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Da che cos’è costituita una “comunità”? Si potrebbe considerare semplicisticamente come “comunità” un gruppo di persone che vivono nello stesso luogo. Ma i luoghi, si sa, sono diametralmente diversi gli uni dagli altri e così anche le popolazioni che vi risiedono.

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Nell’area del Tōhoku, che costituisce una delle parti più rurali del Giappone, il legame tra le persone e i luoghi sembra possedere un forte potere ideologico. I giapponesi in generale chiamano il luogo in cui sono nati furosato. Questo termine si potrebbe tradurre come «paese natio» o «luogo natale». Molte ballate giapponesi decantano un determinato furosato come luogo di imponenti montagne, ampie vallate, boschi rigogliosi, fresche riviere e così via. Esiste una canzone intitolata Furosato, cantata da tutti gli scolari delle scuole pubbliche dal 1914 e divenuta simbolo di un’ideale comunità rurale giapponese unita. Mentre questa canzone era cantata alle vittime del disastro, in molti sono scoppiati in lacrime di commozione. L’enfasi data all’ideale di una società rurale giapponese unita persiste tutt’oggi, nonostante la maggior parte dei giapponesi risieda ormai nelle aree urbane (90%). In Giappone il rapporto tra la popolazione rurale e quella urbana è, infatti, più sbilanciato che in qualsiasi altra società moderna industrializzata. I giapponesi hanno l’usanza di ritornare ai loro villaggi natali in estate per l’ Ōbon e all’inizio del nuovo anno per l’hatsumode.

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In tempo di crisi e di incertezza, come quello che stanno vivendo le vittime del disastro, il concetto di furosato sembra avere la capacità di provvedere un’ àncora per l’animo delle popolazioni del Tōhoku. Infatti, per chi non ha mai smesso di vivere in campagna, il concetto di furosato sembra racchiudere un significato ancora più profondo. Come osserva Tom Gill 116, il disastro dell’11 marzo 2011 ha

significativamente cambiato l’ideologia del termine furosato per le migliaia di persone colpite. Chi ha perso le proprie case a causa degli tsunami, infatti, è stato costretto a emigrare in città, abbandonando la campagna natia e il proprio amato furosato. Incapaci di ricostruire la vita che avevano prima, infatti, queste comunità rurali sono state forzate ad adattarsi alla situazione presente e ad andarsene .

Altre comunità rurali, invece, sono completamente scomparse perché finite travolte dagli tsunami assieme alle loro case. Altre comunità ancora sono state costrette a dividersi per sfuggire al pericolo delle radiazioni. Infine, i cittadini di Fukushima che hanno deciso di rimanere nella prefettura - alcuni dei quali hanno abbandonato le loro case nella zona proibita attorno alla centrale, senza sapere se e quando vi faranno mai ritorno - sono oggi soggetti a svariate forme di discriminazione.

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Come spiega Ikeda Yoko 117, ciò che ha avuto luogo a partire dalle 14.46 dell’11 marzo

2011 è stata una concatenazione di quattro disastri diversi. Potremmo dividere l’evento in due parti: innanzitutto i due disastri di origine naturale costituiti da terremoto e tsunami, i quali hanno causato complessivamente circa 18,000 vittime. In secondo luogo, i due disastri di origine umana: l’incidente nella centrale nucleare di Fukushima Dai-ichi e le dicerie malevole ad esso associate (fuhyō higai) che hanno determinato svariate forme di discriminazione. La popolazione del Tōhoku che ha affrontato un quadruplo disastro è costituita per lo più da pescatori e coltivatori. Queste comunità, dopo aver perso le proprie case e i propri cari, hanno visto anche i loro prodotti banditi dal mercato e boicottati dal resto del Giappone e del mondo, a causa della paura collettiva della contaminazione nucleare.

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Tom Gill, Brigitte Steger, David H. Slater 2013, Japan copes with calamity, Peter Lang, pp.

116

201-233, Oxford.

Tom Gill, Brigitte Steger, David H. Slater 2013, Japan copes with calamity, Peter Lang, pp.

Ulrich Beck 118 , nella sua analisi del disastro di Chernobyl, notò come «l’informazione

equivale alla realtà» in caso di disastro nucleare, poiché il singolo non può con i suoi soli sensi né riconoscere il pericolo delle radiazioni (nemico invisibile) né capirlo a fondo. Negli anni ottanta, effettivamente, non si sapevano ancora con precisione le conseguenze delle radiazioni sulla salute degli esseri umani. Oggi tuttavia, grazie anche agli studi sugli effetti del disastro di Chernobyl sulla popolazione, si conoscono meglio le patologie e i problemi legati alle radiazioni. Quando ha avuto luogo il disastro di Fukushima Dai-ichi, termini esotici come «cesio» e «becquerel» sono entrati nel vocabolario delle persone comuni in Giappone - e nel resto del mondo. Molti giapponesi hanno persino acquistato dei misuratori portatili, controllando ogni giorno il tasso di radiazioni dentro e fuori la propria casa.

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Il ruolo dell’informazione (Internet, Facebook, Twitter, blog, etc.) ha drasticamente cambiato la percezione del disastro, rendendo la popolazione giapponese più consapevole dei problemi legati al nucleare. Tuttavia, tramite queste stesse fonti, anche molte voci malevole si sono sollevate a seguito del disastro. Ad esempio, Takeda Kunihiko, professore di ingegneria all’università Chubu, ha guadagnato credibilità e notorietà auto-definendosi esperto di radiazioni e pubblicando svariati libri non accademici. Takeda, infatti, ha affermato durante un programma televisivo che mangiare verdura e carne provenienti dal Tōhoku (non soltanto da Fukushima, ma dall’intera regione) sarebbe «gravemente dannoso per la vostra salute, per cui, per favore, quando vi è possibile gettateli via». In realtà, secondo il MEXT (Ministry of Education, Culture, Sports, Science and Technology, in giapponese Monbu-kagaku-

shō) i livelli di fall-out nelle parti a ovest di Fukushima non sarebbero maggiori ai

livelli registrati in alcune prefetture nel nord del Kantō (ad esempio Ibaraki e Tochigi).

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Un altro esempio di discriminazione nei confronti delle popolazioni del Tōhoku ha avuto luogo quando Tokyo ha accettato di occuparsi dello smantellamento di parte delle macerie lasciate dallo tsunami a Iwate. La città di Tokyo ha allora ricevuto circa 3,000 lamentele da parte dei suoi cittadini, che rifiutavano il trasporto dei detriti di Iwate a Tōkyo. Dicendosi preoccupati per la loro salute, gli abitanti della capitale hanno costretto il comune a non rispettare l’obbligo preso con Iwate, nonostante i detriti fossero stati ripetutamente sottoposti a verifica per controllare non vi fosse traccia di radiazioni.

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Questi eventi sembrano riflettere l’idea collettiva che qualcosa proveniente dal Tōhoku sia di per sé «contaminato» e «impuro» (kegare) più di ogni altro prodotto giapponese. Su questa scia, nei mesi successivi al disastro, le popolazioni delle prefetture di Fukushima, Miyagi e Iwate emigrarono, portando a una diminuzione del 25% la densità dell’area. Le città sulla costa colpite dagli tsunami videro, invece, la propria popolazione diminuita ben del 46%. Al di fuori delle zone evacuate, tuttavia, molte persone hanno deciso di rimanere. Nella Fukushima post-disastro, infatti, molti residenti si sono dimostrati resilienti più di altri, sforzandosi di trovare un delicato equilibrio tra il rischio delle radiazioni e le esigenze contingenti (famiglia, lavoro, etc.). Queste comunità hanno continuato così la loro vita in una Fukushima irrimediabilmente cambiata dal quadruplo disastro. Non solo a Fukushima, ma anche in altre aree colpite dai disastri, i sopravvissuti hanno cercato, e cercano tuttora, di ricostruire le proprie vite. Confrontando le diverse reazioni dei giapponesi nei confronti dei disastri e del modo di rapportarsi ad essi, si potrebbe dedurre che il senso del rischio è qualcosa di relativo, relativo alla percezione del rischio della comunità che ne è coinvolta, alla sua cultura, alle sue conoscenze e alla sua capacità di resistere ai disastri (gaman).

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Il disastro del Giappone nord-orientale ha prodotto notevoli cambiamenti nell’intera società giapponese contemporanea e, in particolare, nelle comunità del Tōhoku. Ad esempio, le religioni e le credenze religiose sembrano aver attecchito maggiormente nelle aree colpite dai disastri. Nei momenti difficili, le religioni rappresentano un aiuto spirituale per le vittime. Grazie a un credo comune, sembra essere possibile curare le proprie ferite invisibili. Nel caso delle comunità nel Tōhoku, alcune di esse sono state

Beck Ulrich 1987, The Anthropological Shock: Chernobyl and the Contours of the Risk Society,

in grado di riunirsi e riscoprire l’importanza intrinseca del furosato di cui erano state private dal disastro.

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La Cultural Affairs Agency stima che gli tsunami abbiano strappato via al Giappone - e al resto dell’umanità - ben 500 tesori nazionali, distruggendo anche diversi templi scintoisti molto noti, che erano nelle vicinanze della costa. Nathan J. Peterson 119 spiega

come una religione possa adattarsi ad un periodo di crisi, prendendo come esempio proprio lo scintoismo nelle aree colpite dallo tsunami. Anche dopo la catastrofe, afferma Peterson, lo scintoismo è riuscito infatti - in alcune località - a creare una rete che ha riunito le persone di una comunità messa gravemente a rischio dal disastro. A dimostrazione della vitalità del suo vicinato, alcuni templi scintoisti sono stati infatti ripuliti e restaurati poco dopo il passaggio dello tsunami. Le comunità locali credono che i danni riportati a seguito del disastro, abbiano reso impuri questi luoghi sacri, rendendoli inabitabili per le divinità che prima vi risiedevano. Per questo motivo, afferma Peterson, le persone pensano che i kami (le divinità) abbiano abbandonato questi templi. Per risolvere tale problema, parte delle comunità colpite dal disastro ha cercato di adattare le proprie pratiche religiose al disordine portato, ripulendo i jinja. In questi casi, le popolazioni sono riuscite a salvare la connessione tra i vicini, il legame che univa la comunità prima dell’arrivo degli tsunami, recuperando al contempo l’importante protezione dell’ujigami 120. Le difficoltà che queste comunità hanno deciso

di affrontare per ricostruire i propri luoghi sacri, sembrano indicare che nei loro pensieri il peggio sia ormai passato. Non tutti i templi sono stati però riconsacrati: molti luoghi sacri violati dagli tsunami sono stati semplicemente trasformati in edifici ordinari. Infine, altri templi ancora sono stati abbandonati a se stessi, senza un nome - quello sacro era ormai andato perduto a causa dell’impurità acquisita. Si tratta dei templi nelle aree in cui non si sa se qualcuno ricostruirà un giorno le proprie case, perché timoroso della venuta di nuovi tsunami e/o preoccupato a causa della presenza delle radiazioni. In questi casi, il danno fisico del tempio e il collasso della sua comunità hanno definitivamente dissolto la sacralità del luogo.

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Mentre l’ansietà di nuovi imminenti disastri preoccupa la popolazione del Tōhoku, i templi abbandonati sono sintomatici della disconnessione e del declino delle reti del loro vicinato. Memoriali costruiti nelle zone del disastro potrebbero promuovere l’unione delle comunità colpite, proprio quando questi legami sociali sembrano destinati a sciogliersi. Come ricorda Peterson, un altare improvvisato eretto nelle aree colpite ha spesso aiutato amici e famiglie delle vittime ad affrontare la morte dei loro cari. Che si tratti di influenze buddiste o scintoiste, i memoriali nelle aree colpite hanno dimostrato di essere strutture frutto di un bisogno spirituale immediato. Le vittime riconoscono che «non c’è modo di tornare ai giorni precedenti lo tsunami» (tsunami no

mae ni modoranai). In questi momenti difficili, diversi memento mori collocati sui

memoriali - come foto di ragazzi in divisa scolastica, vittime del disastro - possono amplificare il simbolismo dei memoriali stessi. Anche i graffiti, normalmente connessi ad atti di vandalismo, sono stati spesso accolti da parte delle vittime come segno di supporto - basti pensare ad alcuni slogan nazionalistici come Ganbarō Nihon («Forza Giappone!»).

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Un proverbio giapponese recita «le persone tornano agli dei nei momenti di crisi» 121.

Per questa ragione, dopo il disastro le Nuove Religioni (Shin Shukyō) si sono offerte come supporto per le vittime degli tsunami. Esse hanno saputo dare una rapida risposta alle immediate necessità delle comunità più colpite, offrendo loro un parziale sollievo. Ma le Nuove Religioni hanno dovuto affrontare anch’esse, come le comunità scintoiste e buddiste, l’opera di distruzione degli tsunami nei loro luoghi sacri. Affrontando l’opera di ricostruzione assieme ai loro fedeli, le comunità religiose stanno tuttora raggruppando persone, ridonando la vita ad alcuni luoghi e costruendovi memoriali per le generazioni future.

Tom Gill, Brigitte Steger, David H. Slater 2013, Japan copes with calamity, Peter Lang, 77-98,

119

Oxford.

Ujigami: divinità protettrice di un luogo designato secondo il culto scintoista. In genere una

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