettuate di un determinato testo, e per tale motivo è necessario che ricorra alla ricerca all’interno del catalogo del sistema bibliotecario nazionale (OPAC SBN) disponibile in rete. Tale ricerca mostrerà le eventuali traduzioni dell’opera da cui è tratta la citazione in questione, e costituisce il metodo più sicuro e più veloce a cui il traduttore può ricorrere. Nel caso delle citazioni del nostro libro, le ricerche hanno mostrato che molte delle opere citate dall’autrice non sono state tradotte in italiano, di conseguenza ho scelto di intervenire sulla traduzione in due modi differenti a seconda del tipo di citazione: ho lasciato in lingua originale tutte quelle che costituiscono un paragrafo a sé e sono messe in

1Detta anche ritraduzione, o traduzione indiretta, o back translation, e consiste nel ritradurre il metatesto nella lingua del prototesto. È molto raro che si riottenga lo stesso prototesto (Glossario in B. Osimo, La traduzione saggistica dall’inglese, cit., p. 264).

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evidenza rispetto al restante testo anche da una diversa formattazione; ho tradotto tutte quelle che sono collegate alle parole dell’autrice e che sono inserite direttamente nel testo tra virgolette, da un lato cercando di mantenermi fedele al testo originale (si tratta di periodi e brani separati dal contesto di appartenenza, pertanto si corre il rischio di travisare o rielaborare troppo il concetto), dall’altro cercando di inserire, dal punto di vista linguistico e formale, tali frasi e riferimenti nel testo in modo che costituissero un tutt’uno fluido e scorrevole con le riflessioni dell’autrice (come d’altronde avviene nell’originale inglese). Si vedano i seguenti esempi dalla traduzione:

1) Van Coillie scrive che, oltre a identificare i personaggi, i nomi possono anche “avere alcune funzioni concomitanti come divertire il lettore, impartire conoscenze o suscitare emozioni” (2006, p. 123).

2) Come segnala Bator:

Literature for children easily merits definition. Books have been written for them in England and America for at least 300 years, and a sizable publishing industry, almost as old, continually supplies that audience. One would expect, by now, critical consensus on what is a children’s book.

Ci si aspetterebbe questo, ma non è così, persino trent’anni dopo Bator. Le idee su cosa sia la letteratura per l’infanzia sono cambiate tante volte durante i circa tre secoli in cui il campo è stato preso in esame (Taxel 2002, p. 152) …

Entrambi gli esempi mostrano delle citazioni accorpate al testo ed esemplificano le due modalità in cui sono state inserite nella traduzione: traducendole in italiano quando si collegavano alle parole dell’autrice, come nell’esempio 1), lasciandole in lingua originale quando erano distinte dal testo con paragrafi separati, come nell’esempio 2).

Prima di passare al commento vero e proprio della traduzione, vorrei soffermarmi su alcuni concetti che sin dal principio hanno richiamato la mia attenzione e hanno richiesto alcune riflessioni sia in senso linguistico che

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culturale. Si tratta, nello specifico, di due sintagmi inglesi che nella loro traduzione italiana non garantiscono il cosiddetto “full match”, cioè una piena corrispondenza dei significati, cosa che può dipendere dall’ambiente, dall’uso, dal contesto socio-culturale, ovvero da fattori esterni alla lingua che fanno sì che una determinata parola o idea col tempo si “stabilizzi” con un significato specifico.

Il primo di questi sintagmi si incontra sin dal principio nel testo, a cominciare dal titolo: expressive language. È la stessa autrice a darci la chiave di lettura all’interno del capitolo introduttivo, proponendo una definizione precisa e suggerendo le possibili strategie da impiegare in traduzione. Epstein spiega che tutti gli elementi linguistici che rientrano in questa categoria, ovvero neologismi, nomi, frasi idiomatiche, allusioni, giochi di parole e dialetti (di cui mostra anche una tabella con relative definizioni), possiedono contemporaneamente un doppio livello di significazione;2 è, infatti, un linguaggio simile ma più ampio del linguaggio figurato.

In italiano, il linguaggio espressivo indica una categoria molto ampia in cui rientra tutto quel tipo di linguaggio che ha a che fare con la comunicazione, intesa proprio come scambio interpersonale tra due o più soggetti; si ha quindi un emittente che manda un messaggio a un ricevente. Nello specifico, la funzione espressiva del linguaggio tende a proiettare in primo piano una determinata emozione (per tale motivo si parla anche di funzione emotiva del linguaggio) dell’emittente3. In italiano, si fa quindi riferimento a una categoria molto ampia di elementi linguistici che, a mio avviso, è difficile da circoscrivere, poiché ne fanno parte tutte quelle forme di linguaggio (verbali e non) di tipo espressivo-comunicativo. Al contrario, Epstein nel suo libro fornisce un elenco preciso delle tipologie di linguaggio espressivo, dicendo che si tratta di un gruppo specifico di elementi della lingua, limitati e circoscritti a quelli che sta indicando, e dà un’indicazione all’interno della definizione: è simile al figurative language, infatti gli elementi di cui parla hanno “a

2B. J. Epstein, Translating Expressive Language in Children’s Literature. Problems and

Solutions, Bern, PeterLang, 2012, p. 17.

3Jacobson (1960), oltre a quella espressiva (o emotiva), riconosce altre cinque funzioni della comunicazione verbale: fàtica, conativa, poetica, metalinguistica e referenziale.

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signification on two levels […]”. Quindi, rivalutando le tipologie prese in considerazione dall’autrice e pensandole in italiano, si capisce che siamo di fronte a un linguaggio “figurato” nel vero senso della parola, cioè un linguaggio non letterale per l’appunto, da cui bisogna dedurre uno o più significati, o riferimenti nascosti, che superano il primo livello superficiale di significazione. Si potrebbe a questo punto concludere che il traducente più corretto di expressive language nel testo di partenza sia nel testo di arrivo “linguaggio figurato”. In realtà, non ho optato per questa scelta poiché in tal modo avrei paradossalmente sminuito e “disperso” il campo di riferimento dell’autrice; ho scelto, invece, quella che potrebbe sembrare una traduzione letterale, ovvero linguaggio espressivo, che sicuramente racchiude tutto ciò che è insito nel linguaggio inteso come comunicazione, inclusa l’idea di più livelli di significazione che possono avere le parole. Data la scelta traduttiva finale potrebbe sembrare vano il ragionamento fatto in precedenza, ma in realtà ritengo sia stato fondamentale cominciare la riflessione partendo da un concetto che è più volte ripetuto e che si comporta nel testo proprio come una parola chiave che, se pienamente assimilata e compresa, riesce a garantirne la giusta chiave di lettura e, di conseguenza, l’approccio traduttivo più esatto.

Anche il secondo caso in analisi è costituito dall’accostamento di un aggettivo con un nome, ovvero translatorial strategies. L’aggettivo

translatorial salta subito all’occhio, perché ci si aspetterebbe la più comune

locuzione translation strategies, espressione pienamente adottata nell’ambito della teoria della traduzione da studiosi e traduttori professionisti per indicare le scelte traduttive compiute dal traduttore nella lingua di arrivo, ampiamente esplorate dai più grandi teorici della traduttologia, tra questi Schleiermacher e Venuti.4

In inglese, il termine translatorial è, dal punto di vista morfologico, un aggettivo derivato dal nome translator, quindi specificamente riferito a tale nome, cioè specificamente alla figura del traduttore. Infatti, ricercando il lemma nel Collins English Dictionary, si legge la seguente descrizione: “of or

4Autori, rispettivamente, di Sui diversi metodi del tradurre (1813) e di Translation Studies

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relating to a translator of languages or to their work”. È il caso di precisare che tale aggettivo non si trova in tutti i dizionari, ad esempio nell’Oxford English Dictionary non è presente l’entrata translatorial. Tutto ciò possibilmente testimonia una bassa occorrenza e diffusione del termine nell’inglese medio ma anche nel “traduttese”5 in generale.6

Nella lingua italiana, non è presente un aggettivo corrispondente, quindi derivato dal nome traduttore, ma si usa l’aggettivo “traduttivo”. Inizialmente, ho pensato di introdurre nella traduzione il termine “traduttoriale” – di cui tra l’altro si riscontrano pochissimi usi informali, soprattutto in siti e blog non ufficiali sulla traduzione – per cercare di non disperdere l’idea precisa che l’autrice intende comunicare e che, di fatto, ha specificato in una nota nella parte introduttiva del testo, nella quale spiega che

“The word translatorial is deliberately used in the phrase translatorial strategy throughout this book, rather than the more common translation strategy. The reason for this is that it places the emphasis on the translator and on the translator’s decision-making process”.7

È la stessa Epstein a dire chiaramente in tale nota che si tratta di un sintagma meno comune di translation strategy e che la sua scelta è stata fatta consapevolmente al fine di sottolineare l’importanza del processo decisionale del traduttore nella sua traduzione. Dopo aver valutato, come ho già spiegato, l’idea di usare il termine “traduttoriale”, ho infine optato per il più classico “traduttivo”, ovvero l’aggettivo che tendenzialmente occorre con la parola “strategia” quando si vogliono indicare le scelte fatte dal traduttore sul testo, e che quindi è una delle realizzazioni più comuni in italiano (di conseguenza, ho eliminato tale nota esplicativa dell’autrice). Tale scelta non è dovuta soltanto

5In Enciclopedia Treccani on-line: “Il modo di tradurre e la lingua usata dai traduttori che

cercano di imitare lo stile dell'opera originale, a costo di banalizzazioni e semplificazioni[…]. Si veda anche B. Osimo, La traduzione saggistica dall’inglese, p. 12. Qui usato per indicare genericamente “il gergo”dei traduttori.

6Ciò trova conferma attraverso una ricerca delle due locuzioni in Google e confrontando i risultati: per “translatorial strategy” risultano solo 134 risultati, di fronte ai 57800 di “translation strategy”.

7B. J. Epstein, Translating Expressive Language in Children’s Literature. Problems and

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alle riflessioni sull’uso e sulla diffusione del termine, ma si tratta di una decisione fondata sul fatto che in italiano “traduttive” è un aggettivo che risulta comunque efficace in termini di resa traduttiva poiché veicola l’idea della responsabilità del traduttore nella scelta delle strategie. Al contrario, ritengo che l’uso del termine “traduttoriale” avrebbe appesantito eccessivamente il testo.

Passando ad altri aspetti, è bene sottolineare che esistono delle evidenti dissimmetrie tra i testi specialistici in lingua inglese e quelli in italiano – come mostrano le classificazioni di Dardano e Gräser (si veda il paragrafo 2.5), specificamente tra testo “scientifico ufficiale” e specialist and technician – anche nei casi in cui si riconosce una sovrapposizione, per lo meno teorica, tra due o più di essi. Infatti, i testi specialistici in inglese sono in generale più semplici e di più facile fruizione rispetto a quelli in italiano e, nel particolare, i testi con fini didattici, come i manuali di studio, in inglese hanno un’impostazione più pedagogica e meno scientifico-teorica di quelli in italiano. Questi ultimi sono quindi di più difficile lettura e sono caratterizzati da continue digressioni teoriche. Di fatto l’inglese tende a costruire il discorso in maniera più concreta e immediata, e l’italiano invece è caratterizzato da maggiore complessità, formalità e astrattezza. Tale dissimmetria dei registri deve essere tenuta in considerazione e deve essere evidenziata anche nella traduzione. Nel caso del testo di Epstein si ha a che fare con un tipo di testo che nel complesso tende a semplificare l’esposizione e ad avvicinarsi al lettore.

Nella traduzione, ho però tenuto molto in considerazione l’aspetto di testo orientato al lettore, mantenendo un linguaggio e un registro che rispettassero l’espressività e il contenuto dell’originale e che allo stesso tempo si adattassero al destinatario costituito sia da traduttori esperti, sia da studenti. Tuttavia, ho scelto di non eliminare le caratteristiche specifiche dell’originale, cercando di non intaccare la sua chiarezza, funzionalità ed efficacia espositiva. Ad esempio, si veda il seguente brano tratto dalla traduzione, dove, pur

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concentrandomi ovviamente sull’accessibilità e sulla resa del testo in italiano, ho mantenuto stile, struttura e ritmo dell’originale:8

3) Tranne certi casi situazioni in cui alcuni esempi di linguaggio espressivo sono condivisi dalla cultura di partenza e da quella d’arrivo (SC e TC), inclusi i collegamenti, la conservazione del linguaggio espressivo spesso è una strategia impossibile. Generalmente un traduttore dovrebbe sostituire la parola, la frase o il brano (delle volte con un normale testo, delle altre con una diversa tipologia di linguaggio espressivo); tradurre letteralmente (e perdere così ogni connotazione), eliminarli e/o spiegarli. Un altro aspetto riguardante la traduzione è che il linguaggio espressivo può essere impiegato non solo per un esempio specifico, ma per la sua stessa natura: una particolare allusione, una frase idiomatica, o qualunque altra cosa, può essere meno rilevante del fatto stesso che tale allusione o frase idiomatica siano usate. Questo può far sì che i traduttori in certi casi scelgano un’allusione qualsiasi, o una frase idiomatica piuttosto accessibile o simile, una di quelle che i lettori nella cultura d’arrivo capirebbero ma su cui non si rifletterebbero più di tanto.

Tale esigenza di chiarezza, che è tipica dei testi divulgativi, si manifesta nel libro attraverso l’inserimento di immagini tipiche della lingua comune e di espressioni del tipo in othter words, in a broad sense che io ho costantemente riportato in traduzione (in altre parole, in altri termini, in un certo senso). A proposito del registro, vorrei aprire una parentesi sullo stile personale dell’autrice, la quale di tanto in tanto si concede degli spazi di espressività personale e soggettiva con conseguenti abbassamenti di registro. Questo aspetto dello stile si può notare, ad esempio, nel capitolo 5, quando l’autrice dice:

4) “And if allusions might be a way for the author to show off or feel intelligent […]”9

8B. J. Epstein, Translating Expressive Language in Children’s Literature. Problems and

L

Inoltre, l’impiego di un registro più colloquiale da parte dell’autrice appare evidente anche nell’uso di verbi più tipici dello stile neutro-informale, per esempio, oltre allo stesso phrasal verb show off dell’esempio 4), ancora nello stesso capitolo, il verbo get.

5) [...] which means that there may be quite a number of associations that English-speaking readers get that readers in other countries cannot and do not.

Per questi due esempi specifici ho scelto di usare una strategia diversa, perché da un lato si tratta di una sorta di ironia che l’autrice lascia trasparire nel testo e che, a mio avviso, deve percepirsi anche nella traduzione, dall’altro invece è proprio un tono un po’ più colloquiale che potrebbe considerarsi superfluo ma anche inadatto alla formalità e al tono generale del discorso e che quindi ho evitato di riproporre nella traduzione.

Dopo il registro, possiamo adesso considerare più da vicino questioni di testualità, la morfosintassi, gli usi verbali e la modalità. Gli interventi che ho compiuto nella traduzione a livello del testo sono principalmente tre: ho cercato di attenuare le ripetizioni; di ridurre le giustapposizioni esplicitando i nessi tra le diverse proposizioni e, dove necessario, creandone di nuovi; ho rielaborato i periodi seguendo la tipica struttura non marcata della frase italiana.

Per quanto riguarda il primo punto, l’originale si caratterizza per una continua ripetitività di alcuni termini ed espressioni, anche all’interno dello stesso periodo, dovuta ad un principio di chiarezza e univocità referenziale che muove l’autrice. Inoltre, questo può essere un modo per introdurre concetti nuovi e facilitarne l’apprendimento da parte del lettore. Nella traduzione ho cercato il più possibile di eliminare tali ripetizioni lessicali provando a non intaccare il criterio dell’univocità referenziale, a meno che nel testo non vi fossero particolari intenti retorici, sostituendoli con un sinonimo adeguato al contesto o, molto più spesso, ricorrendo a rinvii 9Nella traduzione: “E se le allusioni possono essere un modo con cui l’autore si dà delle arie o sfoggia tutto il suo sapere […]” (p. 63).

LI

anaforici e unendo due o più frasi giustapposte in cui tali termini si ripetevano. Si veda il seguente esempio dove si confrontano una parte dell’originale inglese e la rispettiva traduzione in italiano:

6) This chapter discusses the translation of names in children’s literature. It