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L'oggetto del sapere

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 59-89)

§ 1 – La saggezza del metodo

La nascita della concezione moderna del sapere, sembra inutile ricordarlo, è costituita dalla prima delle Regulae ad directionem ingenii di Descartes. Questo testo, che grazie alle analisi dedicatevi da J.-L. Marion95, ci appare ora in tutta la sua importanza è incredibilmente rappresentativo di quale sia il presupposto concettuale fondamentale della possibilità di estendere un unico metodo (nel caso cartesiano quello analitico-algebrico) a tutto il sapere:

Nam cum scientiae omnes nihil aliud sint quam humana sapientia, quae semper una et eadem manet, quantumvis differentibus subjectis applicata, nec majorem ab illis distinctionem mutuatur, quam Solis lumen a rerum, quas illustrat, varietate, non opus est ingenia limitibus ullis cohibere96.

Non ci si faccia ingannare dall'immagine del sole, metafora che dall'antichità sino al Rinascimento è sempre stata utilizzata dalla tradizione platonica per illustrare i rapporti di dipendenza ontologica e gnoseologica degli enti sensibili dal massimo oggetto noetico97, anzi, ciò che deve essere notato è proprio lo spostamento che Descartes opera utilizzando la medesima immagine. Il sole non è più un'entità a se stante, indipendente e irriducibile a ogni pratica umana di conoscenza e da cui dipende il possesso o meno della verità: è il sapere, il conoscere, il pensare stesso a costituire quel sole sempiterno da cui ogni oggetto ottiene la propria luminosità. Ma ad essere veramente importante è un'altra caratteristica della nuova concezione del conoscere, espressa qui quasi di sfuggita, in un inciso: la conoscenza rimane una e identica “quantumvis differentibus subjectibus applicata”. Sembra naturale, quasi ovvio, che se la conoscenza è una e identica e se è questa a fornire agli oggetti i principi propri della loro conoscenza allora non faccia alcuna differenza a quale oggetto il sapere sia rivolto98. In realtà, Descartes si trova a dover precisare una

95 Marion (1975).

96 AT X, 360, sottolineatura mia.

97 Il testo fondativo della tradizione è ovviamente Rep. VI; l'immagine del sole è ripresa e utilizzata anche da Aristotele per indicare il νοῦς ποιητικός, cfr. De an. III, mettere riferimento. Sulla tradizione di quest'immagine nel Rinascimento si veda E. Garin, I culti solari in mettere riferimento.

cosa a noi tanto scontata, perché la concezione a cui andava a opporre la propria, ovvero quella scolastica di derivazione aristotelica, aveva proprio nell'oggetto il principio da cui derivava ogni possibilità di conoscenza.

Tale concezione non era, a dire il vero, un proprium della scolastica post- tomistica, ma una visione del rapporto tra sapere e oggetto che aveva le sue radici nel pensiero greco arcaico in cui conoscenza equivaleva a ricordo99. Memoria e conoscenza non erano processi distinti, ma coincidevano in una fusione per noi quasi inaccessibile in cui la creatività non era se non riproposizione e la rimembranza non era se non principio di attività creativa. La figura del cantore aedico è in questo senso emblematica nel momento in cui egli inventa ciò che si ricorda e ricorda ciò che inventa. La costruzione formulare del verso omerico mostra meglio di molte altre prove come il canto aedico non sia analizzabile né come una attività creativa né come una mera e semplice ripetizione100, ma come una forma di sapere peculiare101.

Sebbene l'identificazione parmenidea del νοεῖν con l'εἶναι costituisca sicuramente una prima modalità di espressione del principio per cui conoscere equivale ad aderire all'oggetto102, è a Platone che possiamo attribuire con certezza la distinzione netta tra le due forme di sapere, ovvero tra un modo di conoscenza che produce l'oggetto di cui si occupa e un altro che lo lascia invariato, facendosi guidare da esso. L'intera critica al movimento sofistico sottintende tale distinzione ed è volta a delegittimare la prima possibilità di ogni pretesa di validità nel fornire un qualsivoglia criterio conoscitivo. La retorica è applicabile a qualsiasi oggetto e in quanto tale non ha un oggetto proprio, il che la rende un sapere completamente inconsistente e incapace nel porsi come guida per la comunità della polis. Il sofista e il retore agiscono come un cattivo macellaio, che non segue le nervature della carne, ma la macella a caso, senza portare attenzione a quale sia il modo più proprio per farlo103. Conoscere significa invece lasciare che sia l'oggetto più alto a dettare il metodo della propria conoscenza. E' il mondo che si impone all'individuo come metro del sapere104.

modernità è il metodo a determinare l'oggetto. Cfr. più oltre parte III. 99 Cfr. Detienne (2008).

100Su questo si vedano le brillanti osservazioni di Gentili (2006). 101 Per il canto aedico come forma di sapere cfr. Havelock (2006).

102 Tanto che in Parmenide la distinzione tra sapere e verità si perde completamente in un tutto unico. Questa identificazione nel pensare di – utilizzando una terminologia moderna - “soggetto” e “oggetto” è in realtà un tratto caratteristico del pensiero antico, per il semplice fatto che gli antichi concepiscono il pensiero non come un movimento, ma come una quiete in cui non ci sono più contrari. Prendo questa osservazione dagli appunti di un corso di D.R. Lachterman tenutosi nell'anno accademico 1990-1991 dedicato alla storia della matematica; ringrazio di cuore il prof. A. Ferrarin per avermi messo a disposizione gli appunti.

103 Cfr. La celebre similitudine in Fedro, mettere riferimento e citazione. 104 Cfr. Brague (2005).

L'importanza di questa concezione platonica è incalcolabile nella storia della tradizione occidentale. Tramite la sua assimilazione nella logica aristotelica, essa è divenuta il cardine di ogni riflessione epistemologica sino al XVII secolo. Negli Analitici posteriori, pur criticando aspramente la διαίρησις platonica, la dipendenza del metodo dall'oggetto è mantenuta come principio cardine su cui si fonda la gerarchia dei saperi, che – in ultima istanza – più che una gerarchia di modelli conoscitivi è una gerarchia di oggetti del conoscere105. È su di essa che si basa il primato della πρώτη φιλοσοφία sulle altre scienze teoretiche. L'oggetto della matematica pur essendo immobile, ovvero in grado di fornire conoscenza certa perché non soggetto a cambiamento, non è separato, ovvero indipendente dal pensiero da cui viene pensato (perché ottenuto attraverso il processo di ἀφαίρησις). Quello della fisica invece pur essendo separato (la φύσις è indipendente dall'anima) non è invece immobile. Solo l'oggetto della θεολογική ἐπιστήμη è invece sia separato che immobile, ovvero è l'oggetto τιμιότατος, maggiormente degno d'onore e questo rende la scienza divina la forma di episteme più certa106. Attraverso i neoplatonici e Porfirio, l'idea di conoscenza come adesione all'oggetto passa a Boezio e da lui all'intera logica medioevale che sulle sue traduzioni e sui suoi commenti si è basata. Una visione, come quella proposta da Descartes nelle Regulae, per cui il conoscere rimane identico in ogni sua attività, prescindendo completamente dall'oggetto a cui esso è rivolto, non è quindi solo innovativa, ma del tutto rivoluzionaria. Non esistono più differenze gerarchiche tra oggetti che determinano i metodi attraverso cui essere appresi dal conoscere, ma è quest'ultimo che deve trovare in sé il metodo attraverso cui determinare gli oggetti107. I rapporti di dipendenza sono determinati dalla funzione

105 Cfr. Mignucci (1965).

106 Queste distinzioni sono operate come è noto in Metaph. E, 1-2. Su come in realtà l'oggetto della scienza prima non sia per nulla semplice da determinare si veda P. Aubenque (1962). La tesi di Aubenque, secondo cui la scienza prima sia in realtà alla ricerca del suo oggetto e che in quanto tale sia essa stessa una scienza da trovare e non già presupposta in partenza, è confermata dall'importante discussione medievale sul soggetto della metafisica. Nel momento infatti in cui i commentatori di Aristotele da Alessandro di Afrodisia in avanti tentano di applicare i canoni epistemici degli Analitici secondi ai testi della Metafisica si scontrano con l'impossibilità di principio nel determinare il genere a cui appartiene l'oggetto delle indagini metafisiche. Il τὸ ὄν ῇ ὄν infatti – come è ben noto – non è un genere e questo sembra delegittimare di ogni scientificità il sapere metafisico che si mostra come più simile a un'indagine di tipo dialettico che non dimostrativo. Nei testi medievali arabi e latini ciò si traduce in una discussione secolare su quale possa essere il soggetto di cui la metafisica si occupa. Partendo dagli arabi con Al-Kīndi per cui il soggetto della metafisica era Dio e l'indagine metafisica si risolveva in una teologia a Duns Scoto per cui il soggetto dell'indagine è l'ens qua ens sino a Suarez che include la teologia stessa nella metafisica in quanto Dio è esso stesso un ens, ponendo così le basi per l'inclusione moderna della teologia nell'ontologia. Su questo passaggio cfr. Courtine (1999).

107 Il celebre problema della nature semplici nelle Regulae è un esempio perfetto di come la gerarchia fissa e rigidamente determinabile del sapere scolastico sia impossibile nel sapere cartesiano. Si veda sempre J.-L. Marion (1975).

operativa che i diversi concetti occupano all'interno di una procedura e ciò implica la necessità che il pensiero vada alla ricerca del metodo che gli consenta di autodeterminarsi come fattore determinante della verità. In Descartes questo prende le forme di un tentativo di mostrare in sede operativa come utilizzare quell'ingegno “che è distribuito in egual misura in tutti gli uomini”. Il Discorso e i Saggi devono servire a mostrare come ognuno di noi deve produrre e determinare il sapere nel momento in cui conosce scientificamente: Descartes non sta descrivendo un oggetto, ma una procedura.

E' forse nella Critica della ragion pura che il problema del metodo trova la propria migliore espressione. La ragione kantiana è infatti l'attività mai doma di produzione di unità all'interno del molteplice delle conoscenze. Se a livello intuitivo questo trova la propria espressione nel lavorio sintetico di spazio e tempo e se a livello intellettivo l'unità trascendentale dell'appercezione garantisce dell'aggregazione unitaria delle rappresentazioni in un oggetto, a livello esperienziale la ragione organizza il sapere in sistemi attraverso idee che agiscono come ideali regolativi. Ogni conoscenza, per essere tale, deve farsi sistema, ovvero costituirsi nella forma di un tutto, che non può prescindere dalla sua forma che è data dalla ragione attraverso la posizione di fini a cui l'opera della conoscenza è rivolta108. La ragione si pone così come un architetto che progetta e costruisce, sviluppandosi essa stessa negli stessi fini da lei posti109. E' con una tale concezione alle spalle, ovvero grazie alla concezione kantiana della ragione come unità metodica di progettazione e realizzazione di sé, che Hegel potrà mostrare, al termine della Scienza della logica, l'idea assoluta come vero metodo del sapere e, in quanto tale, come contenuto più concreto del pensiero, oltrepassando la tradizionale visione per cui la metodologia è qualcosa di esterno al pensare110. L'idea non è infatti che la vita pulsante dell'autorganizzazione del concetto, che si sviluppa non a partire da una forma esterna, ma a partire da se stesso. Il metodo è lo stesso modo d'essere del pensiero.

§ 2 – Questioni preliminari ai Prolegomeni

Quando Husserl nel 1900 pubblica i Prolegomeni a una logica pura è ancora ben lontano dalla comprensione piena della portata delle sue posizioni. Le quasi trecento pagine

108 In Kant una conoscenza senza scopo è simile alla visione del ciclope. Ogni vera filosofia trascendentale deve avere realizzarsi come interprete della teleologia rationis humanae, ovvero deve avere il raggiungimento del regno dei fini come suo scopo ultimo, cfr. KrV B 867 / trad. it. 1177.

109 Sull'ambivalenza in Kant tra la metafora della ragione come architetto e la metafora organica, cfr. A. Ferrarin (2014b).

dedicate alla critica di ogni forma di riduzionismo psichico delle forme logiche sembrano a volte quasi un elenco di posizioni sbagliate e molti degli interpreti ne hanno per questo sottovalutato l'importanza. Quasi nessuno ha invece colto l'operazione fondamentale che ne è il cuore pulsante111. Come spesso è accaduto nel caso della fenomenologia husserliana, il primo colpevole di questa dimenticanza è Husserl stesso, che nelle reinterpretazioni successive delle Ricerche logiche ha sempre cercato di minimizzarne il valore, per lasciare emergere l'importanza di altri testi, specialmente le Idee del 1913. Si è così creata la retorica del “manifesto della fenomenologia”, che vede nelle Ricerche uno stadio nucleare e infantile di qualcosa che avrà poi il suo fiorire in testi successivi.

Una simile prospettiva è al contempo vera ed erronea. E' sicuramente vera nel momento in cui nelle Ricerche logiche la nozione stessa di fenomenologia è molto lontana dall'approdo trascendentale a cui Husserl giungerà tra 1905 e 1907112. E' erronea perché fa del concetto di fenomenologia il centro della trattazione e la cosa più importante a cui rivolgere la nostra attenzione di lettori, creando così un alone buio intorno a tutte le questioni che porteranno Husserl stesso a problematizzare la nozione stessa di fenomenologia e a farla diventare una delle questioni principali del suo pensiero. Delle Ricerche logiche non si leggono se non quelle sezioni in cui si scorgono delle prefigurazioni del lavoro analitico degli anni successivi e di certo i Prolegomeni non sono la sezione più frequentata113.

Il ritornello più frequente della letteratura husserliana è quello che ripete incessantemente come l'importanza delle Ricerche logiche sia nella scoperta del principio fenomenologico zu den Sachen selbst!, contenuto nell'Introduzione alle sei ricerche. Quest'espressione, che nulla è più che un motto e un'esortazione programmatica, viene presa come la cifra esplicativa di ogni pensare fenomenologico, senza accorgersi che il tempio verso cui ci si sta dirigendo a recare offerte è spoglio e privo di idoli, creando così la sensazione straniante di una comunità di studiosi in adorazione di un altare vuoto.

A mio parere, esprime molto meglio l'intenzione di fondo che anima l'intero testo delle Ricerche logiche una breve frase posta nella Prefazione. È collocata in un contesto particolarmente insolito, dal momento che si trova a conclusione di una breve parentesi autobiografica. Il testo che è secondo forse solo alla Scienza della logica di Hegel nel suo tentativo di isolare ed escludere la psiche individuale da ogni trattazione filosofica si apre

111 Bisogna qui ricordare in positivo il bel lavoro di M. Scherer (1969).

112 Sull'evoluzione del pensiero husserliano dopo le Ricerche logiche l'opera più completa è sicuramente Lavigne (2005).

113 A dire la verità questo è un errore dei soli interpreti, di cui Husserl non ha colpa. A più riprese egli è infatti tornato a sostenere l'importanza dei Prolegomeni e delle acquisizioni ivi ottenute contro il riduzionismo psicologista, cfr. Phänomenologische Psychologie e FTL, mettere riferimenti.

invece con un racconto dell'autore sui motivi personali e biografici che lo hanno condotto alla necessità di scrivere su un tema di così grande attualità. Il motivo storico è facilmente comprensibile. Il così detto Psychologismusstreit impazzava ormai da anni nei paesi di lingua inglese e tedesca, coinvolgendo studiosi dei campi più disparati, dalla filosofia alla fisiologia all'antropologia114. Husserl era all'epoca uno sconosciuto professore di Halle che annoverava tra le sue pubblicazioni una monografia sull'aritmetica (il cui impatto non era stato a dire il vero molto positivo, la famosa recensione di Frege è eloquente al riguardo) e qualche recensione. E' comprensibile che volesse farsi conoscere e mostrare l'appropriatezza del suo presentarsi come nuovo partecipante in quell'aspra contesa115.

114 Su tale discussione si veda S. Poggi (1977). Per un'introduzione meno approfondita e più chiara al dibattito ottocentesco sulla logica si veda M. Ferrari (2003).

115 Sarebbe qui necessario fare un'ulteriore precisazione. La Prefazione alla Ricerche logiche non costituisce solo una autobiografia, ma è la sola testimonianza esplicita del legame tra gli studi matematici di Husserl e la concezione della logica avanzata nei Prolegomeni. In questa sede non posso nemmeno accennare alla questione del rapporto tra la fenomenologia husserliana e la matematica, tema anche questo che viene o trascurato o limitato a uno studio dei primi lavori di Husserl. Manca completamente nella critica anche il semplice riconoscimento delle somiglianze di alcune concezioni algebriche affermatesi nei decenni precedenti alle Ricerche

logiche con la posizione husserliana e quindi l'appartenenza della fenomenologia a quello che,

utilizzando un eufemismo potrei definire, un comune clima intellettuale. Si pensi a un testo poco conosciuto, ma fondamentale come i Beyträge zu einer neuen Darstellung der

Mathematik di B. Bolzano che si conclude con una delle più aspre critiche alla concezione

kantiana della matematica come costruzione del concetto nell'intuizione. Bolzano rifiuta in toto la concezione per cui al pensiero matematico si associ un'attività di produzione di immagine da parte del soggetto. L'immagine che spesso si delinea nella nostra mente quando pensiamo a un numero o a una figura geometrica è solo un'associazione casuale, dovuta all'abitudine del soggetto psichico individuale, priva di alcun ruolo nella creazione dell'oggetto matematico e della sua validità. Questa concezione è alla base della visione dei numeri come fondati su classi insiemistiche che sta alla base dei Paradossi dell'infinito. Quest'ultimo è un testo centrale per Husserl per due motivi distinti. Il primo è che I Paradossi dell'infinito sono una delle fonti principali di Cantor, che – insieme a Weierstrass – è il riferimento matematico principale di Husserl, e della sua scoperta del transfinito. Il secondo è che I paradossi dell'infinito erano il testo letto da F. Brentano in quelle celebri lezioni viennesi del 1885-6 frequentate da Husserl e che lo convinsero della possibilità ancora esistente di una filosofia scientifica, cfr. su questo E. Husserl, Erinnerung an Franz Brentano in Hua. XXVII.

Bolzano in realtà è solo un esempio. Il tentativo che il testo bolzaniano sottende è infatti quello di distaccare l'oggetto della matematica dalla procedura attraverso cui questo diventa oggetto del conoscere. Tale tentativo di emancipazione dell'oggetto dalla procedura è infatti comune non solo a Bolzano, ma può essere rintracciato anche nella teoria delle funzioni di Du Bois- Reymond e nel nuovo concetto di limite di Weierstrass, per cui il limite ottiene una valenza ontologica stabile e non è più il processo di un'operazione di differenziazione tra i due estremi della variabile dipendente di una funzione; su questo cfr. P. Zellini (1993). L'esposizione più completa e filosoficamente interessante che conosco della matematica tra la scoperta della geometrie non euclidee e la teoria einsteiniana della relatività è lo splendido lavoro di L. Boi (1995). Come avrò modo di illustrare l'intento dei Prolegomeni è esattamente il medesimo e se, come ho intenzione di sostenere, la concezione del sapere ivi esposta è fondativa non solo nei confronti di una nuova logica, ma anche della stessa fenomenologia credo che la questione del rapporto tra il pensiero di Husserl e la matematica dovrebbe essere maggiormente problematizzata rispetto a quanto fatti sino ad ora. Su Husserl e la matematica i migliori libri che conosco sono F. Dentoni (1977); C. Sinigaglia (2000), che oltre a contenere un'ottima esposizione tecnica, ma chiara dei rapporti tra Husserl e Riemann illustra in modo veramente convincente perché il problema del rapporto tra Husserl e Kant non possa essere posto se non a

Dopo aver raccontato come siano state le difficoltà teoriche incontrate nello studio degli oggetti matematici a mostrargli la necessità di venire in chiaro sui fondamenti logici delle operazioni del sapere, Husserl descrive – in un passo vibrante di drammaticità personale – il problema centrale in cui era incorso nello scrivere la Filosofia dell'aritmetica116:

Ma non appena si passava dai nessi psicologici del pensiero all'unità logica del contenuto del pensiero (all'unità della teoria), non poteva emergere alcuna continuità e chiarezza. Tanto più mi tormentava il dubbio di principio su come fosse compatibile con una fondazione psicologica del «logico» l'oggettività della matematica e di ogni scienza in generale. Veniva così messo in questione tutto il mio metodo, basato sulle convinzioni della logica dominante, secondo cui ogni scienza data avrebbe dovuto essere portata a chiarezza logica mediante analisi psicologiche; mi vidi spinto in misura crescente verso riflessioni critiche di ordine generale sull'essenza della logica ed in particolare sul rapporto tra soggettività del conoscere ed oggettività del contenuto della conoscenza117.

Quest'ultima espressione – il rapporto tra soggettività del conoscere ed oggettività del contenuto di conoscenza – può sembrare poco importante, anzi quasi banale. Sin dalla sua nascita il pensiero filosofico ha sempre cercato di rintracciare l'invariante nella

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 59-89)

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