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L’industria nucleare nel mondo dopo Fukushima

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L’incidente nella centrale di Fukushima Dai-ichi ha lasciato una traccia indelebile nel futuro energetico di molti paesi, in primis in Europa. L’addio al nucleare della Germania ne è stato un segno inequivocabile. Ma in Europa ci sono anche paesi, come la Francia, ancorati alla loro eredità atomica mentre, fuori dall’Europa, potenze emergenti come la Cina e la Corea vedono nel nucleare un’opportunità unica.

La Germania, che prima di Fukushima produceva con le sue 17 centrali il 23% della sua elettricità, ha formalmente annunciato il 30 maggio 2011, per voce del ministro dell’Ambiente Norbert Rottgen, la decisione di abbandonare completamente il nucleare entro i successivi 11 anni. Già l’11 marzo la cancelliera Angela Merkel aveva annunciato una moratoria di tre mesi sul prolungamento della vita delle centrali e, il giorno successivo, il blocco temporaneo di 8 dei 17 reattori del paese.

Secondo quanto comunicato il 30 maggio 2011, la Germania non riaprirà più gli otto reattori temporaneamente spenti e chiuderà progressivamente gli altri nove entro dicembre 2021. In caso di difficoltà legate alla transizione verso le energie rinnovabili, il governo si riserva però la possibilità di mantenere tre centrali attive fino al 2022. Per la cancelliera Merkel è stato un radicale cambio di direzione perché lei stessa, l’anno prima, aveva prolungato al 2036 la vita delle centrali, abrogando una norma voluta dal suo predecessore, Schroeder. Ma la posizione dell’opinione pubblica tedesca dopo l’incidente di Fukushima Dai-ichi ha costretto la premier e la sua coalizione Cdu- liberali a cambiare direzione.

«Come prima nazione industrializzata - ha detto Angela Merkel - possiamo ottenere una trasformazione verso le energie rinnovabili, con tutte le opportunità che questo apre in termini di esportazioni, sviluppo di nuove tecnologie e lavoro».

Una vera svolta alla green economy che, secondo il Ministro dell’Economia della Repubblica Federale, porterà al costo di 55 milioni di euro nei prossimi dieci anni per la sostituzione del nucleare con fonti rinnovabili, cui si aggiungeranno i 13 miliardi di euro già previsti per incentivare questo settore.

Anche in Svizzera, il 25 maggio 2011, il ministro dell’Energia Doris Leuthard ha annunciato che le cinque centrali del paese non saranno rimpiazzate quando giungeranno a fine vita: la prima, Beznau 1, chiuderà nel 2019; Beznau II e Muehlberg nel 2022; Goegen nel 2029 e l’ultima, Leibstat, nel 2034. Il governo svizzero ha stimato che il phase out avrà un costo di 3,1 miliardi di euro.

In Venezuela, invece, nell’ottobre 2010 Caracas aveva firmato un accordo con la società russa Rosatom per realizzare 4 centrali nucleari da 1.000 MW ciascuna. Tuttavia, Fukushima fa cambiare rotta al paese. Il Venezuela è ricchissimo di opzioni alternative al nucleare: idroelettrico, petrolio, gas. Così, il 16 marzo 2011, il presidente Chavez emette un comunicato:

«Ho dato ordine al Ministro dell’Energia Rafael Ramirez di bloccare tutti i piani di sviluppo del nucleare civile».

Nel 2010 anche Israele aveva annunciato l’intenzione di costruire una centrale nucleare in collaborazione con la Giordania, ma il 17 marzo 2011, in piena crisi nucleare giapponese, il premier Benjamin Netanyahu ha resa nota in un’intervista alla CNN la sua intenzione di congelare il progetto:

«Non credo che produrremo energia elettronucleare nei prossimi anni. La crisi giapponese mi ha fatto riconsiderare l’intenzione di costruire centrali nucleari. Penso che utilizzeremo il gas appena scoperto al largo delle coste israeliane ed eviteremo il nucleare».

Anche l’Austria, da sempre antinucleare, conferma nelle settimane successive all’incidente la sua scelta di non fare uso dell’energia nucleare. Lo stesso vale per l’Australia che, forte delle sue riserve di carbone e di energie rinnovabili, non sembra aver alcun bisogno dell’atomo. Il premier australiano ha affermato infatti:

«Non vedo il nucleare come parte del nostro futuro».

Anche Taiwan, sebbene da sempre sia un paese fortemente nuclearista, viene assalito da dubbi a seguito dell’incidente di Fukushima Dai-ichi. Vista la forte sismicità del paese, quanto successo a Fukushima non lascia gli abitanti dell’isola indifferenti. La Taiwan Power Company, che gestisce le tre centrali dell’isola - che forniscono il 23% dell’elettricità del paese - e ne ha in costruzione una quarta, annuncia il 12 aprile 2011 il blocco della pianificazione di nuove centrali. Tuttavia, il tema del nucleare resta caldo a Taiwan e il 2 agosto 2013, a Taipei, avviene una rissa tra i parlamentari che si apprestano a votare su una proposta che dava il via libera nuovamente a un referendum sulla realizzazione della quarta centrale nucleare nell'isola, popolata da 23 milioni di persone.

Il referendum, tuttavia, viene infine approvato e l’inaugurazione della quarta centrale viene fissata per il 10 ottobre 2014. Molti abitanti di Taiwan considerano il nucleare un inaccettabile rischio per la sicurezza dell’isola, spesso colpita da terremoti. Gli analisti sostengono, tuttavia, che rischiosi black-out sarebbero inevitabili se il quarto impianto non sarà completato.

Il 26 agosto 2013 davanti al Chiang Kai-shek Memorial Hall, cuore politico di Taipei, ha luogo una grande manifestazione per protestare contro il “Big 4”, la quarta centrale. Madri e figli insieme chiedono al governo un’alternativa sicura al nucleare. Molte stelle della televisione e più di mille bambini chiedono al governo di bloccare i piani di costruzione della centrale. Tuttavia, nemmeno questo convince Taiwan ad abbandonare il nucleare civile.

Negli Stati Uniti, invece, formalmente nulla cambia. Gli Stati Uniti hanno 104 reattori attivi e il consenso alla costruzione di nuovi impianti nucleari è confermato dall’amministrazione Obama, che nel 2010 lancia un progetto per 5 nuove centrali, poi però ridotte a 4. Tuttavia gli effetti del post Fukushima anche se minimamente, come è ovvio, si sentono. Il primo è che la utility elettrica NRG, azionista di maggioranza della prevista centrale nucleare South Texas Project (STP), ha annunciato in aprile il suo ritiro dal consorzio, cancellando 481 milioni di dollari di investimento. L’amministratore delegato David Crane ha spiegato che:

«Il tragico incidente di Fukushima ha introdotto molteplici incertezze nello sviluppo del nucleare negli Stati Uniti e ha drammaticamente ridotto le possibilità che i reattori 3 e 4 della centrale texana possano essere costruiti in tempi certi e contenuti».

Tra gli altri motivi che hanno influito su tale decisione, ci sono il basso costo dell’energia in Texas e le difficoltà finanziarie del partner che, ironia della sorte, è la

sono andate in crisi a Fukushima hanno ben 23 sorelle negli Stati Uniti, tutte ancora attive. Queste si trovano in Alabama, Georgia, Illinois, Iowa, Massachusetts, Michigan, Minnesota, Nebraska, New Jersey, New York, North Carolina, Pennsylvania e Vermont.

Anche la Russia continua sul frangente del nucleare. Il 14 marzo il direttore dell’Agenzia russa per l’energia, Timur Ivanov, ha fatto sapere:

«Quello che è successo in Giappone non ha cambiato la nostra posizione sul nucleare. Da noi è un’energia molto sicura ed efficace».

Tuttavia, nelle stesse ore il primo ministro Vladimir Putin ha chiesto ai ministri dell’Energia, delle Risorse Naturali e al capo della Rosatom, l’operatore atomico russo, una revisione «della situazione attuale del settore nucleare russo e un’analisi dei piani di sviluppo futuro». «Dobbiamo essere pronti ad agire in qualsiasi scenario», ha detto Putin.

Non sembra trattarsi, tuttavia, di un’inversione di rotta. Le centrali nucleari sovietiche , infatti, resteranno aperte: anche quelle più vecchie e insicure come gli RMBK, identiche all’unità di Chernobyl. Ma vi è la consapevolezza che le prospettive per il nucleare stanno venendo meno e che si aprono nuove strade per il gas siberiano. Si tratterebbe, dunque, di business.

Anche l’India non abbandona il nucleare, ma introduce ulteriori misure di sicurezza per i nuovi reattori. Il primo ministro indiano Manmohan Sigh ha ordinato il 15 marzo 2011 alla Nuclear power corporation of India di effettuare una revisione approfondita di tutti i reattori indiani.

Per quanto riguarda l’Unione Europea, invece, a termine di una riunione di emergenza dei ministri tenutasi il 23 marzo 2011, si è decisa l’attuazione di stress test su tutti i 143 reattori dei paesi dell’unione, includendo una «valutazione della vulnerabilità a eventi sismici, l’esposizione ad alluvioni e a eventi causati dall’uomo, con un’attenzione speciale ai sistemi di raffreddamento e di backup». Mentre Gran Bretagna, Olanda, Belgio, Spagna, Turchia, Slovacchia, Finlandia e Svezia non abbandonano l’industria nucleare. In particolare, il governo conservatore svedese ha solo di recente (5 febbraio 2009) bloccato l’uscita della Svezia dal nucleare, decisa nel referendum del 23 marzo 1980, tenutosi dopo l’incidente di Three Mile Island. Anche la Bielorussia l’11 ottobre 2011 firma un accordo con la russa Rosatom per costruire a Ostrovets la prima centrale nucleare del paese, composta di due reattori, il primo dei quali dovrebbe essere pronto per il 2017.

Infine, c’è chi continua a investire sul nucleare a lungo termine, come Cina e Francia. A ottobre 2010 la Repubblica popolare cinese aveva in servizio 4 centrali, che disponevano di 13 reattori operativi e di 2 in costruzione. La capacità di queste centrali era pari a 11.3 GW, con la quale il paese copriva soltanto l’1,8% della domanda elettrica. Si stavano, inoltre, edificando 10 nuove centrali dotate di ben 22 reattori. Il piano, annunciato nel 2010, era infatti quello di avviare la costruzione di altri 28 reattori, così da passare da una potenza di 10 GW al 2010 ad 80 GW nel 2020, per giungere infine a 400 GW nel 2050. Si trattava del più grande e costoso piano industriale per lo sviluppo nucleare al mondo. La Cina ha, infatti, un’immensa richiesta di energia, con aumenti nel comparto elettrico tra il 5 e il 6% annuali.

Il piano è stato però congelato il 16 marzo 2011 quando, a seguito dell'incidente di Fukushima, le autorità cinesi hanno posto una moratoria per la costruzione di nuovi reattori per verificare i criteri di sicurezza dei reattori in funzione e ancora in costruzione nel paese. A fine 2012 si sono delineate le vie per la costruzione di nuovi

reattori nel breve periodo: è stato infatti deciso che per il XII Piano Quinquennale (2011-2015) sarebbe stato approvato un numero limitato di reattori.

Tuttavia, dopo Fukushima, la popolazione cinese ha iniziato a nutrire seri dubbi sulla sicurezza dell’industria nucleare. Sentore di ciò sono le proteste popolari avvenute a Jiangmen, nella provincia del Guangdong, venerdì 12 luglio 2013, in cui una folla di 2 mila persone ha marciato per chiedere lo stop al progetto per la costruzione di uno stabilimento per la lavorazione dell’uranio del valore di 4,5 miliardi di euro. Il progetto dell'impianto, che appartiene alla China National Nuclear Corporation e al China Guangdong Nuclear Power Group, viene abbandonato a seguito delle proteste. Una prima vittoria che dovrebbe preoccupare non poco il regime comunista, visto che apre un insospettabile fronte ambientalista di protesta e una crepa nella rigida pianificazione nucleare cinese.

Il governo di Jiangmen aveva descritto lo stabilimento come una «vetrina asiatica per il trattamento del combustibile nucleare e la produzione delle relative attrezzature». Le manifestazioni antinucleari del 12 luglio a Jiangmen sono anche contro i progetti di costruzione di nuove centrali a 120 km da Hong Kong, nelle città di Jiangmen ed Heshan, e hanno visto la partecipazione di migliaia di persone con striscioni e cartelli no-nuke, una cosa che fino ad ora in Cina si era vista soltanto in qualche sporadico blitz di Greenpeace. Tutto ciò fa pensare che l’opinione popolare cinese possa influire notevolmente nei prossimi anni per una possibile svolta nell’industria nucleare del paese.

La Francia, invece, che con i suoi 58 reattori produce il 75% dell’elettricità del paese, non cambia rotta dopo l’11 marzo 2011. Subito dopo l’incidente l’allora presidente Nicolas Sarkozy dichiara infatti che «è ovviamente fuori questione l’ipotesi che la Francia possa uscire dal nucleare».

Tuttavia, il 20 settembre 2013, il nuovo presidente François Hollande, aprendo a Parigi la Seconda Conferenza sull'ambiente, fissa l'obiettivo di una riduzione del 50% nel consumo di energia entro il 2050, tracciando un percorso per una Francia sempre meno dipendente da nucleare e idrocarburi. Il premier francese ha spiegato che la transizione energetica «è una decisione strategica, è per fare di un problema una soluzione». Hollande ha ricordato che «la bolletta per l’energia dei francesi si avvicina ai 70 miliardi all'anno».

Dunque per la Francia di Hollande «la transizione energetica non è una scelta di circostanza, non è un compromesso, non è un negoziato». L'obiettivo, ha spiegato, è quello di ridurre il consumo di energia nel paese in modo da rispettare gli impegni presi dalla Francia per la riduzione dell'emissione di gas a effetto serra entro questa data.

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Come abbiamo visto, Fukushima è riuscita a far vacillare l’intera industria del nucleare nel mondo, insidiando dubbi e preoccupazioni nell’opinione pubblica ed obbligando gli enti a provvedere ad un sostanziale aumento delle norme di sicurezza delle centrali e, in certi casi, alla chiusura delle stesse. Se l’industria dell’atomo rimane ancora molto forte, non bisogna sottovalutare comunque questi segnali di recessione del settore a livello mondiale. Forse, un futuro in cui i paesi produrranno più Green Energy non è poi così lontano.

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Conclusioni al capitolo primo

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Il professor Junji Tsuchiya, sociologo dell’Università di Waseda, parlando della crisi che il Giappone affronta a seguito del disastro, ha richiamato alla memoria un libro intitolato Le lacrime delle mele. Si tratta di una raccolta di racconti scritti dai bambini di Aomori nel 1991, a seguito di quello conosciuto come il «tifone delle mele», che devastò intere coltivazioni di quell’area, da cui dipendevano molte famiglie di coltivatori, seminando miseria e povertà. Scrive il professor Tsuchiya:

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«I bambini delle scuole elementari capirono con i loro piccoli occhi a mandorla le lacrime di disperazione dei genitori. A loro sembravano simili a quelle mele che il tifone aveva fatto cadere. I pensieri di genuino affetto dei bambini nei confronti delle famiglie e della campagna si concretizzarono in quella raccolta di racconti. Oggi, mi chiedo cosa sia successo nel Tōhoku.

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Tre fattori sono determinanti per comprenderlo: gli effetti a livello locale, il tipo di impatto del disastro e la forza sociale di reazione e prevenzione delle calamità. Nelle zone colpite migliaia di cittadini tornano tuttora per cercare i propri cari e gli sfollati sopravvissuti cercano riparo e medicine.

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A Fukushima, Miyate e Miyagi (le tre prefetture più colpite) si calcola che 106.461 persone siano rimaste senza lavoro. Queste aree sono tra le più pescose del Giappone e, secondo le fonti locali, su 13.370 pescherecci ben 12.011 sarebbero stati danneggiati, dunque circa l’88,5%. E ancora più grave è la contaminazione radioattiva che sta avendo luogo nell’Oceano Pacifico.

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Il governo, l’industria e i Media sono filonucleari e le informazioni che trasmettono seguono questa linea. Ma nel 75% delle scuole a Fukushima i valori di radioattività superano largamente la soglia massima. E il limite delle radiazioni cui i bambini possono essere sottoposti è stato alzato da 1 a 20 millisievert all’anno, pari a quello che si assumerebbe sottoponendosi a una radiografia al torace ogni mese per un anno. Si tratta della dose massima fissata annualmente per un operaio che lavora in una centrale nucleare tedesca. Penso che dovremmo avere un senso di maggiore responsabilità socio-etica nei confronti delle generazioni future. Alti livelli di radioattività si sono registrati anche al largo della costa di Fukushima.

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La popolazione prova ora rassegnazione e delusione e sembra che i giapponesi preferiscano ignorare ciò che li circonda. Circola tra di noi la tacita consapevolezza che il Giappone non potrà mai più tornare quello di prima».

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La contaminazione radioattiva è tuttora localizzata nell’area evacuata anche se era previsto che entro i nove mesi successivi al disastro sarebbe stato ultimato il processo di raffreddamento dei tre reattori allora attivi. In realtà, questo processo rimane a tutt’oggi in corso.

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Takashi Hirose, scrittore giapponese vincitore del prestigioso premio letterario Noma nel 2007, ha commentato con queste parole il modo in cui le autorità hanno reagito al disastro di Fukushima:

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«Poco dopo l’incidente ho pensato subito che ci sarebbero state delle esplosioni di idrogeno. E’ incredibile che gli specialisti non siano stati capaci di prevederlo. Evidentemente non conoscono il reattore».

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Dall’incidente di Three Mile Island del 1979, Hirose indaga sulle centrali atomiche. Al pericolo delle centrali, inadatte a reggere l’impatto dei terremoti, nel 2010 Hirose aveva dedicato il libro Genshiro jigen bakudan («I reattori, bombe a orologeria»). La centrale che ai suoi occhi presenta i maggiori rischi è proprio quella di Hamaoka, gestita dalla Chubu Electric a Omaezaki, nella prefettura di Shizuoka. In questa zona, secondo le statistiche, si calcola che nei prossimi trent’anni ci sarà un terremoto di entità simile a quello del Tōhoku. Hirose ha affermato: