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Conclusioni preliminari su fenomenologia e modernità

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 107-118)

§ 1 – Antichità e naturalità

Abbiamo visto, anche se a maglie molto, forse troppo larghe, alcuni aspetti fondamentali della grammatica filosofica husserliana nella loro contrapposizione al modello moderno di sapere. E' venuto ora il momento di ritornare brevemente sui testi dell'ultimo Husserl per terminare la nostra analisi del modo in cui al loro interno sono impostati i rapporti tra la stessa fenomenologia e la modernità. Riprendiamo la conferenza del 1931 su Fenomenologia e antropologia, che abbiamo già visto essere una miniera di informazioni troppo spesso dimenticata. Al suo interno è infatti contenuta una delle poche trattazioni che Husserl dedica al pensiero antico. Sono rare nell'opera husserliana passi dedicati a una caratterizzazione dell'antichità. L'incapacità di superare le tradizionali visioni manualistiche o, alla meglio, l'interpretazione che dei testi degli antichi avevano fornito in quegli anni gli infaticabili esegeti della scuola di Marburgo, rendono spesso le osservazioni di Husserl banali e superficiali. In uno dei rari corsi che contiene al suo interno una storia della filosofia, conosciuto come Storia critica delle idee176, del 1924 l'interpretazione di Aristotele non supera l'indicazione sommaria del De anima come testo fondatore della psicologia scientifica e quella di Platone ne fa il creatore di una razionalità oggettivante. Niente a che vedere con la potenza interpretativa di Natorp o la sottigliezza ermeneutica che sarà di Heidegger. A interessarci però non è il fatto che Husserl interpreti in maniera più o meno corretta testi che forse non aveva nemmeno letto o, se lo aveva fatto, non si era certo preso la briga di controllare se le traduzioni a lui disponibili fossero o meno attendibili. Ciò che mi interessa mostrare è come Husserl inserisca l'antichità nella sua particolare visione della storia della filosofia, che – come ho cercato di sostenere nel primo capitolo di questa sezione – coincide con la storia genetica delle operazioni intenzionali che portano alla riduzione fenomenologica.

Abbiamo visto come la scienza e la filosofia greche venissero caratterizzate come il prodotto di un oggettivismo interno all'idea propria del sapere. L'incostanza e il fluire degli enti sensibili e delle presenze mondane rendono necessario rivolgere la propria attenzione a ciò che di non mutevole vi è in esse. La ricerca dell'invariante approda però all'ipostatizzazione cosale di entità che prendono il posto del mondo fenomenico come

portatori di verità. Per dirla à la Nietzsche: è stata creata la distinzione tra mondo vero e mondo falso. Tuttavia ci manca un tassello per capire sino in fondo la strategia husserliana. L'idea oggettivistica del sapere non nasce infatti dal nulla, ma trae il suo terreno dallo stesso pregiudizio che caratterizza lo psicologo del XIX secolo, come ognuno di noi: la presupposizione d'essere del mondo. Rileggiamo un passo già citato:

Lo sviluppo della modernità filosofica istituito da Descartes si distingue in modo netto da tutti gli sviluppi precedenti. Entra in azione un motivo di nuovo genere, che non intacca di certo l'ideale formale della filosofia, quello della scientificità razionale, ma il suo senso materiale e alla fine lo muta del tutto. L'ingenuità, in cui il mondo è presupposto come essente in modo evidente – come predato in modo evidente attraverso l'esperienza – va perduto: l'ovvio diviene una grande enigma. Il ripiegamento cartesiano da questo mondo predato alla soggettività esperiente il mondo e con ciò alla soggettività di coscienza in generale dà luogo a una dimensione totalmente nuova del domandare scientifico: noi la chiamiamo in anticipo dimensione trascendentale177.

Il passaggio da antico a moderno è qui delineato come un passaggio da un'assunzione aproblematica a una problematizzazione. Il moderno non viene istituito perché risolve un problema, ma perché lo crea. Seguendo una visione comune sin dal Rinascimento, Husserl interpreta il rapporto dei Greci con il mondo quasi fosse la relazione che un bambino ha con l'ambiente che lo circonda: i Greci sono degli ingenui. Ingenuità qui però ha un significato molto particolare e coincide con il non aver posto un problema, che nello specifico, è quello della presenza del mondo. Per l'antichità che il mondo si dia non è affatto problematico. La coscienza greca è tale perché “il mondo è presupposto come essente in modo evidente”. Tale caratterizzazione dell'ingenuità ellenica fa emergere il presupposto del ragionamento di Husserl. I Greci si muovono costantemente nell'atteggiamento naturale, anzi, si potrebbe quasi dire che sono l'epoca storica dell'atteggiamento naturale178. L'antichità è quindi assunta non per quello che è stata, ma per la sua capacità di ricoprire un ruolo nella storia intenzionale della stessa fenomenologia, che coincide con quello che in ogni individuo è la vita di tutti i giorni e il suo sguardo sul mondo. Husserl traspone nella storia le categorie che ha scoperto tramite l'analisi intenzionale.

177 PA, 167-8.

178 Non è un caso se l'aggettivo “ingenuo”, qui utilizzato per definire il mondo antico, è costantemente utilizzato da Husserl nel descrivere la tesi dell'atteggiamento naturale, cfr. Hua III/I, 78 / trad. it. 92.

Il moderno è di conseguenza il momento in cui il mondo diventa un problema. Si faccia attenzione: il moderno può solo porre il problema, non risolverlo. Trovarvi una soluzione è un compito che può spettare solo alla fenomenologia. Il ruolo fondamentale che la scienza galileiana e la filosofia cartesiana svolgono nella storia genetica che Husserl sta descrivendo coincide con l'aver isolato il mondo degli enti sensibili, il nostro mondo quotidiano, e averlo legato al soggetto esperiente. Tra scienza antica e scienza moderna vi è infatti questa differenza fondamentale, una differenza legata la modo con cui entrambe si rapportano alla sfera della materialità esperienziale. Nel caso dei Greci l'opposizione tra mondo vero e mondo falso si risolve nell'opposizione tra due livelli diversi dell'essere. Ad essere assunti come oggettivamente esistenti sono sia gli enti sensibili sia le entità ideali. Il mondo di Platone e di Aristotele esiste ed è stabile nel suo permanere, solo che la sua permanenza trova la propria causa prima in un fondamento che è da esso separato. Le scoperte scientifiche che portano Galilei al nuovo universo matematico sono invece il momento in cui viene a crearsi la distinzione tra l'oggettività e la soggettività. La discussione sulle comete tra il matematico pisano e Paolo Sarpi ne è un esempio fondamentale. Il punto di scontro è l'esistenza delle comete come corpi reali. Alla visione aristotelica sostenuta da Sarpi secondo cui le comete sono dei corpi indipendenti e dotati di un proprio autonomo statuto ontologico, Galilei oppone strenuamente la propria opinione – che oggi sappiamo essere erronea – secondo cui le comete non sono altro se non riflessi di luce su condensazioni di nubi179. Non ci interessa che l'ipotesi galileiana fosse o meno corretta. Ciò che invece è più importante è l'argomentazione che Galilei utilizza per sostenere la sua teoria. Dal momento che non sono se non riflessi creati dalla luce, le comete non sono fenomeni reali, ma apparenze che si creano nella facoltà sensibile dell'animal senziente grazie all'urto dei corpuscoli atomici sui sensi. Il mondo della sensibilità diviene così un mondo di apparenze, di fenomeni, un flusso cangiante di sensazioni, in cui sembra impossibile ritrovare delle costanti. Così come accade nella seconda delle Meditazioni di filosofia prima di Descartes, con il famoso esempio del pezzo di cera, laddove né le sensazioni né l'immaginazione sono in grado di fornirci una spiegazione possibile al perché, pur cambiano l'oggetto continuamente forma, fattezze, colore, odore e consistenza, noi rimaniamo convinti che quello sia un pezzo di cera. Nell'interpretazione di Husserl, questi esempi sono riassumibili sotto l'etichetta di scoperta della differenza tra qualità primarie e secondarie che, se da un lato porta all'ipostatizzazione della verità nel calcolo matematico e la sua dissoluzione in pura tecnologia, dall'altro porta all'isolamento della sfera

dell'esperienza come intrinsecamente legata al soggetto conoscente. La distinzione galileiana tra il libro della natura scritto a caratteri matematici, che sempre è davanti ai nostri occhi, e il mondo sensibile dell'esperienza percepita è la condizione di possibilità perché venga alla luce la sfera della soggettività e, con essa, vengano poste le condizioni di possibilità per ogni filosofia trascendentale.

Se questo è l'apporto positivo del moderno, che coincide con l'apertura della sfera soggettiva, è la sua soluzione a tale problema a non essere soddisfacente e a non coincidere con il livello di profondità a cui la soggettività deve essere indagata. Ciò di cui la modernità non si libera è l'ingerenza dell'atteggiamento naturale come presupposto di ogni atteggiamento teoretico nei confronti dell'indagine scientifica. La problematizzazione dell'esperienza del mondo se da un lato porta alla fondazione dell'atteggimaento trascendentale, ovvero a quello sguardo sul mondo pronto a interrogarsi sulle condizioni di possibilità della trascendenza oggettuale, d'altra parte ricade continuamente nella tentazione dell'immediato della realtà. Il moderno è, in questo senso, il regno dell'atteggiamento naturalistico e non di quello fenomenologico. L'esperienza soggettiva trova spiegazione attraverso un continuo movimento di ipostatizzazione di entità più o meno metafisiche, che le vengono poste a fondamento. Nel caso di Galilei sono quei triangoli, cerchi e quadrati che formano l'alfabeto del mondo. In quello cartesiano il cogito viene ridotto ad anima, reso sostanza e inserito in una cornice metafisica che ne oscura il senso più profondo. In Kant, che più di ogni altro, ha intravisto la dimensione trascendentale, l'esperienza trova la propria verità nell'attività di mitiche facoltà presenti nella ragione umana e la filosofia trascendentale viene nascosta sotto una coltre di sciocchezze psicologiche, che impediscono l'emergere della dimensione della soggettività. Da qui segue quello psicologismo contro cui Husserl combatte la sua strenua lotta sin dalle Ricerche logiche e che ha in Heidegger il suo nuovo rappresentante.

L'epoché fenomenologica si dimostra così il prodotto più pieno della modernità perché è l'unica pratica filosofica in grado di oltrepassare quello stato di minorità, costituito dal permanere dell'atteggiamento naturale, che regna sin dall'antichità. L'infanzia greca dell'uomo non cesserà fino a che il pensiero non sarà divenuto completamente fenomenologico, ovvero sino a che la riduzione fenomenologica non sarà la premessa di ogni atteggiamento filosofico nei confronti del mondo. Nel porsi come punto d'arrivo del processo di genesi storica la riduzione viene legittimata dal fatto che raccoglie in sé il movimento fondamentale della storia della cultura umana. Nel momento in cui il fenomenologo accede dall'io biografico alla soggettività trascendentale,

attraverso la riduzione alla pura datità, ciò che sta operando non è se non il compimento di un processo che ha nella scoperta greca della razionalità e nella problematizzazione moderna del presupposto mondano i propri momenti fondativi. L'ontogenesi filosofica individuale ricapitola e ultima la filogenesi storico-intenzionale.

§ 2 – Husserl è un moderno?

Molte cose diverse si potrebbero dire come conclusione del nostro percorso nel pensiero husserliano. Si potrebbe mostrare come, in realtà, l'analisi del pensiero di Galilei proposta nella Crisi delle scienze europee non sia quella corretta. Come troppo in fretta la scienza galileiana sia accomunata a Platone, seguendo una moda iniziata dai neokantiani, che, se nell'impianto concettuale della scuola di Marburgo, volto a ritrovare ciò che vi è di platonico nel moderno e ciò che vi è di moderno in Platone, ha un suo senso preciso, in quello di Husserl sembra decisamente meno sostenibile180. Oppure, si potrebbe agilmente mostrare come le interpretazioni husserliane di Descartes e di Kant non siano rispondenti ai testi e possano perfettamente essere intese come semplificazioni troppo sbrigative. Husserl sembrerebbe in tal modo una specie di Geisterseher che opera in un mondo tutto suo, completamente slegato da come i fatti storici si sono svolti realmente.

Una critica storiografica di questo tipo però sarebbe ben lontana dal vero. Forse sarebbe in grado di ristabilire la correttezza della calda e comoda cronistoria filosofica a cui siamo abituati, ma perderebbe completamente di vista il problema centrale. Ancora una volta (e non mi stancherò mai di ripeterlo) non è importante se l'interpretazione husserliana di Galilei, Descartes o Kant sia corretta. Ma allora, se il confronto che Husserl ha stabilito con i suo predecessori è verosimilmente fondato su giudizi approssimativi ed erronei, qual'è il suo interesse? Ripensiamo, di nuovo, a ciò che è emerso dall'analisi. Riassunto in breve, il percorso che ho cercato di delineare ci mette di fronte a un paradosso. Un paradosso della cui portata ancora non possiamo renderci conto, ma che è bene sin da ora portare alla luce e che si riassume nella risposta all'interrogativo sulla possibilità di inserire Husserl nella modernità.

Husserl è un moderno? Sì e no. Sì, perché è egli stesso a sentirsi erede della modernità e a comprendere come solo attraverso di essa la fenomenologia sia potuta nascere e svilupparsi. Tra moderno e fenomenologia trascendentale vi è infatti un punto in comune che non è e non sarà mai cancellabile, in grado di riunire Descartes, Kant e

Husserl – per quanto diversi – nella comune aspirazione a una razionalità come motore primo dell'attività umana. Sia il pensiero moderno che la riflessione husserliana hanno nella ragione e nella fondazione delle sue possibilità più proprie e specifiche il proprio fine fondamentale, a cui né la prima né la seconda sarebbero mai in grado di rinunciare. Farlo significherebbe venir meno a se stesse. Detto questo però, ovvero precisato che la comunanza scorta da Husserl tra il fine a cui indirizza le analisi della Crisi delle scienze europee (ovvero la scoperta della ragione come possibilità più propria del pensiero) e il motivo razionale che ha animato nel profondo la modernità filosofica da Bacone sino a Kant non è una mera chimera, è necessario porsi un ulteriore interrogativo, molto più profondo e importante, ovvero: quando Descartes, Leibniz o Kant parlano di ragione – per quanto diverse le loro concezioni possano essere – stanno parlando di qualcosa di anche solo assimilabile alla ragione fenomenologica?

Su un punto così delicato è però necessario spendere qualche parola in più. Ho citato nel primo capitolo una fastidiosa tendenza tanto degli allievi quanto degli interpreti di Husserl nell'interpretare il suo cammino di pensiero come un passaggio da un realismo oggettivista proprio delle Ricerche logiche a un idealismo sempre più accentuato nelle Idee sino a un radicale costruttivismo intersoggettivo degli ultimi testi. Sarebbe semplice con le premesse che ho posto mostrare come tale visione sia falsa. Allievi e studiosi si sono fatti fuorviare dal linguaggio utilizzato da Husserl, che comprende termini fortemente legati al pensiero moderno e che sembrano indicare una via semplice e facile per comprendere i suoi testi. Tra questi ha un posto di prim'ordine la parola “ragione”. Abbiamo visto quanto tale nozione sia fondamentale, ad esempio, in Kant ed è quasi di senso comune considerare il moderno e l'illuminismo come l'epoca che ha fondato la nozione corrente di razionalità181. Quando la parola “ragione” viene quindi utilizzata nel contesto delle analisi husserliane spesso non si resiste nel considerarla una sorta di residuato bellico, un peso di cui in realtà bisogna liberarsi senza pensarci due volte, che impedisce semplicemente il pieno realizzarsi della fenomenologia. Troppo poco spesso però ci si è chiesti che cosa intendesse Husserl con ragione e quali fossero i reali rapporti tra tale nozione e quella razionalità che identifichiamo con la modernità. Sarebbe forse molto più produttivo e filosoficamente interessante, invece di aggirare il problema, chiedersi ad esempio se la fenomenologia sia in grado di mostrare una nozione di ragione a cui la modernità non era giunta, se sia possibile quindi pensare a un modello di razionalità slegato da tutte quelle problematiche che il Novecento ci ha insegnato a vedere nei secoli che ci hanno preceduto. Non è certo questo il luogo adatto per una

181 Che poi si dia a questa un valore positivo come facevano i neokantiani e Husserl o negativo come faranno Heidegger e la Scuola di Francoforte non è qui importante.

considerazione di simile portata, della cui importanza chiunque non faticherà a rendersi conto. Mi limiterò solo ad alcune puntualizzazioni, in modo che il contrasto tra Husserl e la tradizione di cui pretende d'essere un erede, anzi l'erede, venga alla luce.

La ragione è il luogo della verità. In quanto tale essa trova la propria realizzazione nel momento in cui la verità viene alla luce, ovvero nel momento in cui emergono i nessi veritativi e fondazionali che strutturano il sapere. Come abbiamo già avuto modo di vedere, pensare razionalmente in Husserl non significa produrre l'oggetto del proprio pensare o sapere, ma accedere all'oggettività in sé sempre possibile182 ed essere in grado di seguire i nessi veritativi. Il ruolo della fenomenologia nei confronti della ragione è allora quello di chiarire in che modo sia possibile il vissuto stesso della verità, ovvero come è possibile accedere al vero, che soggettivamente si traduce in evidenza “dato che è l'evidenza che è costitutiva per la verità e per la vera esistenza di ogni senso che ha per noi valore”183. Questo si traduce nella necessità di esplicare i nessi di coscienza all'interno dei quali si realizza la manifestazione gli oggetti stessi in modo evidente, ovvero in modo corrispondente alla loro essenza propria. Così nel primo volume delle Idee, nella sezione dedicata proprio alla fenomenologia della ragione, leggiamo:

A ogni regione e categoria di pretesi oggetti corrisponde fenomenologicamente

non soltanto una specie fondamentale di sensi o di proposizioni, ma anche una

specie fondamentale di coscienza che offre originariamente tali sensi e, inerente

a essa, un tipo fondamentale di evidenza originaria che è per essenza motivato dalla datità originaria relativa a questo tipo fondamentale184.

Le forme di razionalità che la fenomenologia può portare alla luce sono i processi manifestativi attraverso cui il senso della verità arriva a darsi in modo originario. Ciò implica che ogni oggetto ha la sua specifica ragione, ovvero che ogni oggettualità è dotata, secondo le sue proprie caratteristiche connotanti (l'essenza), di determinate modalità di apparizione, di riferimento all'oggetto, di costituzione del proprio valore di verità e del proprio senso. Ad esempio, l'esplicazione della ragione nel caso dei giudizi

182 Cfr. Hua XIX/I, 152 / trad. it. I, 358: “In realtà è chiaro che quando affermiamo che ogni espressione soggettiva potrebbe essere sostituita da una espressione oggettiva in fondo non vogliamo dire altro se non che la ragione oggettiva non ha limiti. Tutto ciò che è, è «in sé» conoscibile, ed il suo essere è un essere contenutisticamente determinato, che si mostra chiaramente in queste ed in quelle «verità in sé»”.

183 FTL / trad. it. 269. Cfr. anche Idee I, Hua III/I, 325 / trad. it. 340: “Il vedere con evidenza, l'evidenza in generale, è dunque un evento del tutto caratteristico; nel suo «nucleo» esso è

l'unità tra una posizione razionale e ciò che per essenza la motiva [...]”.

sarà mostrare come è possibile che una sintesi predicativa ci offra un'evidenza e quindi come si strutturi il rapporto tra la messa in forma categoriale e lo stato di cose, che porta la verità a emergere come evidente. Se infatti un teorema viene dimostrato, esso mi appare nella sua evidenza incontrovertibile. Compito del fenomenologo sarà quello di portare alla luce il modo attraverso cui la dimostrazione è in grado di fornirci l'evidenza originaria del teorema, ovvero come la coscienza è in grado di manifestare il nesso veritativo tra asserzione teorematica e conseguenza dimostrativa. Nel caso della percezione invece la ragione coincide con le modalità attraverso cui l'oggetto è costituito come totalità infinita nel processo di attribuzione di senso. L'oggettualità percettiva non ci è mai data nella sua interezza e completezza. Tra fenomeno e manifestazione vi sarà sempre una differenza incolmabile che rende l'oggettualità una X mai definitivamente determinabile. I lati dell'oggetto si susseguono, scivolando velocemente l'uno nell'altro seguendo la sintesi ritenzionale e rimandando ai successivi grazie al processo

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