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condivisibile l’opinione secondo la quale il requisito della patrimonialità sarebbe superfluo, in re ipsa, in quanto è principio generale quello secondo

cui «le vicende relative ai beni a carattere non economico (quelli che

investono problemi e valori non patrimoniali ma latamente morali) sono

ritenute dall’ordinamento rilevanti solo in particolari casi (in specie in

materia di diritti della personalità, di famiglia e delle successioni) mentre di

regola esse sono irrilevanti»

374

.

L’art. 814 c.c., inquadrato nella topografia codicistica, appare di

ausilio all’interpretazione della norma di carattere generale espressa dall’art.

810 c.c.

375

–«sono beni le cose che possono formare oggetto di diritti» –,

che di beni economici si parla anche nell’art. 42 Cost., espressione alla quale viene attribuito il significato di «beni suscettibili di appropriazione e quindi di commercio» (così F. GAZZONI, Manuale di diritto privato, 15a ed., Napoli, 2011, p. 207, il quale

precisa che «si tratta di una affermazione di principio che lascia tuttavia impregiudicato il regime della proprietà e soprattutto l’individuazione dei singoli beni di rispettiva appartenenza»).

374 L’enunciato principio viene espresso da F.GAZZONI, Manuale di diritto privato,

15a ed., Napoli, 2011, p. 564, il quale precisa che «la rilevanza delle vicende relative ai

beni patrimoniali è generalizzata occupandosi il diritto privato essenzialmente della regolamentazione dei traffici e della circolazione di questi beni, laddove i beni a carattere non economico, essendo essenzialmente collegati alla persona, non sono investiti dal problema della circolazione e anzi sono qualificati tra l’altro proprio dall’opposta caratteristica della indisponibilità». Una dottrina minoritaria ma autorevolissima ritiene al contrario che sia «l’aggettivo naturale [ad essere] fuorviante» (A.GAMBARO, I beni, in Trattato di diritto civile e commerciale già diretto da A. Cicu, F. Messineo, L. Mengoni e cont. da P. Schlesinger, Milano, 2012, p. 176). Più specificamente sul punto, v. F.DE MARTINO, Beni in generale - Proprietà, in Commentario

del codice civile, a cura di A. Scialoja e G. Branca, Bologna – Roma, 1976, p. 27; B.

BIONDI, Energia, in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1975, p. 530, secondo il quale il richiamo al valore economico contenuto nell’art. 814 c.c. si spiega con il fatto che la norma del codice civile riproduce letteralmente l’art. 624 del codice penale, dove la sua presenza ben si giustifica, atteso che il furto è un reato contro il patrimonio; nonché O.T. SCOZZAFAVA, I beni, in Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del

notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2007, p. 105, il quale osserva che il

riferimento al requisito del valore economico, operato dall’art. 814 c.c., «ben si spiega considerando che le energie che non hanno valore economico non sollecitano alcun interesse in quanto inutilizzabili. L’economicità limita, quindi, il campo di rilevanza giuridica a quelle energie fruibili, per effetto di un processo di trasformazione a carattere industriale».

375 La letteratura sui beni giuridici è vastissima.

Nel definire i «beni», il legislatore istituisce uno stretto collegamento tra bene e cosa, al punto che si può ritenere che la cosa costituisca il presupposto di fatto essenziale per la configurazione del concetto di bene in senso giuridico (O. T. Scozzafava, I beni,

in Trattato di diritto civile del Consiglio nazionale del notariato, diretto da P. Perlingieri, Napoli, 2007, 9). Sembra perciò opportuno prendere le mosse proprio dalla nozione di cosa che, nel linguaggio comune, designa qualsiasi entità del mondo fenomenico dotata di consistenza materiale, laddove nel linguaggio giuridico il termine cosa può individuare anche entità che non presentino i caratteri della materialità: è il caso, ad esempio, dei diritti sulle opere dell’ingegno (art. 2575 c.c.) e sulle invenzioni (art. 2584 c.c.). Va, peraltro, anche considerato che le stesse cose materiali assumono rilievo per il diritto a prescindere dalla loro dimensione materialistica: basti pensare al fatto che su una stessa cosa materiale possono coesistere molteplici situazioni soggettive (ad es., proprietà ed usufrutto) (O. T.SCOZZAFAVA, Dei beni, in Il codice civile - Commentario,

diretto da P. Schlesinger, Milano, 1999, p. 13). In questo caso vengono a costituirsi diversi diritti con riferimento ad un’unica cosa e sono «diversi gli interessi o le utilità che l’ordinamento giuridico tutela, e le facoltà di utilizzazione e di sfruttamento della cosa che la legge prende in considerazione nel foggiare i singoli diritti quali strumenti di tutela per i soggetti che ne sono i destinatari» (S. Pugliatti, Beni (Teoria generale), in

Enc. Dir., Milano, 1959, 174). In definitiva, può dirsi che ciò che conta per il diritto

non è la conformazione materiale della cosa ma, piuttosto, gli interessi che su di essa si concentrano e che l’ordinamento giuridico ritiene meritevoli di tutela. Nonostante lo stretto collegamento esistente tra cosa e bene, non sembra tuttavia che tra i due termini possa ravvisarsi coincidenza di significato: dallo stesso tenore letterale dell’art. 810 c.c., si ricava, infatti, che nella categoria dei beni in senso giuridico possono rientrare solo quelle cose idonee a diventare oggetto di diritti; pertanto vi sono cose che non sono beni e, di conseguenza, non possono formare oggetto di diritti, e, viceversa, vi sono beni che non sono cose (così F.SANTORO-PASSARELLI, Dottrine

generali del diritto civile, 9^ ediz., ristampa, Napoli, 1974, p. 55). In senso opposto, altra

dottrina ritiene invece che, nel linguaggio del codice civile, i termini cose e beni siano considerati sinonimi. Secondo questa dottrina, infatti, il codice vigente, «al pari del vecchio, continua a parlare di cose per le più svariate materie, adoperando le parole beni e cose in modo così promiscuo da non consentire di attribuire a ciascuna di esse un particolare e diverso significato. Che nel pensiero del Codice beni e cose siano la medesima entità risulta dallo stesso art. 810 che definisce i beni come cose» (così B. Biondi, Cosa (Diritto civile), in Novissimo Digesto italiano, Torino, 1974, 1011). Per quanto riguarda, infine, i «diritti» cui la norma fa riferimento, diversamente da quanto avveniva con il codice civile del 1865 che, all’art. 406, menzionava espressamente il solo diritto di proprietà, l’art. 810 c.c. si riferisce, genericamente, alle «cose che possono formare oggetto di diritti»; diritti che possono , quindi, essere costituiti sia da un diritto soggettivo assoluto, sia da un diritto soggettivo relativo, «dovendosi distinguere ulteriormente il diritto assoluto nelle categorie dei diritti reali, dei diritti della personalità e dei diritti su beni immateriali» (O. T. Scozzafava, I beni, cit., 2). La nozione di bene in senso giuridico viene generalmente (ma non esclusivamente) correlata con la proprietà, che attribuisce al suo titolare «il diritto di godere e di disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico» (art. 832 c.c.). Il «diritto di godere» e il «diritto di disporre» non sono diritti autonomi ma sono, piuttosto, «facoltà o poteri insiti nella situazione proprietaria, aspetti rilevanti del suo esercizio» (P. Perlingieri, Il

diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario delle fonti, tomo II, 3a

consentendo di superare il rigido formalismo che vorrebbe circoscrivere la