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Il fenomeno del sapere

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 89-107)

§ 1 – Un'ambiguità fondamentale

La totale indipendenza del contenuto oggettuale e della sua verità rispetto al processo cognitivo che forma la spina dorsale dei Prolegomeni e di tutta la concezione husserliana del sapere, porta inevitabilmente con sé il compito di mostrare come sia possibile a un soggetto finito accedere all'oggettività. Se infatti la validità oggettiva dell'oggetto non si esaurisce nel processo cognitivo, la fenomenologia deve essere in grado di mostrare quelle strutture che pongono la coscienza nella condizione di esperire o di asserire un vero che non sia un mero prodotto di una sua qualsivoglia attività costruttiva. Tale necessità implica però uno sdoppiamento, una frattura interna all'oggetto. Se infatti questo da un lato viene necessariamente alla luce come manifestazione di coscienza, dall'altro lato non può essere interamente ridotto alle sue modalità di apparizione. Ciò rende in sé aporetica e problematica la stessa nozione di manifestazione o fenomeno, dando vita a una dialettica interna che costituisce uno dei punti chiave delle riflessioni di Husserl.

E' la quinta ricerca a far emergere tale problematica in modo esplicito, nonostante essa fosse già presente e operante sin dalla prima:

Non si insisterà mai abbastanza sull'equivocazione che consente di designare

come fenomeno non soltanto il vissuto nel quale l'oggetto si manifesta […], ma

anche l'oggetto che si manifesta come tale. L'inganno di questa equivocazione scompare immediatamente non appena ci si rende conto fenomenologicamente di ciò che dell'oggetto che si manifesta come tale sia realmente reperibile nel vissuto della manifestazione. La manifestazione delle cosa (il vissuto) non è la cosa che si manifesta […]. Noi «viviamo» le manifestazioni come appartenenti al nesso di coscienza, mentre le cose ci si manifestano come appartenenti al mondo fenomenale. Le manifestazioni stesse non si manifestano, esse vengono vissute153.

Il linguaggio ordinario su cui si erige il lessico specifico dello psicologismo confonde, nel momento in cui utilizza il termine Erscheinung, due entità differenti: ciò che si presenta nelle manifestazioni con queste ultime. Tra le due vi è una differenza radicale e di principio, che rende impossibile ogni riduzione del contenuto della mia esperienza alle modalità ostensive attraverso cui l'esperienza lo presenta. In questo modo la distinzione sembra complicata, ma in realtà è molto semplice. Prendiamo ad esempio la percezione che offre i casi più chiari. Nel momento in cui ascolto la Pastorale di Beethoven l'oggetto della mia percezione è sicuramente, sembra quasi ovvio dirlo, la sesta sinfonia. Con i suoi quattro movimenti, essa forma un'unità oggettuale ben definita, con i temi e i momenti di passaggio da un tema all'altro, tutte caratteristiche queste che le pertengono come unità oggettuale autonoma. Eppure nel momento in cui la ascolto, ciò che odo non è l'unità oggettuale “sesta sinfonia”. Ogni volta ho percezione di una singola e determinata nota, che poi scompare per lasciare il posto alla successiva, che di nuovo scompare sostituita da una nuova e poi ancora, sino alla nota finale. Le singole note nella loro successione seriale costituiscono le manifestazioni dell'unità oggettuale “Pastorale di Beethoven”, che in esse appare e diviene oggetto per me. Se quindi il succedersi delle apparizioni costituisce un momento fondamentale nella costituzione dell'oggetto (non potrei nemmeno distinguere un'unità oggettuale se le note mi fossero date tutte insieme, creando – invece della sesta sinfonia – un orribile guazzabuglio sonoro), quest'ultimo non è e non può essere ridotto alle proprie manifestazioni.

Sembra questa una distinzione ovvia e senza conseguenze. Anzi, quando si cerca di illustrare la fenomenologia a partire da essa, l'unica cosa che si ottiene dagli ascoltatori sono sorrisi di condiscendenza. Ciò avviene perché spesso e volentieri non ci si rende conto di quanto il pregiudizio legato alla perfetta identità o corrispondenza dell'oggetto con i dati di sensazione sia stata pervasiva e onnipresente nel pensiero moderno, specialmente in quelle correnti che comunemente vengono definite come empiristiche. Si prenda ad esempio il Saggio sull'intelletto umano di Locke e la teoria ivi esposta della distinzione tra idee di sensazione e idee prodotte attraverso la riflessione della mente. Nel primo caso ci troviamo di fronte a dati nucleari e particolari che vengono rielaborati dalla mente nella formazione di oggetti. Questi sono il prodotto di un'attività compositiva della mente, svolta seguendo determinate regole, che portano alla formazione dell'unità oggettuale. Ciò implica che l'oggettualità sia riducibile a quei dati di sensazione da cui è scaturito. Prendiamo ora una forma diversa di empirismo. Ne La costruzione logica del mondo il progetto di Carnap è quello di fornire i principi epistemologici di base perché la

realtà possa venir espressa in un linguaggio logico rigorosamente formale, permettendoci così una trattazione scientifica e filosoficamente rigorosa di ogni oggetto realmente accessibile alla nostra conoscenza. In questo contesto con conoscenza rigorosa si intende la possibilità che ogni stato di cose trovi espressione all'interno di un linguaggio formale di pertinenza scientifica e venga così inserito all'interno di un contesto concettuale che ne possa statuire la rilevanza funzionale154. Eventuali concetti che non possano trovare espressione compiuta in un linguaggio formale devono essere esclusi, prova ne è la violenta polemica carnapiana contro Heidegger e la sua nozione di nulla come ni-ente. L'intero progetto di Carnap ha la sua base fondamentale su un presupposto, ovvero sul fatto che vi sia corrispondenza netta tra gli oggetti e gli enunciati, il che si traduce nella possibilità di tradurre i dati di sensazione in enunciati sui dati di sensazione, che a loro volta possono divenire enunciati sugli oggetti. La costruzione logica del mondo implica che il mondo sia perfettamente trasferibile all'interno del linguaggio formale, dando vita a una corrispondenza perfetta tra esperienza e linguaggio. La nozione husserliana di fenomeno invece o, meglio, l'ambiguità fondamentale che Husserl riconosce nell'uso comune della parola “fenomeno” esclude di principio ogni riduzione dell'oggetto al dato ed impedisce che l'esperienza sia intesa come un insieme componibile di dati di sensazione. Il fenomeno esiste nella forma di una sovrabbondanza ineludibile rispetto alla sua manifestazione155.

Lo spettro che si delinea all'orizzonte è a questo punto ancora una volta quello del necessaria ammissione di una componente costruttiva all'interno dell'esperienza. Kant aveva infatti avuto buon gioco contro Locke e qualsiasi altra forma di filosofia che riduceva l'oggetto a un mero aggregato a partire da rappresentazioni semplici nel mostrare come quella stessa attività che portava all'unificazione delle sensazioni non poteva essere un prodotto della stessa esperienza, ma le doveva essere presupposta. Questo è uno dei sensi in cui va letta la più che celebre frase : “Ma sebbene ogni nostra conoscenza cominci con l'esperienza, non per questo essa deriva tutta quanta dall'esperienza”156. L'empirismo si scontra inevitabilmente con la necessità di presupporre strutture mentali o

154 Da questo punto di vista ci sono delle importanti somiglianze tra Carnap e Natorp, cfr. M. Ferrari (2003).

155 Cfr. Hua XIX/I, 488 / trad. it. II, 174: “L'appercezione è per noi l'eccedenza che sussiste nel vissuto stesso, nel suo contenuto descrittivo, di fronte all'informe esserci della sensazione, si tratta del carattere d'atto che, per così dire, anima la sensazione e per sua essenza fa sì che noi percepiamo questa o quella oggettualità, ad esempio, vediamo questo albero, udiamo quel tintinnio, sentiamo il profumo dei fiori, ecc.”. Si rammenti che l'appercezione non fa parte semplicemente dei processi percettivi, ma è la modalità attraverso cui un senso ideale qualsiasi viene a coscienza, anche per quanto concerne gli atti linguistici; cfr. Hua. XIX/I, / trad. it. I, 341-4.

concettuali che non è in grado di spiegare, ma che deve assumere per permettere lo svolgimento delle funzioni cognitive del soggetto. La soluzione kantiana non è però accettabile nel momento in cui fa della verità, dell'oggetto della conoscenza un prodotto della sintesi immaginativa dei concetti, procedimento che riduce il vero alla procedura con la quale è ottenuto. Se Kant avesse ragione l'intero impianto del sapere husserlianamente inteso verrebbe meno.

Evitare la necessaria deriva costruttiva, che sembrerebbe procedere quasi di necessità dal rifiuto della nozione empiristica di conoscenza, implica in primo luogo una ridefinizione delle componenti cognitive degli atti linguistici. Se infatti l'intera conoscenza ottenuta attraverso gli enunciati fosse riducibile a un gioco segnico interno alla mente il linguaggio non avrebbe nessuna possibilità di valere come porta di accesso a una conoscenza concettuale dell'idealità oggettiva e l'accordo intersoggettivo tra gli individui sarebbe garantito semplicemente dall'utilizzo delle stesse strutture linguistiche. Nell'atto comunicativo, ovvero quella che Husserl denomina come espressione (Ausdruck), devono quindi essere distinte diverse componenti che ci permettono di riferirci, attraverso segni, a entità valide oggettivamente. Un'espressione è di conseguenza l'unità fenomenica di tre atti ben distinti, ovvero di tre modalità di coscienza che devono essere mantenute rigorosamente separate. Il fenomeno linguistico nella sua componente materiale, il senso oggettivo e ideale dell'espressione e il riferimento oggettuale157. Ogni parola, ogni frase è un composto di segni che si presentano a noi come un insieme di dati percettivi: posso ascoltare una parola nel momento in cui questa mi arriva come complesso fonico o posso leggerla nel momento in cui mi si presenta come grafema. Nella vita di tutti i giorni non ci accorgiamo della distinzione essenziale tra la parola come complesso fonico o grafico e il suo significato, perché viviamo continuamente nella coscienza di significato: siamo sempre nella dimensione del “voler-dire”158. Se però veniamo messi di fronte a un insieme di segni di cui non conosciamo il significato ci rendiamo immediatamente conto della loro differenza. Prendiamo la traslitterazione di una parola araba: “baīt”. Conosciamo i segni e siamo anche in grado di leggerla, eppure il suo significato – a meno di conoscere l'arabo classico – ci sfugge. Significante e significato, per utilizzare il più semplice lessico di Saussure, sono così due componenti distinte, essenzialmente differenti che si relazionano l'una all'altra. L'esempio proposto ci mette anche si fronte a un'ulteriore importante differenza. A livello segnico posso esprimere un medesimo significato in molti modi, in primo luogo potrei scrivere la parola

157 La migliore analisi, a mio modo di vedere, della prima ricerca logica è ancora J. Derrida, La

voce e il fenomeno.

“baīt” utilizzando l'alfabeto arabo e non la traslitterazione in caratteri latini. Inoltre, essendo l'arabo una lingua parlata da molti popoli differenti, alcuni pronunceranno il termine in un modo altri in un altro. Il significante è in continuo mutamento, mentre invece il significato rimane sempre identico. Dal Pakistan sino al Marocco nel momento in cui viene pronunciata o scritta nelle sue diverse varianti la parola “ baīt” avrà un significato identico per tutti: casa, dimora.

La distinzione tra significato e significante non è però l'unica. Nel momento in cui viene evitato che la conoscenza linguistica sia solo conoscenza di segni e che il significato mantenga la propria identità ideale nel continuo fluire dei diversi significanti, rimane però aperta la possibilità che il significato potrebbe proprio non esserci o, meglio, che esso si esaurisca completamente nel riferimento all'oggetto. Ogni espressione è infatti accompagnata da un necessario riferimento all'oggettualità presa di mira, che può realizzarsi o sotto forma di un riferimento diretto alla percezione oppure, in modo ancora più inquietante, attraverso un'operazione immaginativa grazie a cui il significante è associato a un'immagine159. Le necessità di escludere ogni possibilità di costruttivismo si traduce in ultima istanza nella strenua lotta contro ogni possibile intromissione dell'immaginazione nella formazione dell'idealità. Se infatti ho già avuto modo di sottolineare come la teoria della percezione di Husserl prende le mosse dalla necessità di mantenere nettamente separato il dominio della fantasia da quello dei processi percettivi, lo stesso vale anche nel caso dei vissuti predicativi, del linguaggio e di significati di cui esso si fa portatore.

Secondo le teoria del significato-immagine, come potremmo chiamarla, nel momento in cui parliamo o scriviamo i segni assumono un significato solo grazie al riferimento intuitivo che viene loro conferito dalla presentificazione dell'immagine corrispondente. Una simile concezione va incontro però a una serie di obiezioni fatali. Nel momento in cui enuncio il teorema di Weierstrass, che regola i massimi e minimi delle funzioni continue, nella sua forma canonica, l'enunciato suona: “Sia f : [a,b] → R una funzione continua, allora f (x) assume almeno un massimo e un minimo nell'intervallo [a,b]”. Nel momento in cui pronuncio tale enunciato l'immagine che vi sia associa nella mia mente è quella del professore di analisi che lo enuncia e lo dimostra a lezione, per qualcun altro sarà magari la pagine del libro dove lo ha letto per la prima volta, per un altro ancora sarà l'immagine di un grafico particolare portato ad esempio

159 Hua XIX/I, 23 / trad. it. I, 329: “Comprendere un'espressione significherebbe allora trovare le immagini fantastiche che le corrispondono. Quando esse non vi sono, l'espressione sarebbe priva di senso. Non di rado si sente indicare queste stesse immagini della fantasia come significati delle parole, pretendendo così di cogliere ciò che il linguaggio comune intende quando parla di significato dell'espressione”.

dove su una curva corrispondente a una funzione continua in un intervallo dato sono presenti un massimo e un minimo ecc. Per tutti però il teorema ha lo stesso significato: sappiamo che, se una funzione è continua in un intervallo definito nell'insieme dei numeri reali, possiamo calcolare il massimo o il minimo senza preoccuparci della possibilità che non ve ne siano. Le diverse immagini che ognuno di noi associa al teorema sono completamente indifferenti al suo significato. Possono di certo accompagnarlo nel momento in cui l'espressione si presenta a coscienza, ma mai potranno risolverlo in se stesse.

Da qui nasce la possibilità di un linguaggio puramente simbolico, che non faccia appello a modalità intuitive per rendersi intelligibile. L'algebra simbolica, la geometria analitica, la teoria pura delle varietà costituiscono modalità di espressione segnica che trasmettono significati senza necessitare di una rappresentazione intuitiva, che talvolta non è nemmeno possibile se non con l'adozione di modelli approssimativi. La riduzione del significato del segno all'immaginazione avrebbe così una volta di più non solo fatto del linguaggio una pura conoscenza di segni e non di cose, ma avrebbe ridotto l'intero campo delle scienze teoretiche, delle matematiche e della logica a una costruzione della fantasia, ricadendo in una bruta forma di psicologismo e, con esso, all'interno di tutta la tradizione moderna. L'analisi descrittiva del vissuto linguistico rende così possibile linguaggi puramente simbolici160, in cui il significato dei segni è derivato dalla funzione che questi occupano all'interno del sistemi di leggi ideali che costituiscono quello specifico campo oggettuale161. Questo fa sì inoltre che un segno algebrico non sia da intendere come un mero grafema, ma che rimandi a un'oggettualità tramite il significato che assume nel suo più proprio contesto operativo. Non è la presentificazione intuitiva, ma il significato che assicura la presa del segno sull'oggetto e costituisce quindi una componente ineludibile di ogni linguaggio.

Ma a che cosa si riferisce il significato? Sembra anche questo ovvio, all'oggetto. Le due espressioni “stella della sera” e “stella del mattino”, che presentano due complessi significanti e sue significati completamente differenti, si riferiscono in realtà al medesimo oggetto, il pianeta venere. Se comprendere il riferimento oggettuale nel caso di un'espressione isolata, di una parola singola dotata di significato è relativamente semplice, molto più complesso è spiegare il riferimento oggettuale di interi enunciati.

160 Hua XIX/I, 34 / trad. it. I, 334: “Per coloro che trasferiscono nell'intuizione il momento del significato, l'esistenza di un pensiero puramente simbolico rappresenta un insolubile enigma”. 161 Hua XIX/I, 36 / trad. it. I, 337: “Nelle sfere del calcolo e del pensiero simbolico-aritmetico

non si opera dunque con segni privi di significato. Non si tratta di «meri» segni nel senso di segni fisici separati da qualsiasi significato, che sarebbero succedanei dei segni originari ed animati da significati aritmetici; surrogati dei segni aritmeticamente significativi sono piuttosto i medesimi segni, assunti però con un certo significato operazionale o di gioco”.

Anche questo però risulta strano, che differenza dovrebbe intercorrere tra la modalità di riferimento oggettuale delle espressioni “gatto” e “il gatto è sull'albero”? In entrambi i casi – si affretterebbe a dire un empirista – il linguaggio trova la propria conferma nell'esperienza. Se questo è certamente vero anche da un punto di vista fenomenologico, si potrebbe però porre all'empirista un'ulteriore domanda: ma esperienza di cosa? Che domande!? – ci sentiremmo ribattere – di ciò che vediamo. Il giudizio “il gatto è sull'albero” trova conferma nella percezione che abbiamo della situazione in cui il gatto si trova. Ma si può percepire una situazione? Ciò di cui ho esperienza, come sappiamo, sono semplici adombramenti manifestativi di unità si senso percettivo. Il contenuto reale (reell, direbbe Husserl), il vissuto della mia coscienza è costituito da un particolare lato dell'albero, un particolare adombramento del gatto e magari i singoli dati di sensazione che corrispondono ai miagolii dell'animale. Se, invece di considerare il semplice vissuto, volessi osservare e descrivere ciò che si manifesta in quel vissuto, non troverei altro se non un gatto, un albero, dei miagolii e magari il paesaggio che fa loro da contorno. Nulla di più. Nella mia percezione non vi è nulla di simile a una situazione, a un modo in cui le cose sono disposte. Tra ciò che il giudizio esprime e ciò che è presente sia come elemento reale sia come contenuto intenzionale nella mia percezione c'è una frattura netta. Il giudizio presenta una netta sovrabbondanza di significato, che non è in grado di trovare nei contenuti della percezione. Sicuramente vi sono espressioni presenti nel giudizio che hanno e possiedono un ben definito riferimento all'oggetto percettivo come “gatto” e “albero”, ma l'enunciato è composto anche da altri elementi come “il”, “è”, “sul”, i quali non presentano alcun riferimento al mondo della percezione.

Se gli atti predicativi, i giudizi, sono fondati interamente nello strato dell'esperienza percettiva non è in essa che si esauriscono. Con questo Husserl ha mostrato la necessità di differenziare due sfere oggettuali completamente diverse. Da un lato la percezione e le manifestazioni presenti in essa, dall'altro gli oggetti – per il momento ancora indeterminati – del giudizio. Ciò ha lo scopo preciso di evitare ogni possibile intromissione della spontaneità sintetica del linguaggio nella percezione. Separando i due livelli oggettuali Husserl ribalta completamente l'opinione kantiana secondo cui il giudizio è la modalità attraverso cui le rappresentazioni vengono sussunte sotto l'unità trascendentale dell'appercezione162, facendo del linguaggio e, soprattutto, dei concetti che questo presuppone le modalità fondamentali attraverso cui le rappresentazioni intuitive possono divenire un unico oggetto percettivo. In questo modo la percezione diviene il prodotto ancora una volta dell'attività sintetica dell'intelletto.

162 Sulla teoria kantiana del giudizio e sulla sua rilevanza nel processo di costruzione oggettuale si veda De Vleeschauwer (1937) e Longuenesse (1998)

Idealismo trascendentale kantiano ed empirismo hanno però un singolare punto di comunanza o, meglio, un presupposto comune nel momento in cui si parla di percezione e del suo rapporto con l'oggetto. Entrambi fanno appello a una visione rappresentazionale della mente. Nel caso di Locke, che derivava la propria nozione di idea dal dibattito sorto sulla concezione della mente di Descartes163, le idee di sensazione sono il risultato dell'azione degli oggetti sui nostri sensi. Locke sta quindi esattamente presupponendo che vi siano dei corpi di cui riceviamo una serie di informazioni attraverso gli organi di senso

Nel documento I limiti della ragione fenomenologica (pagine 89-107)

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