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2 LA LEPTOSPIROSI BOVINA

8. CONCLUSIONI E DISCUSSIONE

Nel 1955 Kirshneri e Maguire affermavano che il latte bovino non diluito fosse in grado di inattivare velocemente la leptospira. Inizialmente gli Autori, anche sulla base di precedenti considerazioni, pensavano che “l’agente antileptospira” probabilmente fosse legato alle caseine del latte.

Più tardi Stalheim, nel 1965, attribuì il potere litico del latte nei confronti di serovar Pomona ai fosfolipidi contenuti nel latte stesso.

In merito alla sopravvivenza di Leptospira Hardjo nel latte crudo sono stati segnalati casi di vacche infette in grado di eliminare leptospire vitali nel latte (Ellis

et al., 1976), e il latte bovino è stato considerato come mezzo di trasmissione di Leptospira Hardjo in un caso umano (Bolin e Koellner, 1988).

Sulla base delle suddette affermazioni, le sole presenti in letteratura, contrastanti e peraltro non recenti, nella presente indagine i campioni di latte crudo sono stati sot- toposti ad una preventiva PCR per Leptospira interrogans che ha comunque dato costantemente esito negativo.

La vitalità dei ceppi impiegati per l’infezione sperimentale è stata valutata mediante osservazione estemporanea dopo la venuta a contatto del microrganismo con le diverse tipologie di latte, ma soprattutto affidandosi al metodo attualmente più attendibile ovvero l’isolamento in coltura.

Non è stato possibile evidenziare leptospire vive e vitali durante tutto il periodo di conservazione delle colture.

Nessuna delle condizioni di tempo e temperatura impiegate per le prove sperimenta- li ha consentito la sopravvivenza e la successiva replicazione del microrganismo. È pertanto ragionevole supporre che il latte abbia determinato un’azione battericida efficace in tempi decisamente rapidi per azione di alcune sue componenti intrinse

che.

Gli inibitori naturali del latte con azione battericida generalmente sono rappresentati da:

- Lisozima

- Sistema Lattoperossidasi - Lattoferrina e Lattoferricina

Nel 1955 Kirschner e Maguire ipotizzavano che il danno arrecato dal latte alle leptospire avesse inizio dal cilindro protoplasmatico, proseguisse con l’aumento progressivo della visibilità della fibrilla avvolta attorno ad esso e, dopo 40 minuti rimanesse solo la fibrilla avvolta da masse di protoplasma.

Ellis (1976) affermava inoltre che la perdita di vitalità era preceduta dall’aggregazione degli organismi in grandi grumi o piccoli granuli sferici con perdita di struttura.

In effetti, in accordo con quanto riscontrato dagli Autori sopracitati, nella nostra indagine è stato possibile verificare come le leptospire andassero incontro a perdita completa della loro vitalità e motilità nell’arco di breve tempo. Infatti in un intervallo di tempo compreso tra 4-5 minuti, il microrganismo perdeva gran parte dei suoi movimenti caratteristici. Le leptospire sembravano infatti agglutinarsi, ripiegarsi su loro stesse per poi perdere il movimento di rotazione e traslazione conservando in parte solo quello di flessione.

Questo tipo di comportamento è stato riscontrato dopo l’avvenuto contatto delle colture con ciascuna delle tipologie di latte impiegato. Nello specifico il latte di asi- na è sembrato inattivare il microrganismo ancor prima del latte crudo bovino, ca- prino e del latte U.H.T. La più rapida azione del latte d’asina potrebbe essere attri- buita al maggior quantitativo di lisozima in esso presente, la cui azione antibatterica è nota. Il fatto che il latte di asina non abbia invece un quantitativo di caseine degno di nota, potrebbe permettere l’esclusione delle caseine stesse come fattori inattivanti. Il lisozima è contenuto anche nel latte bovino crudo sebbene in concentrazioni deci- samente inferiori rispetto ad altri latti.

Il lisozima è un enzima ad azione batteriolitica presente in diversi liquidi biologici (sangue, latte, saliva e secreto lacrimale) sia degli animali che dell’uomo. Dal punto di vista chimico si tratta di una glicosidasi, nota anche come muramidasi, in grado di idrolizzare il peptidoglicano, polisaccaride che rappresenta la componente princi- pale della parete cellulare batterica; questa molecola risulta costituita da unità alter- nate di acido N-acetilmuramico e N-acetilglucosamina legate tra loro da legami alfa 1-4-glicosidici. Il lisozima realizza la propria azione batteriolitica catalizzando la rottura del legame glicosidico che vede impegnato l’atomo di carbonio in posizione 1 dell’acido N-acetilmuramico (Streyer L., 1996).

Il lisozima potrebbe essere una possibile causa della perdita di vitalità del micror- ganismo anche nel latte U.H.T. per la sua relativa termostabilità. È da sottolineare però come l’azione litica del lisozima si svolga prevalentemente nei confronti dei batteri Gram positivi.

Ad inattivare le leptospire potrebbe contribuire anche la lattoperossidasi o qualche sostanza simile ad un tensioattivo cationico che inattiva il microrganismo in brevis- simo tempo. Infatti i tensioattivi cationici sono composti di ammonio quaternario che si fissano, grazie alla loro carica positiva (conferita da un azoto quaternario), al- le membrane delle cellule batteriche determinandone la rottura. Hanno testa idrofila carica positivamente e coda idrofoba che attira l’unto e lo sporco. I più comuni di- sinfettanti contenenti tensioattivi cationici sono in grado infatti di inattivare le lep- tospire in soli tre minuti (http://www.chimicamo.org).

La lattoperossidasi ha un’azione battericida ed è inattivata ad 80° C per 20 secondi. È un enzima appartenente alla famiglia delle perossidasi e avente funzione protetti- va contro le infezioni causate da microrganismi. È stato riscontrato come questo en- zima esplichi l’effetto battericida in combinazione con l'alta pressione. Oltre all’azione antibatterica, la lattoperossidasi svolge un efficace azione antivirale ed è attiva come agente antifungino. Grazie al suo ampio spettro di proprietà antibatteri- che è stato studiato anche il suo potenziale ruolo come conservante di alimenti, tra cui il latte. Sono stati condotti diversi studi su come la lattoperossidasi controlli la crescita dei batteri nel latte crudo a temperature di refrigerazione così come nel lat-

te pastorizzato (Pinelli et al., 2005).

Questo enzima è inattivato dalle alte temperature, ma nel latte crudo fresco po- trebbe risultare di notevole interesse in quanto lavora in sinergia con la lattoferrina e il lisozima, che essendo presenti in quantità elevate nel latte d'asina, potrebbero mi- gliorarne la naturale azione conservante e battericida.

Nel latte d'asina la quantità di lattoperossidasi è di circa 0,11 mg/mL (Beghelli et al., 2011; Vincenzetti et al., 2012) al contrario del latte vaccino che mostra un contenu- to molto più basso intorno a valori pari a 0,03 ± 0,1 mg/mL (Janet e Tanaka, 2007). Quest’ultima considerazione potrebbe avvalorare ulteriormente la tesi di una più ra- pida azione contro le leptospire del latte d’asina rispetto agli altri latti.

La lattoferrina è una glicoproteina chelante il ferro dotata di proprietà antimicrobi- che rilevanti. Il ruolo della lattoferrina come antibatterico è riconducibile non solo ad un’azione batteriostatica mediata dal sequestro del ferro, ma anche ad un’attività battericida che si esplica mediante la destabilizzazione delle membrane batteriche (Valenti e Antonini, 2005).

La lattoferricina è un peptide costituito da 25 amminoacidi che deriva dall’idrolisi della lattoferrina. Questo peptide inibisce lo sviluppo dei microrganismi sequestran- do il ferro necessario alla loro attività metabolica e nello stesso tempo esercita una vera e propria attività idrolitica nei confronti dei lipopolisaccaridi della membrana batterica esterna. Un peptide derivato dalla lattoferrina: la lattoferricina B, compo- sto da 25 aminoacidi e avente un pm di circa 3000 D è probabilmente la porzione attiva della lattoferrina (ottenuto per digestione pepsino-mediata della lattoferrina). Grazie alla sua natura cationica potrebbe anche avere un effetto di disturbo nei con- fronti della membrana cellulare simile ai composti dell’ammonio quaternario. Un ampio spettro di batteri Gram-negativi e Gram-positivi risultano suscettibili all’azione della lattoferricina (Bellamy, 1992).

Quest’ultima non è l'unico peptide bioattivo derivato dall’idrolisi della lattoferrina; l’altro peptide in causa è la lattoferrampina, anch’essa caratterizzata da analoghe proprietà antimicrobiche (Deber, 1996; Schiffer, 1992).

Se l’azione dovuta ai peptidi bioattivi ed al sistema lattoperossidasi presenti nel latte crudo può rappresentare un’ipotesi plausibile per l’inattivaizone di Leptospira, non può dirsi lo stesso per il latte U.H.T.

Infatti il trattamento termico al quale il latte U.H.T. viene sottoposto è tale da inat- tivare gran parte dei peptidi bioattivi eventualmente presenti, primo fra tutti la latto- perossidasi.

Il metodo U.H.T. prevede l’esposizione ad elevate temperature, comprese tra 140° e 150°C, per un tempo molto breve, da 1 a 5 secondi, seguito da un rapido raffredda- mento del prodotto, tale da ottenere una corretta sterilizzazione del latte, con conte- nute modificazioni delle sue caratteristiche qualitative (Cappelli e Vannucchi, 2005). L’azione antimicrobica del latte U.H.T. nei confronti di leptospira potrebbe essere attribuita prevalentemente al lisozima che è l’unico peptide termostabile, ed even- tualmente anche al pH.

Le leptospire sono particolarmente sensibili agli spostamenti verso l’acidità: il loro pH ottimale varia fra 7,2 e 7,4 (Faine, 1994; Farina, 2002). Il pH del latte U.H.T. impiegato si aggirava intorno a 6,7. È dunque probabile che un ambiente debolmen- te acido per il microrganismo abbia potuto far cessare la sua vitalità seppur in tempi leggermente superiori rispetto al contatto con le altre tipologie di latte.

Si potrebbe riflettere però su un dato di letteratura, nel quale si afferma che diverse proteine ricche di residui cationici e di residui idrofobici potrebbero esercitare un’azione antibatterica sia nel loro complesso sia come prodotti di degradazione (Hancock et al., 1999).

La ribonucleasi, per esempio, che catalizza l’idrolisi degli acidi nucleici, è associata alle proteine del siero. Nel latte di vacca è una proteina con basso peso molecolare (circa 13000), con pH e temperatura ottimali di reazione rispettivamente di 7,4-7,5 e 37°C e con spiccate qualità di termoresistenza tali da riuscire a sopportare i tratta- menti termici U.H.T.

E stata già studiata in precedenza l’attività microbicida della ribonucleasi sulla scor- te del modello delle defensine. Queste ultime fanno parte della famiglia dei peptidi molto simili strutturalmente alle ribonucleasi. Si tratta di peptidi cationici, con tre ponti disolfuro che ne stabilizzano la struttura; queste molecole riescono a permea-

bilizzare le membrane plasmatiche, portando a morte molti microrganismi patogeni, agendo anche a basse concentrazioni.

L’attività antimicrobica è indipendente dalle altre attività possedute dalle ribonu- cleasi, e probabilmente è da attribuire alla struttura primaria, ossia da domini ami- noacidici all’interno della proteina, oppure da singoli residui cationici abbondanti nella sequenza primaria delle ribonucleasi.

Esperimenti condotti sulla ribonucleasi sembrano confermare tale teoria (Huang et

al., 2007).

E’ abbastanza complesso immaginare come queste proteine completamente destrut- turate possano svolgere un’azione citotossica verso le cellule batteriche; sebbene la membrana delle cellule procariotiche in soluzione risulti carica negativamente, e le ribonucleasi al contrario siano ricche di cariche positive, probabilmente il primo contatto avviene per interazione di tipo elettrostatico, a seguito del quale si assiste alla permeabilizzazione della membrana, con relativa formazione di danni diffusi alla cellula che inevitabilmente giunge a morte.

Inoltre l’osservazione al microscopio di microrganismi Gram negativi venuti a con- tatto con la ribonucleasi mostra organismi riuniti in grandi grumi o piccoli granuli sferici con perdita di struttura, esattamente come per le leptospire da noi osservate e come già aveva evidenziato Ellis nel lontano 1976.

Tutte le ribonucleasi risultano essere molto efficaci, sono infatti in grado di conser- vare la loro attività antimicrobica anche se sottoposte al calore. Ciò potrebbe spie- gare il fatto che anche a contatto con il latte U.H.T., privo di enzimi con attività bat- tericida inattivati dal calore, la ribonucleasi rimanga illesa e possa agire da microbi- cida portando a morte la leptospira.

Alla luce di quanto è emerso dalla nostra indagine sembrerebbe alquanto improba- bile considerare il latte come un prodotto particolarmente pericoloso per il consu- matore relativamente alla contaminazione da leptospira.

È doveroso tuttavia ricordare in queste considerazioni conclusive il recente studio condotto presso l’Istituto Zooprofilattico delle Venezie, di cui riferito nel capitolo 4 della presente tesi, dal quale emerge come Leptospira Hardjo sia stata in grado di

sopravvivere per dieci giorni nel latte crudo addirittura a temperature di refrigera- zione (4°C) (Natale et al, 2012), in netto contrasto con quanto da noi riscontrato. È possibile ipotizzare che su tale diverso comportamento abbiano influito la diversità del ceppo impiegato, i preventivi trattamenti di filtrazione per realizzare le subcolture e le proporzioni maggiori di inoculo impiegate dagli sperimentatori, senza dimenticare le innumerevoli variabili di natura chimico fisica e microbiologica che caratterizzano e rendono di volta in volta diverso un substrato colturale come il latte crudo.

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