• Non ci sono risultati.

I limiti della ragione fenomenologica

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "I limiti della ragione fenomenologica"

Copied!
320
0
0

Testo completo

(1)

Alla mia mamma, che per prima mi lesse di dei ed eroi. Al mio papà, di cui non incontrerò mai uomo migliore.

(2)

Indice generale

Indice delle abbreviazioni p. 5

Introduzione p. 6

Ringraziamenti p. 15

Parte I

Il paradosso della ragione fenomenologica

Capitolo I

Husserl e il moderno

§ 1 – La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale p. 18

§ 2 – Storie p. 24

§ 3 – Storia fenomenologica e storia antropologica p. 33

§ 4 – Soggetto e soggettività p. 47

Capitolo II L'oggetto del sapere

§ 1 – La saggezza del metodo p. 58

§ 2 – Questioni preliminari ai Prolegomeni p. 62

§ 3 – Architettonica e fondazione p. 67

§ 4 – Le fantasie del geometra p. 76

§ 5 – Gerarchia e descrizione p. 86

Capitolo III Il fenomeno del sapere

§ 1 – Un'ambiguità fondamentale p. 89

§ 2 – Questione di atteggiamento p. 103

Capitolo IV

Conclusioni preliminari su fenomenologia e modernità

§ 1 – Antichità e naturalità p. 107

§ 2 – Husserl è un moderno? p. 111

Parte II

Archeologia della ragione fenomenologica

Capitolo I

Heidegger e il principio fenomenologia

(3)

§ 2 – Costruire, ricostruire, distruggere p. 127 § 3 – Un diverso linguaggio p. 137 § 4 – Il parricidio p. 153 § 5 – L'autentico e l'antico p. 160 Capitolo II Hegel e Heidegger § 1 – Un drôle de guerre p. 168 § 2 – Il tempo della τέχνη p. 174 § 3 – Geometrie dell'Io p. 185

§ 4 – Il punto cieco della modernità p. 193

§ 5 – Delle post-modernità p. 199

§ 6 – Riflessi del pensiero p. 206

Parte III

Il numero e la storia

Jacob Klein e il movimento fenomenologico

Capitolo I

Introduzione all'opera di Jacob Klein

§ 1 – Prologo p. 213

§ 2 – Per una biografia di Jacob Klein p. 218

§ 3 – L'aporia dello storicismo: Klein interprete di Hegel p. 227

Capitolo II L'Aristotele conteso

§ 1 – Aristotele e la modernità p. 236

§ 2 – Aristotele e il neokantismo p. 239

§ 3 – Filologia e ideologia nell'Aristotele di Werner Jaeger p. 243

§ 4 – Nascere, pensare e morire p. 251

Capitolo III Dare i numeri

§ 1 – Klein e la storiografia neokantiana p. 259

§ 2 - “Uno, due, tre ...” p. 264

§ 3 – Dall'essere all'incognita p. 269

(4)

Capitolo IV Hegel dopo Heidegger

§ 1 – Klein e l'epistemologia contemporanea p. 287

§ 2 – Klein e Heidegger p. 291

§ 3 – La storia come ontologia del moderno p. 299

(5)

Indice delle abbreviazioni

1

AA : Kants gesammelte Schriften, hrsg. von der Königlich Preußischen Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1902 ff.;

AT : R. Descartes, Œuvres de Descartes, publiées par C.Adam et P.Tannery, Vrin, Paris, 1980, voll. XII;

BK: Ausgewählte Briefe von Jacob Klein an Gerhard Krüger, 1929 – 1933, in New Yearbook for Phenomenology and Phenomenological Philosophy, 6, 2006, pp. 308-229;

BS: Korrespondenz Leo Strauss – Jacob Klein, in L. Strauss, Gesammelte Schriften, hrsg. von H. Meier, Metzlersche Verlag, 2008, Bd. III, pp. 455-603;

GA : M. Heidegger, Gesamtausgabe, Vittorio Klosterman, Frankfurt am Main;

GLEA: J. Klein, Die griechische Logistik und die Enstehung der Algebra, in Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und Physik, Abteilung B, III, 1934 - 1936.

GW: G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, hrsg. von rheinisch-westfälischen Akademie der Wissenschaften, Meiner Verlag, Hamburg;

Hua : E.G.A. Husserl, Gesammelte Werke, Martinus Nijhoff, poi Kluwer Publishers, poi Springer, 1973 ff.;

LE: J. Klein, Lectures and Essays, ed. by R.B. Williamson and E. Zuckerman, St. John's College Press, Annapolis, Maryland, 1985;

Phaedr. : Platone, Fedro.

PhG: G.W.F. Hegel, Phänomenologie des Geistes, GW IX, hrsg. von W.Bonsiepen und R.Heede, Meiner Verlag, Hanburg, 1980;

PM: J. Klein, A Commentary on Plato's Meno, University of Chicago Press, Chicago and London, 1965;

SSB : G.W. Leibniz, Sämtliche Schriften und Briefe, hrsg. von Berlin-Brandenburgischen Akademie der Wissenschaften, De Gruyter, Berlin, 1966;

(6)

Introduzione

In una prefazione si offre di solito un chiarimento preliminare intorno al fine che l'autore si prefigge nel suo libro, ai motivi da cui egli fu sollecitato, e al rapporto ch'egli crede di scorgere tra il proprio lavoro e le trattazioni, precedenti o contemporanee, del medesimo soggetto; ma un chiarimento di tal sorta, oltre che superfluo, sembra a dirittura sconveniente a uno scritto di carattere filosofico2.

Sono parole di Hegel. Sono le parole poste all'incipit della Fenomenologia dello spirito e possono quindi considerarsi il biglietto da visita della filosofia hegeliana. Hanno infatti il compito di mostrare come introdurre al sapere non sia un'attività esteriore, il cui unico compito sia quello di sfoggiare la propria erudizione in un confronto con le opinioni di altri autori sul medesimo argomento. A uno scritto che si propone di parlare non di storia della filosofia o di un singolo problema, ma della totalità del pensare e quindi del vero non si addice una prefazione che si risolva in inutili battibecchi. Introdurre cioè, hegelianamente, fornire quella scala attraverso cui il sapere possa divenire conscio di se stesso non è infatti un compito meramente esteriore, quasi fosse una pratica commerciale perché le opere filosofiche possano vendere più copie. Fornire un'introduzione al sapere è invece una vera e propria necessità. Una necessità resa indispensabile da quella trasformazione così peculiare che, con parole di A. Koyré, siamo soliti chiamare rivoluzione scientifica.

Il pensiero antico non aveva e non poteva porsi il problema di introdurre al sapere. La visione tradizionale continua invece a proporci il risultato aporetico di alcuni dialoghi di Platone come un astratto inno alla filosofia e a un domandare che non sia riguardoso di niente e di nessuno, con il senso di incoraggiare a intraprendere la via del pensiero. I problemi posti da Platone sembrano nascere direttamente dal modo immediato e naturale con cui si guarda al mondo e, in questo senso, si continua incessantemente a ripetere come i dialoghi aporetici siano un invito generale allo scetticismo e alla riflessione. Non ci si rende conto invece di come quello che ci appare come un intento introduttivo alla filosofia in realtà non lo sia. La lettura di un dialogo platonico implica nella sua stessa forma letteraria che il lettore sia già informato di quali contenuti la filosofia sia tenuta a occuparsi e che possa in tal modo leggervi ciò che non vi è scritto.

(7)

Su poche cose Platone è stato chiaro come sul fatto che su quelli che sono i veri principi del suo e del pensare in generale non vi sarebbe mai stato alcuno scritto3. La riflessione platonica non deve introdurre nessuno alla filosofia e di certo non lo fanno i dialoghi, che – lungi dal mettere in questione una visione scontata e naturale – avanzano potenti critiche all'intera cultura sviluppatasi da Omero sino a Gorgia e Protagora.

L'operazione platonica, come avrò modo di illustrare nel corso del lavoro, è incentrata sulla differenziazione di due diverse tipologie di avere a che fare con il mondo. Da un lato quell'atteggiamento che vede nell'oggetto di conoscenza o di azione il risultato di un'attività, dall'altro il suo opposto ovvero un atteggiamento per cui il vero così come il buono e il giusto non sono riducibili a produzioni del sapere o del volere. Quando Heidegger disse che la τέχνη era stata il problema principale dell'opera di Platone non aveva torto. Il suo errore era stato però credere che il pensiero platonico e la nozione di εἴδος fossero riducibili a una metafisica della produzione, presupponendo che la precomprensione a partire da cui l'ente si diede al pensiero antico fosse stata quella dello herstellen. Platone per il suo intero itinerario non ha fatto altro che mostrare la necessità di distinguere tra tecnica e pensiero, mostrando come un pensare ridotto a tecnicismo non sia in grado di rispondere a quei problemi che esso stesso promette di risolvere.

Il sofista è, come nel caso del Protagora, chi promette di poter insegnare a chiunque qualsiasi contenuto4. La sofistica, per come ce la presenta Platone, coincide con la promessa di ottenere un sapere universalmente applicabile e trasmissibile. La retorica si caratterizza infatti per una peculiarità che dal punto di vista platonico la invalida completamente come forma di episteme ovvero la sua totale mancanza di direzionalità a un singolo e determinato tipo di oggetti5. Ciò che per i moderni sarà la forza del metodo è, per Platone, il punto più problematico della retorica, di una forma di ἐμπειρία6 cioè che pretende di poter parlare di tutto a chiunque. Pretesa che si traduce immediatamente nella dimensione grafica e testuale assunta dai discorsi dei sofisti. È infatti grazie alle loro innovazioni in campo retorico se l'Atene del V secolo passa da una forma culturale fondata sull'oralità ad essere una civiltà della scrittura e, soprattutto, della lettura. È scritto il discorso di Lisia che Fedro tiene sotto il mantello nell'omonimo dialogo ed è Antifonte,

3 Cfr. Platone, VII lettera in Id., Tutte le opere.

4 Il presupposto insito nella pretesa di Protagora di poter insegnare la virtù è quello di poter rendere in grado l'allievo di dare egli stesso forma alla virtù tramite la τέχνη. L'insegnabilità e quindi l'universalità della virtù si fondano sulla presupposizione che ogni uomo sia in grado di produrre un discorso, cfr. Prot.

5 Si veda l'incertezza di Gorgia nel definire un unico oggetto della retorica, cfr. Gorg. 451d7-8. 6 Cfr. Gorg. 462C2-5 / trad. it. 97-9: “Polo: “Ma che cosa sarebbe?” Socrate: “Una forma di

abilità [ἐμειρίαν]” Polo: “Cioè tu pensi che la retorica sia una forma di abilità?” Socrate: “Sì, se tu non la pensi diversamente”.

(8)

il sofista maestro di Tucidide e capopopolo durante il colpo di stato del 4077, il primo a scrivere i discorsi prima di pronunciarli, uso che faticherà però ad affermarsi8. La necessità che il discorso sia scritto non coincide con la pretesa che gli allievi imparassero il contenuto a memoria in modo del tutto passivo, come Platone vuole farci credere9, quanto con la creazione della possibilità universale di attingere al sapere.

La condanna platonica della scrittura è così il sintomo più profondo di una concezione dell'episteme che non può e non vuole essere diffusa. Il pensare non deve assumere forma grafica per il semplice fatto che non è in grado di discernere a quale interlocutore stia cercando di dirigersi10. La scrittura è così un surrogato di sapere che dà l'arroganza di credere di conoscere quando invece la sua univa utilità è quella di richiamare alla memoria cose già apprese. L'insegnamento deve avvenire dalla viva voce del padre del λόγος che, come avviene negli stessi dialoghi, è in grado di decidere a seconda della situazione se l'oggetto propria del pensare può essere trasmesso e comunicato. Ciò significa però che il sapere può divenire possesso solo di colore che sono o vengono ritenuti adatti a possederlo. Un testo scritto non fa differenze, non è in grado di impedire la propria lettura, mentre una persona può sempre camuffare le proprie intenzioni o omettere argomenti che non ritiene di poter affrontare con determinati uditori. Esattamente per questo motivo un dialogo platonico deve sempre essere letto con la consapevolezza di quali siano i componenti della discussione e quindi le condizioni attraverso cui il suo contenuto può esprimersi.

Il νοεῖν e la possibilità di svolgere l'esercizio della dialettica non sono possibilità proprie di tutti gli individui. Il legame tra pensiero e sfera erotica mostra molto bene come la capacità di divenire filosofo sia per Platone qualcosa di casuale e di inevitabilmente ristretto a pochi individui che hanno il tempo e i mezzi per permettersi di poter pensare. Il sapere non deve essere universalmente diffuso e non può essere pubblico e condiviso da tutti gli individui. Per il platonismo così come per l'intera filosofia greca - dall'oscurità eraclitea sino ai misteriosi culti dei neoplatonici – la conoscenza deve rimanere possesso di un ristretto numero di persone, che sono naturalmente portate a giungere a quella conoscenza che viene loro mostrata. La liberazione dello schiavo e il punto cieco che con esso sembra crearsi nel progetto politico schizzato nella Repubblica è

7 Cfr. Canfora (2013).

8 Si pensi al famoso caso della Pro Milone, scritta dopo un processo in cui Cicerone non aveva nemmeno avuto il coraggio di aprir bocca, condannando così Milone all'esilio. Ringrazio Giovanni Mandolino per avermi ricordato l'episodio.

9 Cfr. Phaedr. 237d.

10 Cfr. Pheadr. 275d9-e4 / trad. it. 229: “Una volta che sia stato scritto, ogni discorso rotola da tutte le parti, indifferentemente, nelle mani di chi se ne intende e in quelle di chi non è interessato, ignorando a che deve parlare e a chi no”.

(9)

un problema in realtà solo per noi moderni, per cui è possibile che chiunque intraprenda la strada del pensiero. Per Platone invece una simile difficoltà non poteva nemmeno presentarsi dal momento che un individuo non preso da ἔρως e non incline alla bellezza della verità e della giustizia mai sarebbe potuto giungere alla visione dell'εἴδος τοῦ ἀγαθοῦ, superando la sfera delle produzioni e accedendo a quella dell'increato. Viene meno così anche il celebre problema sollevato da chi rimprovera Platone di non aver indicato “chi controllerà i controllori”. Se filosofo è un individuo portato naturalmente per il pensare e per accedere all'oggetto della verità, questa stessa naturalità sarà garanzia della sua pretesa di farsi portavoce della giustizia nella caverna. Non si tratta di un intellettualismo etico quanto di un modo di vedere che non si fonda su una distinzione tra regno morale e mondo della conoscenza. Proprio perché il bene non è una produzione del linguaggio o del pensiero può farsene garante solo chi vi è naturalmente portato. Altrimenti non sarà nemmeno possibile giungervi e ciò che si considererà come giustizia non ne sarà che un'immagine sbiadita o un feticcio.

A cambiare tra Cinquecento e Seicento è, insieme a molto altro, un dettaglio particolarmente rivelatore. Alla tesi della segretezza del sapere si univa, insieme al tabù sulla scrittura, anche la tesi divenuta celebre della conoscenza come ἀνάμνησις, come ricordo, con cui in realtà la tradizione Platonica indicava un processo conoscitivo che lasciasse inalterato l'oggetto a cui si rivolge. Questa tesi ha avuto un'eredità di proporzioni veramente incalcolabili nei secoli che separano Platone dalla rivoluzione scientifica sino addirittura a diventare uno degli assi portanti del pensiero rinascimentale sotto forma dell'arte mnemotecnica. L'importanza delle arti della memoria e della retorica nei confronti specialmente del metodo della scienza moderna è stato giustamente sottolineato più volte11. Ciò che spesso va perduto è però la differenza netta che intercorre tra il modo rinascimentale di rapportarsi alla memoria e quello tipicamente moderno. Con la modernità infatti si va affermando un paradigma conoscitivo che è volto a escludere completamente il ruolo della memoria dal processo conoscitivo per il semplice fatto che ricorda significa attingere a un oggetto che ha di per se stesso una validità, mentre – come avrò modo di illustrare – per il moderno vero è solo ciò che stato sottoposto a un processo di costruzione.

Spia di questo mutamento è un cambiamento, apparentemente insignificante, nel modo di concepire il rapporto tra la memoria e la scrittura all'interno del processo di conoscenza. Il nuovo calco algebrico, la rivoluzione simbolica con esso realizzatasi e la necessità di sviluppare un metodo che fosse in grado di rimanere identico nonostante la

(10)

diversità e la lunghezza dei calcoli, fa della scrittura e del supporto grafico un elemento indispensabile per lo svolgimento dell'attività del nuovo scienziato12. La memoria non è sufficiente e il suo apporto è sempre manchevole. L'oggetto non può essere ricordato, ma deve trovare una traduzione simbolica o schematica tramite la figuralità che gli è concessa nella scrittura. Il ruolo mediatore dell'immaginazione tra percezione e pensiero che caratterizza l'intero pensiero moderno ha nell'accento dato alla scrittura il suo controcanto pratico e metodologico13.

Il cambiamento nel ruolo affidato allo scritto nella conoscenza non è solo qualcosa di estemporaneo o casuale, ma il sintomo di una rivoluzione ben più profonda e importante. A differenza di quanto accadeva nell'antichità, la concezione del sapere che nasce con la rivoluzione scientifica prevede che il conoscere divenisse un'attività, cioè il prodotto di un fare. Di conseguenza tale attività non poteva rimanere confinata alla semplice produzione individuale, ma si identifica immediatamente con una capacità collettiva. Il buon senso, per dirla à la Descartes, è distribuito in egual misura in tutti gli uomini. L'opera del conoscere e della trasformazione della natura in un ambiente in cui l'uomo possa vivere al meglio delle sue possibilità è un compito che non riguarda un singolo o una ristretta cerchia di eletti, ma l'umanità intera. Nulla forse come la nozione hegeliana di spirito rende l'idea di che forma di sapere siano la scienza e la filosofia moderne. La conoscenza coincide con l'operare di tutti e di ciascuno, creando però in tal modo la necessità che ognuno possa essere introdotto al pensare filosofico. Come il potere politico, con la modernità la filosofia cessa di essere possesso di pochi per diventare possibilità di tutti.

Il problema introduttivo diventa così una delle questioni portanti delle riflessioni

12 Va qui posta una netta separazione tra modernità e pensiero rinascimentale, ci cui esponenti non avevano in nulla dimenticato la lezione platonica sulla centralità della memoria con le debite conseguenze a livello di determinazione del processo conoscitivo, cfr. N. Cusano, Il dio

nascosto. Si veda inoltre il continuo utilizzo di metafore legate all'oralità da parte di Giordano

Bruno per indicare la conoscenza, cfr. La cena de le ceneri, p.23: “E tu, Mnemosine mia, ascosa sotto trenta sigilli, e rinchiusa nel tetro carcere dell'ombre de le idee, intonami un poco ne l'orecchio”.

13 È Descartes l'esempio principale, cfr. AT X, 454-5 / trad. it. I, 799: “Del resto, poiché abbiamo detto che non si devono contemplare con un unico e medesimo intuito, della mente e degli occhi, più di due dimensioni diverse tra le innumerevoli che possono essere raffigurate nella nostra fantasia, vale la pena mantenere tutte le altre in modo che si presentino facilmente tutte le volte che l'uso lo richiederà; e pare che la memoria sia stata istituita dalla natura a tal fine. Ma poiché spesso essa è labile ed affinché non siamo costretti ad impiegare una parte della nostra attenzione nel rinnovarla mentre siamo impegnati in altri pensieri, l'arte ha inventato molto a proposito la pratica della scrittura. Confidando sul suo ausilio, qui non affideremo quasi più nulla alla memoria ma, lasciando del tutto libera la fantasia dalle idee presenti, raffigureremo sulla carta tutte le cose che si dovranno mantenere, e ciò mediante note brevissime, affinché dopo aver esaminato ciascuna distintamente secondo la regola nona, possiamo secondo la undicesima percorrerle tutte con un movimento rapidissimo del pensiero e intuire quante più possibile”.

(11)

succedutesi alle grandi scoperte di Copernico, Viète, Galilei e Boyle sino, in alcuni casi, a coincidere con quella stessa riflessione a cui avrebbe dovuto portare. Sono i casi di Kant e di Husserl. È noto come la Critica della ragion pura non fosse concepita se non come una propedeutica al sistema di filosofia trascendentale. Così come in Husserl sia le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica sia Logica formale e trascendentale (ovvero due delle quattro monografie pubblicate nella vita di Husserl, includendo però anche La filosofia dell'aritmetica) sono interamente dedicate a introdurre il lettore ingenuo al metodo attraverso cui è possibile l'indagine del vero. La stessa Fenomenologia dello spirito costituisce l'introduzione all'intero sistema di filosofia speculativa esattamente perché ognuno deve poter far parte in modo consapevole di quell'attività di produzione e sistemazione del sapere e del mondo sociale che Hegel chiama spirito.

Anche nel caso del presente lavoro di tratta di introdurre; introdurre alla fenomenologia. In questo specifico caso però non si tratta di condurre il profano dal mondo ai grandi misteri della visione d'essenza quanto di rivolgersi a chi già da diverso tempo ha familiarità con il pensiero fenomenologico ed è disposto a sposarne gli assunti di partenza. Potrei quasi dire che il mio obiettivo era quello di scrivere un introduzione alla fenomenologia per fenomenologi, spesso e volentieri troppo convinti della verità della loro pratica filosofica. In questo caso introdurre alla fenomenologia non coincide con un'illustrazione di che cosa l'indagine fenomenologica e di quali siano i suoi compiti, quanto portare alla luce i presupposti del modo fenomenologico di pensare.

Il confronto serrato tra fenomenologia e pensiero moderno che costituisce la spina dorsale di ciò che ho voluto illustrare ha così il fine di rendere evidente in primo luogo le grandi acquisizioni dovute alla scoperta husserliana dell'oggettività del contenuto di conoscenza rispetto alla soggettività del processo conoscitivo. È esattamente la separazione tra i due che ha portato Husserl a porsi uno dei problemi che reputo centrali per ogni pensiero ovvero come un assoluto possa avere una genesi. Detto in parole forse più comprensibili, come una dimensione trascendentale possa derivare dall'empirico e l'a priori essere generato dall'a posteriori. Di contro a questo però la fenomenologia, nelle sue varie forme, non ha saputo emanciparsi da quel platonismo che ancora attanaglia gran parte del nostro mondo culturale.

L'attuale pensiero post-moderno, di cui avrò modo di descrivere la genesi e le strutture portanti14, si caratterizza per aver riassunto in sé i tratti peculiari del pensiero platonico. Da un lato infatti l'inversione antimoderna iniziata con la tarda filosofia

(12)

teologica di Schelling ha portato a ritenere il vero qualcosa di indipendente rispetto al pensare e a gran voce si festeggia ancora oggi gridando la morte del pensare e mettendo il concetto alla gogna. Dall'altro lato invece, chi ha ritenuto che il vero non fosse e non potesse essere indipendente rispetto ai modi attraverso cui viene costruito dal pensare non ha potuto che rinunciare alla stessa idea di verità, aprendo così a quell'avvicendamento di opinioni e di scempiaggini che caratterizzano un pensiero la cui debolezza è sia il presupposto che l'obiettivo. In tal modo il platonismo non ha fatto che riaffermarsi proprio nel momento in cui, con Nietzsche e Heidegger, Carnap e Quine, Foucault e Derrida, sembrava ormai ospite sgradito. L'alternativa platonica tra νοεῖν e τέχνη è ancora il cuore pulsante del pensiero, per il semplice motivo che non abbiamo ancora preso coscienza della necessità di pensare il vero non come un presupposto, ma come un risultato. Ciò che conta in un processo genetico non è l'origine quanto ciò che in esso viene generato.

Il pregiudizio tanto diffuso nei confronti di un pensiero che si pretenda come razionale e fondi nella ragione la propria verità non si basa se non su tal presupposto. Le critiche che sono valse come le più distruttive nei confronti del pensiero moderno sono quelle che hanno mostrato quanto quelle strutture che un Descartes o un Kant consideravano come naturali non fossero che delle “invenzioni recenti”. Di certo la scoperta della storicità di ogni forma culturale è stato un risultato da non trascurare, ma non si può fare a meno di notare come venga utilizzato esattamente secondo lo schema che vorrebbe in realtà mettere in questione. Nel momento in cui infatti si proclama la fine della razionalità solo e soltanto perché questa sarebbe un'episteme storicamente situata in un tempo e in luogo non si fa altro che applicare ancora una volta un giudizio tipicamente greco per cui vero può essere solo ciò che non è sottoposto a generazione. A differenza di quanto pensava, ad esempio, Deleuze non è il post-moderno (e non il moderno) ad essere un platonismo rovesciato. La storicità della ragione non ne è invece il tallone d'Achille e di certo non le impedisce di porsi come criterio di misura e norma del reale. Che poi non valga per l'eternità, che sia temporale e che sia nata in un determinato continente non è in realtà una questione rilevante. L'eterno è un problema di Dio, se ve n'è uno, non certo dell'uomo.

Parlare di fenomenologia significa, da questo punto di vista, parlare di quello che forse è stato il più significativo movimento della post-modernità filosofica. Mostrare quali siano i suoi presupposti concettuali e il modo attraverso cui si relaziona a quello stesso pensiero moderno con cui si pone in competizione serve a fare un bilancio dell'avventura fenomenologica. Un'avventura che ha segnato in profondità l'intera cultura

(13)

del Novecento. A differenza però di molti altri lavori, specialmente quelli dedicati al confronti tra Husserl e Kant o Hegel e Heidegger, non è mio intento quello di fare un'apologia del pensiero fenomenologico, cantandone le lodi. Se infatti il metodo fenomenologico ha significato un mutamento di proporzioni gigantesche nella storia del pensare, ciò non significa che i suoi risultati non siano stati disastrosi. Molta letteratura vede infatti nelle scoperte di Husserl e nel suo concetto di trascendentale un avanzamento e un progresso rispetto a Kant, così come in Heidegger colui che è riuscito a confrontarsi con la tematica della negatività senza doverla sempre addomesticare nell'identità del concetto come aveva fatto Hegel. Di contro il presente lavoro segue, nel suo scopo di introdurre alla fenomenologia, una strategia volta a mettere in luce quelle che sono le differenze reali tra il pensiero fenomenologico e il pensiero moderno.

Questo implica in primo luogo rivedere le tradizionali interpretazioni dei modi attraverso cui questo rapporto è esplicitamente affrontato dagli stessi partecipanti del movimento fenomenologico. Il punto chiave non può che essere la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, opera che più di tutte viene sbandierata quando si parla di critica fenomenologica alla modernità, senza invece accorgersi che i veri punti di scontro tra Husserl e il moderno sono stati posti molto tempo prima in quei Prolegomeni a una logica pura, che sono forse il luogo più trascurato di tutta l'opera husserliana. Per questo all'analisi della Crisi seguono un'analisi dei Prolegomeni e un'illustrazione dei modi che conducono Husserl a dare vita a un modello di ragione che, pur nel suo strenuo tentativo di vedersi come figlia della modernità, non può che metterne in questione tutti gli assunti fondamentali. Il pensiero husserliano è, nel suo relazionarsi al moderno, un vero paradosso.

Paradosso che invece viene completamente risolto in Heidegger nel senso di un totale rifiuto della modernità in favore di una fenomenologia dell'esistenza che trova nei greci un più immediato e naturale termine di confronto. La grecità si mostra così come la porta attraverso la scoperta di un livello dell'esperienza che nessun concetto moderno sembra in grado di poter oscurare. La riflessione heideggeriana è così un esplicito e violento rifiuto e ripensamento con la tradizione moderna, il che pone la questione della sua relazione a colui che Heidegger stesso vede come il punto d'arrivo della storia dell'essere e del suo darsi: Hegel. Un rapporto quello tra Hegel e Heidegger che vedremo essere molto particolare, quasi che Heidegger non fosse perfettamente in grado di controllare la riflessione hegeliana, quasi che si sentisse in imbarazzo, ma fosse costretto a mostrare come le scoperte della fenomenologia di contro allo hegelismo. Di questo imbarazzo è causa il fatto che Hegel non può e non deve essere considerato un pensatore

(14)

moderno, per il semplice motivo che il modo con cui il pensare è inteso, se è ovviamente erede di Kant, non può con esso essere confuso. La ragione hegeliana non è un'attività che dà vita a prodotti, ma è il prodotto di quell'attività che essa stessa è.

Evidenziare le differenze tra Hegel, la modernità e Heidegger ci porteranno a scoprire che esistono due diverse alternative al pensiero moderno cioè due diverse forme di post-modernità. Da un lato il modo hegeliano di pensare e, dall'altro, quell'avere a che fare con il pensare che è stato iniziato dalla tarda teologia di Schelling, ovvero un ritorno alla determinazione di un fondamento extracogitativo. Il mancato riconoscimento da parte di Schelling della fondamentale scoperta hegeliana del pensiero come fine e non come fondamento conduce quasi inevitabilmente a sottomettere il pensiero a qualcosa che gli è trascendente. Il platonismo non può così che riemergere con tutta la sua forza, sotto le mentite spoglie del pensiero fenomenologico (e dei suoi eredi) da un lato e del pensiero logico-formale e analitico dall'altro, sino a che la critica alla modernità non diverrà il punto fondamentale di tutto il pensiero fenomenologico.

È il caso di Jacob Klein, a mio modo di vedere uno degli eredi e allievi più intelligenti e acuti di Husserl e Heidegger. La sua opera è sostanzialmente sconosciuta, anche a causa della suo carattere schivo e un po' pigro che gli ha impedito di prendere parte attiva al dibattito sull'eredità del pensiero fenomenologico che ha invece coinvolto figure come Gadamer e Strauss, entrambi amici intimi di Klein. La fenomenologia si involve su se stessa e sulla sua tradizione, trasformandosi – in modo simile a ciò che è avvenuto con il decostruzionismo – in un semplice modo di aver a che fare con la storia. Se questo, da un lato, sembra privare il pensiero fenomenologico di quell'apertura di orizzonti che lo aveva caratterizzato sin dall'inizio, dall'altro rivela invece un modo completamente nuovo di avere a che fare con la storia. In questo senso Klein è autore di una ripresa della concezione hegeliana della storia che viene utilizzata per colmare quelle lacune che il pensiero heideggeriano, impastoiato nel discorso ontologico, non riusciva a superare.

(15)

Ringraziamenti

Non mi rimane a questo punto altro da fare, prima di iniziare, se non rivolgere i miei ringraziamenti a tutti coloro che hanno collaborato a questo lavoro. In primo luogo vorrei ringraziare il prof. V. Costa dell'Università del Molise, che – nonostante non abbia avuto parte attiva nella preparazione di questa tesi – è stato fondamentale per il mio percorso nella fenomenologia, specialmente per quanto concerne la parte su Husserl. Il prof. F. Fraisopi della Albert-Ludwigs Universität di Freiburg im Breisgau, il cui invito mai domo a non lasciare che l'istorismo mi facesse suo complice, il suo continuo stimolo e intelligenza mi hanno spinto più di una volta ad andare contro ciò che il mondo universitario mi avrebbe in realtà richiesto. Inoltre, senza di lui l'enorme importanza da attribuire ai Prolegomeni nel pensiero di Husserl non mi si sarebbe mai manifestata. La prof.ssa A. Fussi che ha gentilmente accettato con poco anticipo di leggere questo lavoro e di dare i suoi preziosi consigli. Il prof. A. Grilli del dipartimento di Filologia classica dell'Università di Pisa, che ha contribuito in maniera essenziale alla mia comprensione del mondo letterario greco e della letteratura in generale. Con lui ho avuto alcune tra le conversazioni più interessanti e stimolanti della mia vita. And last but not least il prof. A. Ferrarin che ormai da quattro anni mi segue pazientemente. Ho cercato per mesi una formula aforistica, una frase o anche solo un parola che fossero in grado di esprimere quanto gli sono grato per la competenza, la gentilezza, la premura, l'accortezza e l'attenzione con cui si è preso cura non solo del mio lavoro, ma anche di me. Purtroppo non ci sono riuscito.

Desidero poi ringraziare Roberto Gronda, che un giorno di cinque anni fa decise, per motivi a me non ancora ben chiari, che gli astrusi discorsi di un pischello del primo anno meritavano la sua attenzione. Danilo Manca, che ha avuto il coraggio da studente di leggere Hegel con altri studenti. Paolo, che pur avendo subito la “morte un po' peggiore”, non sarà mai dimenticato. Claudia, che è stata molto più importante di quanto spesso crede lei stessa: le sue domande inaspettate, i suoi dubbi apparentemente banali mi hanno costretto a uscire da quel sonno dogmatico in cui così di frequente mi sono adagiato studiando il pensiero di Husserl. Greta, perché “ci mancherebbe”. Un augurio va anche a Gabriele che inizia invece proprio ora il suo cammino nella fenomenologia.

In ultimo vorrei rivolgere il mio più sincero ringraziamento alle due stelle che brillano di luce propria: Giovanni e Luca. Il primo perché non avrei mai creduto che un pacchetto di Gauloises potesse condizionarmi in modo così produttivo. Il secondo perché, per quante differenze possano esservi tra un kantiano e un hegeliano, un anarchico e un

(16)

comunista, ciò a cui brindiamo ogni 14 luglio è la stessa identica cosa: che l'uomo possa un giorno camminare veramente sulla propria testa. Gli anni che ho passato in loro compagnia sono stati i più belli della mia vita finora trascorsa.

Infine Lisa, la mia compagna. Un semplice ringraziamento non sarebbe adeguato a lei e all'infinito amore che dimostra standomi accanto, nonostante tutte le difficoltà che questo comporta. Posso solo dire che ciò che ho promesso sarà sempre, più di ieri e meno di domani …

(17)

Parte I

(18)

Capitolo I

Husserl e il moderno

§ 1 – La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale

Un ideale definito, quello di una filosofia universale e di un metodo adeguato

costituisce l'inizio, per così dire, la fondazione originaria dell'epoca moderna in

filosofia e di tutte le sue linee di sviluppo. Ma invece di realizzarsi, quest'ideale

conosce un'intima dissoluzione. […] Ma ciò significa che tutte le scienze moderne finiscono col venire a trovarsi in una crisi, di tipo particolare e sentita come enigmatica, che investe il senso in cui sono state fondate, quel senso che esse continuano a recare in sé in quanto rami della filosofia15.

Il nome dell'uomo che ha scritto e pronunciato queste parole di fronte a un'affollata aula dell'Università di Praga (tra cui erano presenti il filosofo Jan Patočka e il pittore Kokoschka) e ora inciso a lettere dorate su una piccola piastrella posta davanti all'entrata dell'Università di Friburgo.

Edmund Gustav Albrecht Husserl, nonostante le sue origini, non era in realtà di religione ebraica, ma la sua conversione giovanile al Cristianesimo non aveva certo impedito all'autorità nazista di esautorarlo da ogni posizione interna all'Ateneo del Baden sino ad impedirgli di utilizzare la biblioteca di quella stessa Università di cui era professore sin dal 1916. A Husserl viene impedito di tenere lezioni o conferenze in Germania (cosa a dire il vero che lo danneggia relativamente visto che era già in pensione e l'unico ciclo di conferenze tenute in Germania risale al 193116). Invitato dall'Università di Praga nel 1934 decide di dare corpo – in quella drammatica situazione – al primo nucleo di uno dei testi più influenti del Novecento: un insieme di scritti ora noto sotto il titolo di Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale.

Delineare con precisione l'eredità storica e teorica della Crisi significherebbe in un certo senso scrivere una storia della filosofia dal 1954 (anno in cui Walter Biemel pubblica per la prima volta la raccolta di materiali) a oggi. Di certo non è questo il compito che affronterò. Importante però è sottolineare cosa e come la visione fenomenologica di questi scritti dell'ultimo Husserl abbiano influito sulla ricezione dell'intera fenomenologia husserliana, creando dei notevoli errori di prospettiva. Sino al 1954 la fenomenologia husserliana non aveva infatti avuto quella onnipervasività che

15 Hua VI, 10 / 41.

(19)

oggi le si attribuisce nella filosofia contemporanea. Se in vita Husserl era stato certamente una star del panorama filosofico internazionale (come testimoniano i cicli di conferenze a Londra e Parigi e la chiamata da professore in California17), in realtà il suo mai esausto desiderio di costituire una scuola di lavoro fenomenologico, in cui regnasse concordia e armonia tra maestri e allievi, non era mai stato appagato. Sin dalla pubblicazione negli anni 1900 e 1901 delle Ricerche logiche quello che – con espressione di Gadamer – siamo usi chiamare movimento fenomenologico18 non si era mai costituito come un'unità solidale. La formazione del circolo “eretico” di Monaco e i rapporti tra gli allievi di questo e quelli di Gottinga avevano immediatamente creato una pluralità di istanze che impedirono alla fenomenologia husserliana di porsi come modello unico e insuperato19.

Infatti se i Prolegomeni a una logica pura avevano scatenato una sorta di isteria collettiva, nata dalla speranza che Husserl ponesse basi solide e concrete per una filosofia dell'oggettivo e del concreto, già le sei ricerche avevano creato un certo imbarazzo20. Il discorso husserliano sembrava infatti ricadere in quel coscienzialismo, in quello psicologismo soggettivo che i Prolegomeni avevano liquidato come incapace di approdare alla conoscenza di un vero aldilà di ogni possibile rappresentazione individuale o antropologica. La pubblicazione nel 1913 del primo volume delle Idee per una fenomenologia pura e una filosofia fenomenologica non fa che rafforzare questa impressione. Non solo i temi di interesse della fenomenologia erano esplicitamente dichiarati come coincidenti con quelli della psicologia21, ma Husserl faceva sfoggio di un lessico tipico dell'idealismo classico tedesco, utilizzando termini molto più che compromettenti (agli occhi di allievi che con Kant e Hegel non volevano più avere nulla a che spartire) come “idealismo”, “trascendentale”, “ragione” e molti altri.

Di quest'ultimo passaggio e dello sconcerto che esso provocò abbiamo come testimone privilegiato Roman Ingarden, allievo polacco di Husserl, unico – insieme a

17 Cfr. Sepp (1988).

18 Cfr. H.-G. Gadamer (2008). Interessante è il tentativo svolto da V. Costa, E. Franzini e P. Spinicci per oltrepassare la scolastica gadameriana parlando, invece che di un movimento, di una galassia fenomenologica; cfr. Costa-Franzini-Spinicci (2002).

19 Su questo è imprescindibile la raccolta di testi e articoli raccolti in Besoli-Guidetti (2000). Il dialogo con il circolo di Monaco fu fondamentale per lo stesso Husserl, per cui fu determinante il rapporto con Hofmann come è stato mostrato da Costa (2007).

20 A questo riguardo è celebre la testimonianza di E. Conrad-Martius, allieva di Husserl (cfr. H.Conrad-Martius (1959), p.177): “Già il secondo volume delle Ricerche logiche, ma soprattutto e in primo luogo le Idee per una fenomenologia pura e una filosofia

fenomenologica apparvero a noi, immediati allievi, come un'incomprensibile ritorno di Husserl

al trascendentalismo, al soggettivismo se non addirittura allo psicologismo”. Come avrò modo di illustrare più avanti, nel sostenere che il modello di analisi degli atti coscienziali delle

Ricerche logiche conducesse a una prospettiva di tipo soggettivistico gli allievi di Gottinga

avevano in realtà ragione. Intanto cfr. De Palma in Besoli-Guidetti (2000). 21 Cfr. Hua III/ I, 3 / trad. it. 4.

(20)

Edith Stein – a seguirlo da Gottinga a Friburgo. In un saggio dal titolo On the motives which led Husserl to transcendental idealism, scritto in realtà negli anni cinquanta, Ingarden – cercando di mettere a fuoco le motivazioni che potevano aver portato Husserl dalla posizione delle Ricerche logiche a quella delle Idee I – fornisce la migliore rappresentazione dell'incomprensione totale che gli allievi avevano avuto del percorso husserliano. Questo è infatti riassunto come un passaggio dal realismo oggettivo delle Ricerche logiche all'idealismo coscienzialista delle Idee I, in cui Husserl ridurrebbe il dato a qualcosa di necessariamente presente alla coscienza e quindi comprensibile solo all'interno della relazione ad essa22.

Se tale interpretazione fosse limitata alla stretta cerchia degli allievi della prima ora non costituirebbe certo un problema. Il vero nodo gordiano è che in realtà essa è non solo la base attraverso cui quasi tutti gli interpreti guardano a Husserl, ma è presente in tutti i più importanti successori e critici della fenomenologia husserliana. E' sufficiente leggere distrattamente Scheler, Heidegger, Sartre o Merleau-Ponty per rendersi conto di quanto sia uniforme la critica rivolta al fondatore del metodo fenomenologico: la fenomenologia trascendentale è pienamente all'interno della tradizione idealistica moderna e, in quanto tale, non è in grado di realizzare il compito che essa stessa si era data nel momento in cui affermava di aver rintracciato la via per uscire dall'apparato concettuale che la modernità aveva creato. Il giudizio su Husserl è quindi ambiguo: da un lato non può non essergli concesso il riconoscimento di una impareggiabile novità, ma dall'altra parte la pretesa husserliana di parlare di fenomeni trascendentalmente ridotti nella coscienza pura e assoluta sembra far riemergere spettri di un passato in cui il concetto fagocitava in sé la totalità del reale e che il pensiero del Novecento non è più in grado sopportare.

Esempio massimo in questo senso sono le pagine heideggeriane della conferenza La fine della filosofia e il compito del pensiero23, in cui Husserl è direttamente paragonato a Hegel e messo in relazione con la tradizione dell'idealismo tedesco. In questo specifico contesto il punto di Heidegger è quello di mostrare come la filosofia si identifichi con la metafisica, ovvero con un pensiero che faccia dell'interpretazione dell'essere come ente il proprio cardine principale. All'interno del pensare metafisico l'essere si dà al pensiero in un linguaggio in cui domina la forma di terza persona singolare del verbo essere, lo “è”, che presuppone il dominio della presenza (Anwesenheit) su ogni altra possibile forma di determinazione ontologica. A tale modello ontologico si associa la tradizionale

22 Con grande rammarico Ingarden racconta in un testo a carattere biografico di una

conversazione con Husserl in cui riuscì a strappargli la sola rassicurazione che il dato iletico fosse nicht-ichlich.

(21)

definizione della verità come adaequatio intellectus ad rem, che presuppone la presenza dell'ente a cui l'enunciato deve o meno essere corrispondente per poter esibire la propria correttezza. Questo conduce Heidegger a formulare quella che è la tesi forse più interessante dell'intero saggio: non è la filosofia, ma la scienza o, meglio, la tecnica moderna a realizzare pienamente l'ideale della verità come presenza e l'essenza del pensare metafisico. Se i criteri attraverso cui valutare l'essere, la verità, la realtà e la conoscenza rimangono gli stessi della tradizione, la filosofia è destinata a morire in una lenta e dolorosa agonia. Heidegger non sta dichiarando la bancarotta del pensiero – come spesso si scrive a proposito di questa conferenza – bensì sta mostrando che l'opzione tradizionale per un pensiero che sia onto-teo-logico annulla completamente ogni possibilità di un pensare autenticamente filosofico. In un mondo dominato dall'onto-teo-logia la filosofia è surclassata dalla scienza che porta a pieno compimento le premesse che hanno dominato la tradizione occidentale da Platone in avanti. Ciò rende necessaria l'apertura di un nuovo spazio di pensiero che abbia oltrepassato le premesse concettuali della metafisica e si rivolga al momento costitutivo di ogni pensare ovvero la differenza tra essere e ente24. Dichiarare la fine del pensiero filosofico è l'unico modo per salvare la possibilità stessa del pensiero25.

24 Cfr. GA / La struttura onto-teo-logica della metafisica, mettere riferimento.

25 Si potrebbe a questo punto sostenere che Heidegger stia aprendo la possibilità alla libertà del pensare, facendo però molta attenzione a non confondere la concezione illuministica della libertà di pensiero come Selbstdenken con la libertà che il pensiero ha nella riflessione heideggeriana. Non si tratta infatti in quest'ultimo caso di una liberazione dai pregiudizi collettivi e della possibilità che la ragione si ponga come soggetto autonomo del proprio esame critico (della realtà e di se stessa, cfr. Kant, Prefazione alla KrV e Risposta alla domanda che

cos'è l'illuminismo, in Scritti di storia, politica e morale), ma dell'errare del pensiero. L'errare è

sia l'errore sia il vagare che conduce al riconoscimento del presupposto fondamentale di ogni presenza: la possibilità stessa dell'essere. Ente ed essere vengono quindi colti come entità in reciproca relazione (l'ente in quanto è, l'essere in quanto si dà o, meglio, in quanto permette l'essere dell'ente) e, in quanto tali, della loro reciproca differenza. Tale riconoscimento è ciò che Heidegger chiama evento di appropriazione dell'essere (Er-eignis, termine questo che – a differenza di quanto si crede comunemente – attraversa l'intera produzione heideggeriana e, come avremo modo di vedere in seguito, è presente sin dai corsi del 1919). Libertà è quindi il riconoscimento del pensiero della sua dipendenza dall'essere, che implica la presa di coscienza della reciproca dipendenza dell'essere dal pensare. Essere liberi è permanere nella coappartenenza di essere ed ente.

Se la ragione illuministica o, meglio, moderna, è libera nel momento in cui è in grado di farsi mondo attraverso la legge che essa stessa si è data (e questo è un dato ineludibile in Hobbes, Rousseau, Kant, Fichte, il primo Schelling e Hegel), il pensare heideggeriano è libero nel momento in cui rinuncia a ogni pretesa di fornire da sé il proprio oggetto e accetta l'essere come metro e misura di se stesso (questo è ciò che Heidegger intende con abbandono, che – non a caso – è uno dei concetti fondamentali dei suoi ultimi scritti). Avrò modo in seguito di mostrare come e perché si crea questa netta cesura tra ragione moderna e ragione fenomenologica. Sulla libertà in Heidegger cfr. L'essenza del fondamento, in Segnavia; Il

principio di ragion sufficiente; La struttura onto-teo-logica della metafisica; L'abbandono.

Come studi si veda Figal (2007). Sulla ragione moderna e la concezione della libertà come autonomia della ragione cfr. Ferrarin (2001b) e (2014b).

(22)

Nel mostrare la mancanza di radicalità di ogni pensiero che non si sia reso conto dell'opzione ontologica da cui dipende (quella della presenza), Heidegger inizia la conferenza mostrando come Hegel e Husserl, cioè le due più radicali forme di critica al modello di conoscenza proposto dalla rivoluzione scientifica seicentesca siano: 1) completamente identiche se osservate dal punto di vista dei propri presupposti; 2) in realtà totalmente superate dal pensiero scientifico e tecnico. A prima vista sembrerebbe infatti che il modello di verità proposto dalla scienza speculativa hegeliana come autocoscienza dell'Idea assoluta e quello della fenomenologia trascendentale come piena evidenza dei fenomeni siano effettivamente aldilà della nozione di verità come adaequatio. Heidegger però mostra come nell'uno e nell'altro caso il vero si basi sempre e comunque sul concetto di presenza. Nel caso di Hegel infatti l'Idea è la piena presenza a se stessa, il luogo dove non ci sono più zone d'ombra o potenzialità virtuali che devono emergere attraverso il movimento di deduzione delle categorie. In quello di Husserl l'evidenza del fenomeno è fondata sul fatto che la coscienza trascendentale sia accessibile e che le sue strutture siano presenti al soggetto filosofante. Entrambe hanno quindi in comune il richiamarsi alla presenzialità che il principio moderno di soggettività pretende per se stesso e proprio per questo non costituiscono un vero e proprio oltrepassamento della metafisica, quanto un suo rovesciamento che lascia in realtà immutati i suoi presupposti concettuali. Ciò impedisce sia a Hegel che a Husserl di attuare in modo veramente radicale il loro programma di un pensiero alternativo a quello scientifico moderno perché hanno in comune sia il punto di partenza sia il punto di arrivo, solo che la scienza e la tecnica sono una forma molto più sviluppata e comprensiva di pensare metafisico.

Non è qui il caso di mostrare come il ragionamento heideggeriano sia erroneo. Non è questo che mi interessa. A essere interessante è invece l'accostamento più unico che raro di Husserl con Hegel, ovvero di Husserl con quello che in molti luoghi Heidegger indica come il pensatore che meglio esprime l'essenza del pensiero metafisico26. Husserl è frettolosamente e sbrigativamente inserito nel pensiero moderno senza in realtà porsi la questione sulla diversità semantica che termini come idealismo, trascendentale e soggettività assumono nella fenomenologia husserliana. Il giudizio di Heidegger, la sua operazione di riconduzione del pensiero husserliano al principio di soggettività e l'accostamento a Hegel sono indizi più che eloquenti del permanere di quell'interpretazione che fa di Husserl un idealista più in linea con la tradizione moderna

26 Avrò modo di ritornare in seguito sulla travagliata relazione tra Hegel e Heidegger. Cfr. sezione II, cap. II § 1.

(23)

che non con la fenomenologia stessa27.

In un simile contesto di ricezione la Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale arriva come un fulmine a ciel sereno. Nel momento infatti in cui Husserl è considerato il grande erede della tradizione moderna, leggere le sconvolgenti pagine su Galilei, in cui l'intera débâcle del pensiero di inizio secolo sembra riportata all'operazione intenzionale di matematizzazione del mondo, non doveva certo essere semplice. Di questo è testimonianza la ricezione stessa dell'ultima opera husserliana, che ha provocato adesioni incondizionate e delusioni profonde. L'atteggiamento dei pensatori italiani è in questo senso illuminante. Da un lato infatti la Crisi è stata l'opera forse più letta in Italia e che ha maggiormente contribuito a portare Husserl nel nostro paese, apparentemente impermeabile a qualsiasi influsso della fenomenologia, prima a causa dell'idealismo crociano poi dell'imperante marxismo di scuola. Non è un caso quindi che sia stata proprio la geniale operazione di Enzo Paci di coniugare l'istanza marxista di rinnovamento sociale e la teleologia razionale intrisa di afflato umanitario di alcune pagine dei testi husserliani ad aprire ai lettori italiani la possibilità di vedere in Husserl un interlocutore28. La fenomenologia cominciò a rivelarsi non solo come un'arida e scarna computazione dei fenomeni, ma come pensiero del mondo concreto in cui ognuno di noi vive e a cui ognuno di noi deve essere riportato per superare l'alienazione costante prodotta dal macchinario ideologico del capitale. Dall'altro lato però in chi aveva già affrontato testi husserliani e apprezzava le Ricerche logiche per la loro strenua difesa del vero oggettivo, la Crisi apparve come un tradimento dell'ideale di scientificità e un attacco diretto contro la razionalità scientifica29.

Nel bene e nel male tali reazioni mostrano quale fosse stata (e, a dire il vero, è ancora) l'interpretazione dominante dell'ultimo Husserl, ovvero quella di una rottura netta tra la Crisi e gli scritti precedenti. A proposito di tale rottura si inventano le spiegazioni più disparate: Husserl a un certo punto si dovrebbe esser reso conto dell'importanza della storia; oppure: il nazismo e l'esclusione dall'università avrebbero portato all'attenzione di Husserl la crisi generale del mondo moderno. Tutte queste spiegazioni, messe alla prova dei testi, crollano come castelli di carte per il semplice fatto che di storicità Husserl parla

27 Particolarmente significativo è il giudizio dato da Heidegger sugli sviluppi più tardi di Husserl, che si concretizzano in un commento lapidario sulla Postilla alle Idee I del 1928, cfr. Volpi (1988).

28 Si veda l'Introduzione di Paci alla traduzione italiana della Crisi.

29 E' il caso della violenta recensione di G. Preti. Preti, lettore acuto dei Prolegomeni, come mostra un suo bel lavoro su Husserl e Bolzano, cfr. Preti (1935), rifiuta completamente l'ipotesi husserliana che sia la razionalità tecnico-scientifica ad aver portato alla crisi valoriale novecentesca. Su Preti si veda il bel lavoro di R. Gronda (2013).

(24)

almeno dalla seconda metà degli anni dieci30, di Lebenswelt dal 191931 e di problematica europea dal 192432. La Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale non costituisce una rottura nella riflessione husserliana e, se di certo alcune tematiche e alcune modalità di approccio al lavoro fenomenologico sono diverse, derivano direttamente dalla metodologia scoperta da Husserl con la confutazione dello psicologismo tra il 1895 e il 1900. Si crea una rottura se e solo se si presuppone che la fenomenologia husserliana sia una filosofia ancora legata alla tradizione moderna, la quale diventi a un certo punto critica di se stessa – come se Husserl dichiarasse il crollo della modernità per aprire a un “non-si-sa-cosa” successivo. Tra la Crisi e le Ricerche logiche c'è un filo rosso ineludibile, ma per coglierlo è necessario scrostare da Husserl un'immane quantità di pregiudizi. In primo luogo è infatti necessario porsi una domanda molto semplice, ma spesso tralasciata: la posizione sostenuta da Husserl nella Crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale costituisce veramente una critica alla modernità? Detto in modo ancora più semplice, di che cosa tratta la Crisi?

§ 2 – Storie

In una penetrante pagina della Dialettica negativa Adorno scrive:

[…] attraverso la sua trasposizione nell'esistenziale della storicità il sale dello storico viene asportato, la pretesa di ogni prima philosophia a una dottrina di invarianti viene estesa a ciò che varia: la storicità arresta la storia nell'astorico senza darsi pensiero delle condizioni storiche, alle quali soggiacciono la composizione interna e la costellazione di soggetto e oggetto33.

Il compito di distruzione dell'ontologia fondamentale di Heidegger che occupa la prima parte del suo ultimo capolavoro, porta Adorno a comprendere molto meglio di altri l'operazione fondamentale che sta al fondo della parte finale di Essere e tempo: la determinazione della temporalità e quindi della storicità come categoria esistenziale dell'essere dell'esserci. A differenza ad esempio di L. Strauss, che parla sempre e

30 Cfr. Hua / citazioni da Natur und Geist 1915 e Hua IX / AzpS, mettere riferimenti. 31 Si veda il bel lavoro di Kern (1979).

32 Si vedano gli articoli per la rivista giapponese Kaizo, cfr. Hua XXVII / trad. it. L'idea di

Europa.

33 T.W. Adorno, Negative Dialektik, trad. it. di S. Petrucciani, Dialettica negativa, Einaudi, Torino, 2004, p. 119.

(25)

ripetutamente di Heidegger come di uno storicista34, Adorno vede chiaramente come l'operazione fondamentale svolta dalla fenomenologia non sia altro che includere la storia tra le caratteristiche essenziali del mondo umano e, in tal modo, destoricizzarla. Heidegger ha colto in profondità uno dei punti deboli di ogni dottrina che risolva le entità tradizionalmente ritenute immuni dal divenire temporale nel flusso storico: nel momento in cui la storicità di determinate categorie mostra la loro assoluta prospetticità e relatività è la storia stessa a divenire la prospettiva non prospettica del ragionamento. La nozione di storicità serve per l'appunto a spiegare questo circolo in cui si imbatte ogni storicismo.

Ciò su cui Adorno invece si sbaglia è nel credere che la categoria di storicità annulli la contingenza dello storico. Se infatti si leggono con attenzione le pagine di Essere e tempo dedicate a questo problema si nota facilmente che la storicità è semplicemente la determinazione dello storico come condizione di possibilità ineludibile dell'essere del Dasein35. Non c'è essere-nel-mondo che non si realizzi storicamente proprio perché le strutture estatiche della temporalità costituiscono il nocciolo più originario dell'avere a che fare con gli altri, con il mondo e con se stessi. Questo Adorno non poteva capirlo dal momento che dal suo punto di vista la storia è il regno della produzione materiale e di quel particolare a cui il concetto fa violenza ogni qual volta tenta di comprenderlo, identificandolo come parte di sé36. Storicità significherebbe quindi solo e soltanto l'ennesimo tentativo di ricondurre il variabile a una struttura identificante e coercitiva; ma non è così. La storicità heideggeriana non deruba il variabile della sua variabilità. Ogni Dasein e ogni età storica ha i suoi modi empirici e assolutamente contingenti di svolgimento, totalmente indipendenti da ogni possibile necessità. L'unico invariante è che l'empirico storico si dia e sia, come tale, parte fondante dell'esperienza umana del mondo. A conti fatti la visione marxiana per cui l'uomo è e si produce attraverso il lavoro nella storia e quella fenomenologica per cui l'individuo è e può essere solo a partire da un mondo storico grazie al quale comprende il suo sé non sono poi in un'opposizione così radicale.

Nonostante l'indubbia originalità di alcuni spunti heideggeriani, la concezione promossa in Essere e tempo non è certo invenzione di Heidegger. Anzi, su questo punto si mantiene molto fedele all'insegnamento husserliano. La Geschichtlichkeit e la sua importanza per l'intera fenomenologia erano infatti state perfettamente riconosciute da

34 Cfr. Saggio su Heidegger e lettere a Loewith, mettere riferimenti. L'opposizione di Heidegger allo storicismo è completamente conseguente con la sua nozione di fenomenologia su cui avrò modo di ritornare, cfr. parte II, cap. I, § 3.

35 Cfr. GA / trad. it. 394: “L'affermazione «l'Esserci è storico», apparirà come un principio fondamentale di carattere ontologico-esistenziale. Esso è ben lontano dall'essere una semplice constatazione ontica del fatto che l'Esserci rientra nella «storia universale»”.

(26)

Husserl, proprio a partire da quella che potrebbe apparire come la tematica meno interessante – da questo punto di vista – del pensiero husserliano: l'analisi percettiva. L'oggetto percettivo non è infatti qualcosa che appare già bell'e fatto all'io, che deve solo constatarne la presenza. Ogni oggettualità è dotata di un intrinseco modo attraverso cui si realizza come unità dotata di senso, cioè di una modalità grazie a cui assume un significato. Ciò appare evidente nelle analisi percettive condotte da Husserl nei corsi universitari e nei manoscritti dei primi anni '20. L'unità di senso preaffettiva si costituisce nel piano di sfondo sino ad attirare l'attenzione dell'io, che la porta in primo piano permettendole di ottenere quella pienezza di senso che le spetta. Questo processo ovviamente è basato in primo luogo sulla comune sintesi temporale in cui sono comprese le unità affettive e quelle preaffettive37 e, in secondo luogo, sul processo di associazione passiva e di emersione dal piano di sfondo.

Queste strutture – specialmente la sintesi temporale – costituiscono l'eidos della percezione38, ovvero quelle caratteristiche determinate perché si possa parlare di esperienza percettiva e che pongono la condizione di possibilità perché l'oggetto manifestantesi si costituisca come unità si senso percettivo (e non, ad esempio, come unità di significato nel giudizio). L'eidos percettivo mostra quindi come la percezione non sia la facoltà di un soggetto (in nessuno dei sensi possibili di questa parola, intesa o in senso biologico o nel senso di un astratto poter-fare dell'individuo), quanto il processo attraverso cui i vissuti manifestativi, ovvero il livello originario dell'apparire, diventa mondo e ci permette di comprendere quell'apparire come la nostra prospettiva su di esso. L'oggetto è il prodotto unitario di questo processo e, proprio in quanto tale, si determina attraverso quella che Husserl chiama storia intenzionale39, con cui è indicata la stratificazione processuale attraverso cui si costituisce l'oggettualità. Ciò implica che il

37 Cfr. Hua XI, 64/ trad. it. 96. Per una trattazione dettagliata della nozione husserliana di costituzione in relazione alla fenomenologia della percezione si veda il lavoro ormai classico V. Costa (1999). Meno aggiornato, ma sempre utile è il lavoro di Sokolowski.

38 Palando dell'universo che si schiude al fenomenologo una volta svolta la riduzione fenomenologica, Husserl – nel celebre corso su La cosa e spazio del 1907 – precisa (Hua / trad. it. 170): “[...] il nostro [del fenomenologo] mondo, per così dire, è il mondo delle datità assolute, dell'assoluta indubitabilità, il mondo dei “fenomeni”, delle “essenze”, in breve, di ciò che non è toccato dalla posizione dell'esistenza o non esistenza reale. […] Tutto ciò, d'altra parte, considerato nuovamente da noi in seguito alla riduzione fenomenologica; la proposizione come fenomeno, cioè come essenza del giudizio, la percezione come fenomeno, cioè come essenza della percezione, e così via”. Emerge in modo chiarissimo che la nozione husserliana di essenza non altro se non la struttura immanente e originaria che rende ogni oggetto proprio

quell'oggetto. Come viene detto sempre nel corso del 1907 (Hua / trad. it. 172): “Le condizioni

di “possibilità dell'esperienza” sono la prima cosa. Condizioni di possibilità dell'esperienza significa qui, però, nient'altro e nient'altro può significare, se non tutto ciò che è immanentemente presente all'essenza dell'esperienza, nella sua essentia, e che appartiene quindi inesorabilmente ad essa”.

(27)

processo genetico sia parte integrante dell'eidos dell'oggetto, dato che - per essere ciò che è - questo necessita del processo di costituzione.

La nozione di essenza a cui Husserl arriva negli anni '20 è quasi paradossale perché è costituita dal processo ostensivo grazie a cui l'oggetto è ciò che è ed è questo che porta la fenomenologia trascendentale ad affrontare il tema generale della storicità. Se però ci fermassimo al livello – di certo fondamentale, ma non esclusivo40 – della costituzione oggettuale percettiva per l'io individuale, la portata di queste scoperte non ci sarebbe del tutto chiara. L'oggetto percettivo è infatti un entità determinata e particolare, di cui in realtà non si può nemmeno dire che è o è reale in senso proprio, dal momento che essere e realtà sono predicati che si riferiscono non alla percezione, ma al giudizio. In quanto tale il senso percettivo ha una storia intenzionale molto semplice, costituita prevalentemente dai processi automanifestativi dell'esperienza immediata. Molto più complicati e interessanti sono quei processi di stratificazione che necessitano l'interazione tra diversi io (come ad esempio la categoria di realtà, che si dà necessariamente attraverso la reciproca interazione linguistica dei soggetti a livello intersoggettivo) come avviene nel caso degli oggetti scientifici.

Il luogo forse più celebre a questo riguardo è lo scritto dedicato all'origine della geometria, noto soprattutto grazie al poderoso lavoro di esegesi svolto da Jacques Derrida41. Gli oggetti geometrici sono dotati di una universalità e di una generalità loro propria che li pongono, come già veniva affermato nelle Ricerche logiche, al di là dello spazio e del tempo. Il punto husserliano è mostrare come oggetti dotati di un tale statuto epistemico possano divenire oggetto per noi, come questi possano costituirsi in quanto universali. Il problema quindi è la costituzione dell'idealità. Questo conduce alla scoperta della dipendenza dello statuto ideale della geometria dalle pratiche di trasmissione materiale del sapere. L'eidos dell'oggetto geometrico ha una storia nel momento in cui la sua costituzione come oggetto intenzionale implica di necessità la stratificazione di operazioni che in questo caso coinvolgono un'intera comunità di soggetti conoscitivi e non semplicemente l'io individuale come avveniva nel caso della percezione. La manifestazione dell'idealità prevede infatti che l'oggetto sia condivisibile da ogni soggetto, che ogni individuo possa occuparsene e accoglierne come evidente la generalità.

40 Come infatti Husserl precisa nelle Meditazioni cartesiane, il livello di analisi dell'io individuale e degli oggetti che a esso si danno è solo il principio dell'analisi e una sua parte molto limitata, cfr. Hua I, 24.

41 Mi riferisco ovviamente al famoso testo introduttivo alla traduzione del frammento husserliano sulla geometria, J. Derrida, Introduzione all'Origine della geometria di Husserl. In realtà, escludendo E. Fink che aveva ne curato la pubblicazione, il primo a occuparsi di questo saggio è stato proprio J. Klein con il suo saggio Phenomenology and the History of science, in LE, pp. 65-84. Per un confronto tra l'interpretazione di Derrida e quella di Klein si veda Kates (2005).

(28)

Di conseguenza se restasse nella mente del suo ipotetico primo scopritore la geometria non potrebbe costituirsi come sapere ideale, ma rimarrebbe una conoscenza empirica e particolare come ogni pratica mondana. Perciò è necessario che in primo luogo l'oggetto geometrico si istanzi nel linguaggio utilizzato oralmente, attraverso cui lo scopritore possa condividere la sua scoperta con i membri della propria comunità. La comunicazione orale non è però sufficiente affinché il sapere geometrico affermi il proprio statuto. Il linguaggio deve diventare permanente e permettere a ognuno di accedere a se stesso. Non è però nella comunicazione orale tra persone della medesima comunità linguistica che ciò può realizzarsi, ma solo e soltanto grazie alla scrittura, che rende i suoi contenuti permanenti, accessibili e completa il processo di costituzione dell'idealità geometrica.

Si faccia a questo punto molta attenzione. Husserl non sta sposando una prospettiva decostruzionista ante litteram, seguendo la quale è la scrittura a creare il senso. Il significante grafico non costruisce il senso ideale, ma gli permette di manifestarsi ogniqualvolta un lettore riattinge al senso originario attraverso la lettura del testo. Certamente ne è così condizione di possibilità, ma lo è al modo di una struttura che pertiene di necessità a quell'oggetto se vuole diventare veramente ciò che è: un oggetto dotato di validità generale. Di certo queste pagine sono state molto importanti per la formazione della teoria derridiana dell'infinito rimando segnico che annulla ogni pretesa del significato di imperare sul significante, ma Derrida e Husserl sono in realtà molto lontani.

Prova ne è che riflessioni di tal genere non sono nuove nel pensiero husserliano. E' curioso che l'Origine della geometria non sia mai stata messa a confronto con un passo molto trascurato dei Prolegomeni:

Come indica il suo stesso nome, la scienza [Wissenschaft] è diretta al sapere [Wissen]. Non perché essa sia una somma o una trama di atti conoscitivi. La scienza possiede uno status obbiettivo solo nella sua letteratura: solo nella forma delle opere scritte essa ha un'esistenza autonoma, pur nella ricchezza dei suoi riferimenti all'uomo ed alle sue attività intellettuali; in questa forma si riproduce attraverso i millenni e sopravvive agli individui e alle nazioni42.

Husserl non ha scoperto l'importanza delle pratiche di costituzione testuale negli anni '30. Il ruolo e l'importanza della materialità grafica nel processo di creazione, riproduzione e accumulazione del sapere è identico a quello descritto nel testo della Crisi. Sono il linguaggio e la sua componente grafica a permettere alla scienza di assumere quello

Riferimenti

Documenti correlati

In effetti, la letteratura esistente sull’avviamento indaga principalmente le cause e gli effetti della decisione di svalutare l’avviamento a seguito della procedura di

Sulla base di tali osservazioni e al fine di migliorare le interazioni con porzioni lipofile del sito attivo, il mio progetto di tesi ha riguardato al sintesi

I contributi che danno corpo alla miscellanea spaziano dalla medievistica al contemporaneo, tutti rispecchiando gli interessi di ricerca coltivati da Zambon nell’arco

Bisogna, però, tener presente che nei calcoli il termine ܮ rappresenta la lunghezza della baia, per cui essa sarà pari alla lunghezza totale del cassone fratto il numero

Nella Configuration 3, in Figura 6.4 (c), i valori più alti della velocità sono raggiunti nella sezione di uscita sulla destra: il flusso caldo segue il contorno della sezione

T1. It is possible to think of a thing without having the idea of that thing before the mind. This manner of thinking of things without recalling their ideas is nothing else

models, and to compare its behaviour with that of CDDP, oligodeoxyribonucleotides (ODNs) with selected sequences, in single strand, duplex and G-quadruplex form, have been incubated

It is concluded that the ongoing differentiation results in structurally heterogeneous professional groups: in the same organization, it is possible to find both permanent