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Heidegger e il principio fenomenologia

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 119-168)

§ 1 – Il principio fenomenologia

Il nome Martin Heidegger non è né quello di un filosofo né corrisponde a un pensiero, ma è il titolo di un problema. Un problema ineludibile. Sarebbe semplice identificare tale problematica con quella ontologica, riducendo l'eredità intellettuale lasciataci con il problema dell'essere. Oppure, se volessimo rispondere a quella pallida vocazione civile che molti interpreti heideggeriani hanno riscoperto negli ultimi anni, si potrebbe dire che il “problema Heidegger” coincida forse con la sua adesione al partito nazionalsocialista. In entrambi i casi saremmo molto lontani dal vero. Forse qualcuno potrà rimanere sdegnato da quanto detto. “Ma come!? - si potrebbe dire – quello che è considerato uno dei maggiori filosofi del Novecento europeo ha aderito al movimento politico più aberrante e sanguinario della storia e questo non ci dovrebbe portare a riflettere sulle implicazioni etiche e morali della sua riflessione!?”. Una simile considerazione è del tutto comprensibile, oggi più di ieri, dopo l'uscita dei così detti Quaderni neri, in cui viene espressa un'esplicita presa di posizione antisemita. Se in precedenza si poteva ancora discutere sull'adesione di Heidegger all'ideologia nazionalsocialista, ora che questa sembra dimostrata nella sua componente più orribile niente pare più rilevante che ricordare come egli non fosse altro che un nazista e come ogni sua asserzione filosofica debba essere letta sullo sfondo della sua partecipazione al fascismo delle camice brune. Il “problema Heidegger” sembra coincidere in tal modo inequivocabilmente con la sua partecipazione al nazionalsocialismo hitleriano e al culto del Führer o, almeno, così sembra.

La relazione con il fascismo non costituisce però la vera problematicità insita nel pensiero heideggeriano, quanto la sua componente scandalosa. L'adesione al nazismo non è il “problema Heidegger”, ma lo “scandalo Heidegger” , che in realtà agisce solo e soltanto perché il nostro senso comune tende ancora a identificare il filosofo con il saggio, con una figura moralmente elevata, senza invece riflettere sul fatto che quasi un'intera generazione tedesca fu presa dalla psicosi collettiva che si tradusse nell'ammirazione per l'opera politica di Hitler. Personaggi come H.-G. Gadamer e O. Becker sono stati colpevoli quanto Heidegger di aver aderito o, quantomeno, di non

essersi opposti esplicitamente all'ideologia nazionalsocialista. Lo stesso Husserl, che spesso e volentieri – a causa dei drammi subiti dovuti alla sua appartenenza alla così detta razza semitica – viene contrapposto ad Heidegger come il filosofo dell'Europa unita e libera, non era certo fautore di una politica contraria alla reazione fascista. Di lui si potrebbe dire ciò che Hannah Arendt ebbe a dire di Leo Stauss ovvero che se non fosse stato ebreo sarebbe stato nazista. Dalla capacità intellettuale non derivano necessariamente comportamenti morali ineccepibili. La conoscenza, che per noi moderni coincide con l'apprendimento di un vero che non è investito di nessuna carica etica perché da sempre separato dal buono, non è fautrice di moralità.

Inoltre, i commenti seguiti all'uscita dei Quaderni neri ha messo in evidenza un altro pregiudizio del senso comune nei confronti del nazismo e, potrei dire, del fascismo in generale. La preminenza dei Quaderni su altri testi altrettanto scandalosi è loro assegnata per la presenza di frasi definibili, utilizzando un eufemismo, come compromettenti, con cui Heidegger inserisce e giustifica l'antisemitismo come componente fondamentale per l'uscita dalla metafisica, identificando l'ebraismo come componente essenziale del platonismo metafisico. Se nessuno intende negare la gravità politica, morale e storica di tali asserzioni (che, è doveroso ricordare, Heidegger non ha mai sconfessato), ciò non deve però far mai dimenticare che il problema reale del nazionalsocialismo non fu lo sterminio del popolo ebraico. L'Olocausto, nel suo essere la totale rinuncia della ragione umana a se stessa, non è la premessa concettuale del nazismo, ma una sua conseguenza. Un suo tanto terribile quanto consequenziale risultato. All'interno di un'ideologia che si fonda in maniera inequivocabile sull'ineguaglianza tra gli uomini, sulla distinzione tra gruppi socialmente differenti basata su di una differenza economica o su di una pretesa distinzione biologica, sulla violenza come metodo di separazione tra le diverse categorie sociali, la Shoah è una conseguenza incredibilmente coerente.

E' da questo punto di vista incomprensibile una presa di posizione come quella di Strauss in una lettera all'amico Karl Löwith, in cui esprime da ebreo il suo disprezzo per il nazismo solo nella misura in cui questo sposa l'ideologia antisemita193, senza rendersi

193Cfr. L. Strauss, Oltre Itaca. Sicuramente Strauss risponderebbe che non si può fare di tutto il fascismo una reductio ad Hitlerum (cfr. Diritto naturale e storia) e che non si può invalidare una modalità di pensiero, un ideale politico solo perché la sua realizzazione storica ha assunto le fattezze dell'abominio omicida. Forse Strauss avrebbe dovuto portare più attenzione al fatto che niente nell'ideologia fascista sconfessa in modo radicale ciò che è avvenuto in Germania dopo il 1933. Una simile risposta comporterebbe la necessità di un approfondimento sulla coerenza storica degli ideali politici con cui abbiamo a che fare che qui non è il caso di affrontare. Mi sia solo concesso fare una precisazione. A quanto ho detto in precedenza, si potrebbe facilmente ribattere che la repressione, la segregazione, la violenza su minoranze e oppositori non sono certo un tratto tipico del solo regime nazista, ma di tutti i regimi totalitari

conto che l'emarginazione e l'oppressione dei gruppi sociali considerati inferiori è un tratto caratterizzante dell'ideologia fascista. Il fascismo deve produrre e mantenere la diseguaglianza, altrimenti non avrebbe ragion d'essere, e la Shoah ne è la drammatica conseguenza. Il fatto che a essere presi di mira siano stati gli ebrei (anche se bisognerebbe ricordare sempre anche le stragi di zingari, omosessuali e l'eccidio a cui fu sottoposta l'etnia slava durante l'operazione Barbarossa) è il risultato potrei dire quasi casuale di un pensiero che faceva (e che disgraziatamente fa ancora) della differenza tra gli uomini la propria bandiera.

Il momentaneo interesse di Heidegger verso una teoria filosofica che riuscisse a includere in sé anche una sorta di giustificazione teorica dell'antisemitismo non può quindi essere considerato la pietra dello scandalo, quanto una conseguenza più o meno necessaria dello schieramento politico a cui aveva deciso di aderire. Heidegger tenta goffamente di inserire pregiudizi di lunga data, confluiti nell'odio fascista contro gli ebrei, all'interno della sua riflessione, producendo quello che a fatica potrebbe essere definito

del Novecento. La Cina di Mao, La Jugoslavia di Tito e, più di tutti, l'Unione Sovietica di Stalin hanno mostrato come non solo da destra, ma anche un pensiero di stampo marxista e comunista possa portare all'annichilimento di determinate fasce sociali politicamente scomode (come è accaduto con i Kulaki nella Russia di Lenin e Stalin). E' innegabile la crudeltà dell'arcipelago gulag insieme all'incredibile brutalità dei suoi scopi e certo non è mio intento giustificarlo. Vorrei semplicemente limitarmi a far notare come una realizzazione storica simile non presupponga un'identità tra l'ideologia fascista e il pensiero comunista. Identificarle come ideologie distruttive del presunto sancta sanctorum della società aperta, e per questo rifiutarle entrambe, sarebbe un grave errore di prospettiva (un errore della cui portata i moderni partiti socialdemocratici, nati dal dissolvimento politico del comunismo mondiale, ancora non si sono voluti rendere conto). Nulla nel pensiero marxista e comunista giustifica in modo sostanziale anche una soltanto delle gocce di sangue versate nei gulag o nelle foibe. Il terrore staliniano non è e non potrà mai essere giustificato all'interno di un pensare che fa dell'eguaglianza sociale e dell'annullamento di ogni disitnzione di classe il proprio fine ineludibile. Se quindi chiunque si riconosca in tale ideale può sempre e comunque provare sdegno e ribrezzo per ciò che di terribile è stato compiuto in nome del comunismo (si veda lo spaesamento dei prigionieri politici condannati dal tribunale del popolo nell'U.R.S.S. di Stalin, cfr. M. Merleau- Ponty, Umanesimo e terrore), chi invece continua a credere nella necessità di una sostanziale diseguaglianza sociale o naturale (il fascista) - se ha veramente riflettuto su quelli che sono gli assunti della sua personale ideologia politica -, non potrà interamente condannarli. Certamente potrà criticarne modi, tempi, mezzi, entità ed obiettivi, ma solo come un impiegato critica costruttivamente il lavoro di un collega: non per cambiarlo, ma per renderlo più efficiente o più accettabile per un'opinione collettiva ormai fortunatamente incline a condannare (almeno pubblicamente) la violenza. E si potrebbe a questo punto chiedersi, riproponendo un antico problema stoico: quando un insieme di pagliuzze diventano un mucchio? Quanti cadaveri devono giacere davanti a noi perché da una serie di efferate violenze si passi all'ecatombe e al genocidio? Come scrisse in tempi travagliati Elio Vittorini (un autore che dalla moderna socialdemocrazia liberale e da una critica letterari sempre pronta a salire sul carro del vincitore viene trattato al modo di un “fascista di sinistra” per il semplice fatto che non ha voluto mettere sullo stesso piano chi ha combattuto dalla parte della libertà e chi invece da quella dei treni piombati, rifiutando così di fare della lotta partigiana una semplice guerra civile tra schieramenti tanto opposti quanto equivalenti) al mondo esistono individui in grado di rendersi conto dell'importanza che l'umanità ha per se stessa e altri che invece non vi riescono: al mondo esistono uomini e no.

più di un aborto intellettuale. Il lato scandaloso della filosofia heideggeriana non sta nell'antisemitismo presunto, ma nel fatto che l'individuo Heidegger (e non la sua filosofia194) abbiano aderito al nazionalsocialismo. Se quindi lo “scandalo Heidegger” non smetterà mai di costituire uno dei lati più oscuri dell'intera vicenda biografica del filosofo di Meßkirch, non è in questo che il “problema Heidegger” deve risolversi. La piccolezza e la meschinità dell'uomo non devono e non possono affossare la profondità del pensiero.

Se la problematica che corrisponde al pensiero heideggeriano non può in modo evidente essere ridotta alla vicenda biografica dell'adesione all'ideologia e al partito nazista, più complesso è mostrare come e perché il “problema Heidegger” non debba essere risolto nella tematica ontologica. Un discorso sull'essere che sia aldilà delle modalità tradizionali di comprensione è stato sin dall'inizio il cuore vitale del pensiero heideggeriano e fornisce ad esso la propria specifica caratteristica. Da qualsiasi lato si tenti di osservare l'attività filosofica di Heidegger veniamo sempre e comunque ricondotti al riconoscimento della tematica ontologica come fondamentale e come centro intorno a cui gravitano tutte le altre. La temporalità, la storicità, il mondo, l'esserci, la storia della filosofia come metafisica, la questione della tecnica e la critica all'ontoteologia hanno nella tematizzazione dell'essere come “cosa del pensiero” il proprio minimo comune denominatore. Il pensiero di Heidegger appare sempre di più come un monismo concettuale.

Bisogna a questo punto riconoscere che proprio l'aver ricondotto la totalità del pensare all'interpretazione dell'essere (cioè, in ultima analisi, della temporalità) e l'aver riconosciuto l'intero corso del pensiero occidentale come il prodotto di una precisa e determinata, ma non ultimativa interpretazione ontologica hanno permesso ad Heidegger il ripensamento globale della tradizione che è stato l'obiettivo del suo intero itinerario195. D'altra parte però il rimanere confinato nella mera riflessione sulle sole basi ontologiche della storia della filosofia gli ha impedito di scoprire una via veramente autentica e nuova per oltrepassare quella tradizione di cui aveva scoperto i limiti. Il suo discorso è ed è rimasto un discorso sull'essere. Prova ne sono i disperati tentativi di sforzare – a mio giudizio con poco successo – il linguaggio della tradizione, attraverso un'intera serie di accorgimenti grafici come la scrittura altotedesca Seyn o il Sein crociato. Non è possibile oltrepassare il pensiero tradizionale sull'essere continuando a portare avanti l'opzione fondativa della tradizione ovvero che sia proprio l'ontologia il perno centrale del pensiero. Su questo Heidegger non è diverso da nessun pensatore dal Medioevo in avanti.

194Su come la filosofia heideggeriana si opponesse in realtà su molti punti e, specialmente, sull'interpretazione di Nietzsche si veda G. Vattimo (1980).

195Per un'illustrazione complessiva del pensiero di Heidegger si vedano Pöggeler (1991) e Richardson (1993).

Se quindi l'essere è il cavallo di Troia che ha permesso ad Heidegger di penetrare il pensiero così a fondo come nessun altro, esso non può costituire la strada per uscire da quegli stessi problemi che ha portato alla luce. Continuare a pensare l'essere significa rimanere in una tradizione, in un linguaggio che ci impedisce di vederne i limiti. Prova ne sono gli epigoni del pensiero heideggeriano, tutti in coro a ripetere il mantra della differenza ontologica e a chiedersi come possa l'essere allora entrare in contatto con l'ente, singolarizzarsi e puntualizzarsi in un determinato ente, quasi il pensiero di Heidegger dovesse essere risolto attraverso il principium individuationis. Lo heideggerismo di scuola raggiunge esiti terribilmente simili a quelli ottenuti dalla metafisica analitica: un discorso su entità che non sono entità, sul loro modo di relazionarsi e tentennamenti vari sul metodo attraverso cui giungere a un miracoloso evento di comprensione. Il sentiero iniziato da Heidegger, se rimane ancorato all'ontologia, deve essere interrotto e non più proseguito.

Né il nazismo né l'essere costituiscono quindi la risposta al tema indicato, laddove ci poniamo il “problema Heidegger”. Ma allora qual'è? Cosa dobbiamo pensare quando pensiamo a Martin Heidegger? A mio giudizio ciò è stato espresso nel modo migliore da Strauss in una testimonianza in cui descrive le motivazioni che avevano spinto l'amico J. Klein, di cui avrò modo di parlare a lungo, ad appassionarsi ai corsi di Heidegger su Aristotele:

Klein alone saw why Heidegger is truly important: by uprooting and not simply rejecting the tradition of philosophy, he made it possible for the first time after many centuries – one hesitates to say how many – to see the roots of the tradition as they are and thus perhaps to know, what so many merely believe, that those are the only natural and healthy roots … Above all, his intention was to uproot Aristotle: he thus was compelled to disinter the roots, to bring them to light, to look at them with wonder196.

Strauss, come Klein prima di lui, ha visto in maniera molto più lucida di interpreti e imitatori che la grandezza più autentica del pensiero di Heidegger, e con essa il problema più profondo che portava in sé, era la necessità non di rigettare la tradizione, ma di sradicarla, di mostrarne gli assunti, di evidenziarne i presupposti di base e portarla a chiarezza. Non siamo di fronte a un Descartes o un Bacone che, nella loro infinita arroganza e nel loro autentico disprezzo per la filosofia degli antichi, la rigettavano senza nemmeno porsi il problema della sua possibilità. Un nuovo inizio per i moderni non si

presenta in modo problematico anzi, lo hanno di fronte nella forma della nuova scienza della natura, dei nuovi continenti scoperti, della nuova algebra e del nuovo mondo sociale che si andava creando intorno a loro. L'immagine con cui per decenni la filosofia cartesiana è stata descritta, ovvero quella del “rifare tutto da capo, del ricominciare da zero” che troviamo nelle Lezioni di storia della filosofia di Hegel, nelle Lezioni monachesi di Schelling e nei testi dei neokantiani, non è affatto adeguata alla riflessione heideggeriana per il semplice fatto che la possibilità di un inizio qualsiasi, nuovo o vecchio che sia è divenuta problematica. In nessuno dei testi di Heidegger appare disprezzo per gli autori che analizza. Da quelle pagine traspaiono invece cura, dedizione, precisione analitica, raffinatezza ermeneutica e come le lunghe ore passate a leggere e rileggere i capolavori della storia della filosofia. Per quanto sia stato Heidegger stesso a evidenziare la necessità di fare violenza al testo197 raramente capita di leggere interpretazioni così accurate e profonde, dettate non da un desiderio di confutare, ma di portare alla luce la verità concreta e reale dei testi presi in considerazione. Quando Heidegger analizza un autore, sia questo Aristotele, Kant o Platone, l'intento non è quasi mai quello di trovarvi un problema irrisolto che possa così sancire la superiorità dell'interprete, ma di scoprire la dimensione più nascosta e profonda di ciò che quel testo ci pone di davanti. D'altronde non potrebbe essere altrimenti in un contesto in cui pensare è essenzialmente un ripensare, ovvero in cui ogni passo in avanti è fatto riaffondando in ciò che la tradizione non è mai riuscita a pensare. O, meglio detto, riflettere significa per Heidegger venire veramente in chiaro su ciò che ci permette di pensare e come tale non è mai stato pensato. La celebre Überwindung der Metaphysik è in questo senso una vera e propria autocoscienza che la tradizione ha di se stessa e della necessità che i concetti in essa impliciti vengano completamente esplicitati, portando così alla dissoluzione delle forme tradizionali di episteme filosofica.

Nella realizzazione e nello sviluppo storico di tale opera di ripensamento la formazione fenomenologica di Heidegger ha svolto un ruolo essenziale. Sia durante la piena adesione al movimento fondato da Husserl sia in seguito al suo esplicito distacco ciò che potremmo chiamare il “principio fenomenologia” ha svolto un ruolo essenziale nella riflessione heideggeriana. Con tale espressione intendo indicare una delle poche caratteristiche in cui forse potrebbero riconoscersi tutti i componenti della galassia fenomenologica: l'imperativo negativo di non coprire il fenomeno con i concetti.

Prendiamo figure molto diverse tra loro come Husserl, Heidegger e Derrida. In questi tre casi (in due dei quali gli autori considerati si sono sentiti in dovere a un certo

punto di annunciare il proprio distacco dal movimento fenomenologico vero e proprio) la fenomenologia assume significati molto diversi. A fare la differenza è in primo luogo la nozione di fenomeno. In Husserl, come ormai sappiamo, quando si parla di fenomeno si intende qualcosa di plurivoco, che può però essere riassunto dall'informazione con cui ogni esperienza da noi compiuta ci appare come dotata di senso. L'esperienza della fenomenicità è la comprensione evidente, ottenuta tramite la riduzione trascendentale, delle strutture di coscienza necessarie affinché il mondo assuma un senso. Manifestazione coincide così con l'apparizione dotata di senso a partire dal processo di costituzione che ha luogo nella vita trascendentale della soggettività, che funge da origine di ogni attività. Proprio il rifiuto di qualsiasi pensiero dell'origine è il motivo che sta alla base del pensiero di Derrida e che gli dà, a mio modo di vedere, una posizione di incredibile privilegio all'interno della storia del pensiero fenomenologico. Con la decostruzione ha scorto il presupposto concettuale su cui ogni altro pensiero, fenomenologico e non, si era sempre fondato: il presupposto della necessità di un'origine198. La radicalità di questa scoperta si mostra nel momento in cui viene alla luce la storicità di ogni idealità concettuale. Ciò che è valso filosoficamente da sempre come puro, originario, atemporale, superiore e che per questo si è preteso principio del tutto, viene in realtà istituito da ciò che esso stesso pretende di aver creato. La scrittura e il rifiuto che del suo ruolo nella costruzione degli oggetti testuali si è fatto dal Fedro platonico in poi costituiscono così l'emblema del movimento interno a tutto il pensare. Una coppia di opposti che convivono come un superiore e un inferiore, come un sovrano e un subalterno, in cui il primo vuole affermare con tutte le sue forze la propria supremazia, senza rendersi conto dell'azione di istituzione del secondo199. Il fenomeno che il filosofare deve portare alla luce è allora l'effetto di Nachträglichkeit, l'azione a ritardo sul dominante della componente esclusa. Ciò si realizza nel continuo movimento di differenziazione di opposti concettuali e di costante differimento del senso nella coppia

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