Abbiamo già fatto riferimento alla problematica relativa alla distinzione tra norme extrapenali integratrici e norme extrapenali non integratrici, parlando di eterointegrazione con riferimento proprio al ricorso a parametri esterni alla fattispecie penale, parametri che possono essere ricondotti a due differenti
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categorie: una prima, detta integrazione sistemica, è quella che si instaura fisiologicamente tra la norma incriminatrice e le disposizioni contenute nella Parte Generale del codice penale, posto che queste ultime svolgono un importante ruolo servente delle prime, completandone il significato dei singoli precetti e della disciplina degli effetti che ne derivano.
Tale particolare tipologia di raccordo, però, si può instaurare anche tra singole fattispecie incriminatrici, nel caso in cui queste si trovino in un rapporto di specialità o, come detto da alcuni Autori, di sussidiarietà o di consunzione, con la conseguenza che ciascuna di queste norme punitive contribuisce a delineare l’ambito di applicazione delle altre.
Altra forma di integrazione è quella detta esclusiva di una disposizione incriminatrice, che si concretizza quando il Legislatore si avvale di un parametro giuridico esterno ad una data disposizione al fine di definirne l’ambito di applicazione. Mentre l’integrazione sistemica è un carattere costante di tutte le norme penali, l’integrazione esclusiva è necessaria per il funzionamento solo di alcune disposizioni incriminatrici.
La trattazione della difficile tematica della
eterointegrazione ci porta, inevitabilmente, ad analizzare altri due aspetti degni di particolare importanza, strettamente collegati alla possibilità di applicare il principio costituzionale di determinatezza anche alle norme integratrici.
In primo luogo, potremmo essere indotti a pensare che ogni qual volta la disposizione incriminatrice si snodi verso norme integratrici di fonte secondaria, la sua soggezione ai principi cardine che governano il diritto penale, quale quello di determinatezza, sia preclusa dall’impossibilità, da parte della Corte Costituzionale, di sindacarne la legittimità.
Fortunatamente, i più recenti interventi da parte del giudice delle leggi ci indirizzano verso una soluzione diversa, ritenendo non possibile solo un sindacato diretto delle norme di
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origine amministrativa, limite non operante quando queste siano richiamate a completamento del contenuto precettivo della norma primaria (159). Per utilizzare le parole della Corte, quando
la disposizione di legge “trova applicazione attraverso le
specificazioni espresse dalla normativa regolamentare, i cui contenuti integrano il precetto della norma primaria, il rapporto che così si determina tra la legge e la fonte secondaria, che ne concretizza un preciso significato, consente lo scrutinio di costituzionalità” (160).
Ragionare a contrario significherebbe che solo una parte della fattispecie penale è coperta dalle garanzie di cui all’art. 25, secondo comma, Cost., mentre il resto sarebbe lasciato alle regole che vigono nei diversi rami del diritto cui attinge la disposizione incriminatrice, ben più permissive, capaci di dare ingresso a forme di c.d. “indeterminatezza per riflusso”.
Se si volesse sottoporre a critica il principio espresso dalla Corte Costituzionale, si potrebbe sostenere che questa possa porsi in contrasto con il principio di unitarietà dell’ordinamento giuridico, in quanto, se è vero che le norme incriminatrici spesso si “ramificano” verso altri rami dell’ordinamento, nei confronti dei quali non è possibile una diretta applicazione dell’art. 25, secondo comma, Cost., se si volesse assoggettare la norma richiamata ai principi costituzionali dettati per il diritto penale, si assisterebbe ad uno sdoppiamento del significato normativo a seconda che esso operi in sede penale o nel contesto normativo di origine.
Stante l’impossibilità di fare a meno di apporti integrativi del precetto penale, provenienti dall’esterno, si sono evidenziati diversi criteri, sostanziali e formali, diretti alla ricerca di modalità di integrazione della fattispecie incriminatrice compatibili con il rispetto del principio di determinatezza.
159 Corte Cost., 20 dicembre 1988, n. 1104, in Giur. cost., 1988, p. 5366. 160 Corte Cost., 30 dicembre 1994, n. 456, in Giur. cost., p. 3953.
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Nella giurisprudenza abbiamo visto essere predominante il ricorso al criterio della “sufficiente specificazione legale” delle indicazioni costituenti illecito, quale misura cui rapportare la legittimità dei meccanismi di integrazione normativa, criterio che permette alla maggior parte delle previsioni, tacciate di porsi in contrasto con il principio di determinatezza, di sopravvivere (161).
Quando l’elemento del reato è individuato dal legislatore attraverso un elemento normativo, la tecnica risulta compatibile con il principio di determinatezza alla condizione che il concetto normativo non dia adito ad incertezze né in ordine alla individuazione della norma richiamata, né in relazione all’ambito applicativo ed al contenuto di tale norma. Tale esigenza è per lo più rispettata quando la norma richiamata è una norma giuridica mentre, quando il rinvio attiene a norme extragiuridiche, il principio è rispettato quando si tratti di norme
tecniche, mentre devono essere considerati come
tendenzialmente imprecisi gli elementi individuati mediante il richiamo a norme etico-sociali.
Il principio di determinatezza esprime, quindi, un “valore di tendenza” (162), che deve essere comunque perseguito, anche
se la sua realizzazione potrà essere maggiore o minore, ma mai assoluta (163). Come efficacemente evidenziato da autorevole
161 D. NOTARO, Op. cit., Torino, 2000, p. 131. Certamente il principio di
determinatezza può indurre a escludere la legittimità sia di una normazione penale esasperatamente casistica, che esponga il rischio di necessitate integrazioni analogiche, sia di una normazione per clausole generali, ove comporti una delega alle valutazioni del giudice nella definizione dell’illecito. Così A. NAPPI, Guida al codice penale, Parte generale, II, Milano, 2008, p. 19.
162 L. FERRAJOLI, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Bari, 1990,
p. 100.
163 F. MANTOVANI, Diritto penale. Parte Generale, Padova, 2001, p. 69. La
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dottrina, posto che quello della determinatezza è un problema di “grado” (non essendo un caso che si parli di tradizionalmente di principio di sufficiente determinatezza), sarebbe preferibile accontentarsi di una complessiva certezza (dinamica) del “diritto” piuttosto che di una pressoché irraggiungibile certezza precostituita “della legge” (164).
Sulla scorta di queste problematiche acquisizioni, nella seconda parte del lavoro la nostra attenzione si focalizzerà su alcune delle ipotesi specifiche più significative, all’interno delle quali dottrina e giurisprudenza hanno dovuto riflettere circa la compatibilità tra il rinvio normativo caratterizzante la fattispecie e il principio di determinatezza, vale a dire, l’esercizio abusivo della professione (art. 348 c.p.), l’abuso di ufficio (art. 323 c.p.), l’inosservanza dei provvedimenti dell’autorità (art. 650 c.p.), tradizionalmente definita come una delle più problematiche ipotesi di norme penali in bianco, per poi dedicare la parte finale dello studio all’esame del rapporto intercorrente tra il principio di determinatezza e la colpa penale.
non nella eliminazione del soggettivismo ineliminabile, né nella realizzazione della certezza assoluta, ma solo della maggior certezza possibile.
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APITOLOI
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SERCIZIO ABUSIVO DELLA PROFESSIONESommario: 1. Profili generali. – 2. Esigenze di tutela e rispetto del
principio di determinatezza. – 3. Esercizio abusivo della professione e compimento di atti tipici. – 4. Figure problematiche: l’esercizio della professione forense. – 5. (segue) il soggetto esercente la professione medica.