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3. Ricerca-azione sulla riorganizzazione di un Dipartimento Chirurgico

3.7 Benessere, aspettative, preoccupazioni degli operatori sanitari: variabili di studio

3.7.8 Commitment organizzativo

Nella letteratura si possono trovare diverse definizioni di organizational

commitment, ognuna delle quali risulta da ricerche apparentemente svolte in autonomia

(Summers, 1993). Lo studio di questo costrutto ha impiegato i ricercatori per quasi mezzo secolo e, ancora oggi, non si è giunti a condividere una definizione. Mowday, Steers e Poter (1982) hanno esaminato i vari approcci distinguendo tra quelli che considerano il commitment in termini di manifestazioni comportamentali (Behavioral Commitment) e quelli che lo analizzano in termini di atteggiamenti (Attitudinal Commitment). L’attenzione del mondo scientifico si è concentrato su questo ultimo aspetto, visto che l’atteggiamento lavorativo può comprendere fattori importanti come l’attaccamento al lavoro, la fedeltà all’azienda (Cohen, 1993), aspetti focali per la vita di un’organizzazione.

Mowday et al. (1979) considerano il commitment organizzativo “uno stato

d’identificazione dell’individuo con una particolare organizzazione; l’accettazione dei valori e degli obiettivi dell’organizzazione; l’impegno a raggiungere tali obiettivi e il desiderio di mantenere la propria membership all’interno dell’organizzazione”. Si tratta

quindi di un’attiva adesione alla vita lavorativa, che non può che giovare al clima e alla produttività dell’azienda.

De Cotiis e Summers (1987), a loro volta, propongono una definizione di

commitment sottolineando due aspetti importanti: l’interiorizzazione degli obiettivi e dei

valori dell’organizzazione e il coinvolgimento in un ruolo organizzativo contestuale a tali obiettivi e valori.

Il commitment organizzativo si configurerebbe, in altri termini, come quel processo mediante il quale gli interessi individuali si esplicano nel compimento di modelli di comportamento sociale ed organizzativo, che verrebbero assunti dagli individui, in quanto percepiti proprio come corrispondenti ai propri interessi ed ai propri bisogni.

Allen e Meyer (1990) si sono dedicati ad una rassegna attenta e critica sull’argomento declinando il commitment in tre dimensioni:

• commitment affettivo (attaccamento emozionale);

• commitment normativo (senso di obbligo morale nei confronti dell’organizzazione);

• commitment continuativo (relativo alla percezione delle conseguenze negative derivate dalla perdita del lavoro).

Le persone con un forte commitment affettivo, per esempio, rimangono con l’organizzazione perché lo desiderano, hanno piacere ad esserne membro. Esso concerne la dimensione emotiva del commitment organizzativo, pertinente all’identificazione dell’individuo con il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione, ai suoi valori ed ai suoi fini. La letteratura in merito tripartisce gli antecedenti del commitment affettivo in caratteristiche dell’organizzazione, caratteristiche dell’individuo ed esperienze lavorative. Nel primo caso si tratta degli aspetti strutturali ed operativi del contesto aziendale; nel secondo caso le caratteristiche lavorative dell’individuo comprendono le caratteristiche attitudinali e demografiche e, infine, le esperienze lavorative riguardano il trascorso professionale dell’individuo ed i compiti svolti nel contingente.

Quando prevale questo tipo di commitment “gli individui restano nell’organizzazione perché lo vogliono” (Meyer & Allen, 1991).

Le persone con un forte commitment normativo sono quelle che si sentono obbligate a rimanere. Esso è definito come “l’impulso percepito dall’individuo ad agire in

modo da perseguire gli obiettivi e gli interessi dell’organizzazione, poiché egli ritiene che ciò sia la cosa giusta da fare da un punto di vista etico” (Wiener, 1982).

In altre parole, l’impegno con il quale il lavoratore si prodiga oltre quanto prescritto dalla propria posizione professionale sarebbe allora lo specchio di un impegno morale, percepito come inalienabile e doveroso. In tal caso, gli antecedenti del fenomeno sono legati alla sfera delle pressioni sociali (aspettative del gruppo di riferimento, cultura organizzativa, ecc…), agli investimenti effettuati dall’organizzazione a favore dei propri dipendenti che ne esaltano gli obblighi morali ed etici e all’esistenza di un contratto psicologico tra individuo ed organizzazione, basato sull’insieme di norme tacite che si crede regolino una certa relazione. Quando prevale questo commitment, “gli individui restano nell’organizzazione perché si sentono obbligati”.

Coloro che dimostrano, infine, un forte commitment di continuità sono le persone che ne hanno bisogno.

Infatti, il commitment continuativo, o di convenienza, come viene altrimenti definito, rappresenta la volontà di un individuo di permanere in un organizzazione per i costi percepiti per l’uscita dalla stessa. I principali antecedenti di questo particolare legame sono stati individuati nella convinzione che il soggetto sviluppa circa l’assenza di alternative occupazionali fruibili o, piuttosto, nei costi non sostenibili delle alternative stesse.

Se prevale questo commitment “gli individui restano nell’organizzazione perché ne hanno bisogno”.

Ogni persona può sperimentare le tre forme contemporaneamente, ma la predominanza di una sulle altre porta ad uno stato psicologico sostanzialmente diverso.

La natura delle relazioni organizzative, sia quelle tra dipendenti, sia quelle tra i singoli e l’azienda, è cambiata considerevolmente in questo periodo ed è fondamentale capire le ragioni alla base di questo cambiamento. Oggi come allora c’è la convinzione che il commitment svolga un ruolo fondamentale sia dal punto di vista dell’organizzazione sia da quello dei dipendenti.

Per i lavoratori che vivono l’organizzazione quotidianamente il commitment nei confronti del lavoro e dell’azienda rappresenta una relazione positiva che può potenzialmente aggiungere significato alla propria vita lavorativa, ad esempio incrementare il valore percepito della qualità del proprio lavoro; per l’organizzazione avere un elevato e diffuso commitment tra i dipendenti significa ottenere un plusvalore dato da performance più elevate e dalla riduzione del tasso di assenteismo.

Tra le conseguenze positive si potrebbero riscontrare la riduzione del tasso di assenteismo e di turnover volontario, l’incremento della performance, l’aumento del benessere del lavoratore e lo sviluppo di comportamenti di cittadinanza organizzativa discrezionali e non prescritti. Le conseguenze negative del commitment organizzativo riguardano invece aspetti prettamente legati allo sviluppo di un’obbedienza cieca e acritica dell’individuo verso la propria organizzazione, alla dedizione all’azienda, a scapito della dimensione familiare e relazionale del lavoratore e allo sviluppo di competenze poco flessibili.

Il commitment organizzativo non è la soluzione per ogni conflittualità intraorganizzativa, né, tantomeno, l’unico antecedente di comportamenti dannosi per il lavoratore e per il contesto sociale in cui l’individuo vive e l’organizzazione opera. Sembrerebbe quindi auspicabile un livello medio di commitment organizzativo, ovvero una sorta di tasso fisiologico di attaccamento all’organizzazione che induca benefici netti sia per il soggetto “committed”, sia per l’impresa nella quale opera.

La descrizione del concetto di commitment fin qui proposta è la più conosciuta e quella su cui la letteratura in materia si è più a lungo soffermata.

Meyer, Becker e Vandenberghe (2004) hanno evidenziato l’importanza del ruolo del commitment come antecedente della motivazione. Hanno sviluppato un modello teorico integrativo dei due costrutti, i quali sono stati storicamente studiati sempre in modo separato, ma che per le loro analogie emerse attraverso gli studi presenti in letteratura, essi hanno ritenuto opportuno integrarle, affermando che il commitment può essere considerato come una delle forze energetiche che attivano il comportamento autodeterminato.