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Nei confronti di Israele

Nel documento Hannah Arendt: dall'ebraismo alla politica (pagine 92-110)

Essendo ormai chiaro il collegamento presente in Hannah Arendt tra il suo essere ebrea e la sua determinazione nel sottolineare l’imprescindibilità della politica, sia per la definizione del proprio io, sia per l’importanza che l’agire in questo senso può assumere all’interno dello spazio pubblico, possiamo ora esaminare come il suo studio del Totalitarismo abbia costituito il momento decisivo dove tutto questo diventa evidente. Come già accennato nella conclusione del capitolo precedente, diversi fattori hanno concorso ad una riflessione così approfondita da condurre alla realizzazione di un’opera come Le origini del totalitarismo. Primo di questi fattori necessariamente deve essere menzionata, appunto, l’esperienza di vita della Arendt stessa, della sua ebraicità, ovviamente toccata e percossa dall’avvento del Nazismo: conformemente alla modalità di pensiero ormai conosciuta della nostra autrice, non avrebbe avuto alcun fondamento che una catastrofe di tale dimensioni, non avesse scaturito in lei l’esigenza di un lavoro di altrettanta grandezza. Secondo elemento, già mostrato nel capitolo precedente, è il fatto che per Hannah Arendt, il totalitarismo, come potere senza precedenti, e tutto ciò che ne ha scaturito, «hanno letteralmente polverizzato le categorie del nostro pensiero politico e i nostri criteri di giudizio morale» 208. Di fronte a questo lei non vuole arrendersi al silenzio, ma sforzarsi e farsi

carico, come molti altri intellettuali insieme a lei, del peso così ingente della catastrofe più grande, tentandone una comprensione in apparenza impossibile. Nel modo in cui l’opera si sviluppa, diventa evidente, del resto, la sua volontà di ripercorrere con attenzione i fattori storici e le cause che nel XIX secolo si pongono come essenziali per lo sviluppo del totalitarismo. Questo apre alla nostra riflessione un altro tratto caratteristico del pensiero di Hannah Arendt, ossia la sua volontà di considerare la storia elemento fondante del presente, o come lei stessa dice “autorità sul presente”. Per comprendere infatti gli eventi causati dai regimi del Novecento, «ciò che è irrevocabilmente accaduto e ciò che inevitabilmente esiste»209, risulta necessario per

la filosofa, analizzare il senso del passato, il valore dei fatti accaduti precedentemente, i mutamenti di significato inconsapevoli che caratterizzano il procedere storico e che costituiscono il formarsi di un complesso di valori e concetti variati e, si può dire, oscurati

208 H. Arendt, Comprensione e politica, in Disobbedienza civile e altri saggi, cit., p. 94 209 Ibidem, p. 109

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rispetto al significato originario. 210 L’autorità del passato, dunque, si manifesta soprattutto nel

momento in cui i significati attuali, costruiti tortuosamente attraverso i secoli, diventano così dominanti da non poter essere più messi in questione. Su questo la Arendt si concentra, ponendo in questo il fondamento pressoché generale di ogni sviluppo storico, e, dunque, il caposaldo assoluto per la comprensione di come si sia potuti giungere ad Auschwitz e al totalitarismo tutto. Rimane indissolubile, quindi, il collegamento tra storia e pensiero politico, che, come abbiamo visto, la Arendt riteneva il presupposto ad ogni filosofia. Possiamo in realtà concepire tutta la vita della nostra autrice come un tentativo di porre al primo posto la politica, che invece dopo la filosofia platonica, era diventata superflua e priva di significato. I pensatori, nel corso della storia della filosofia, erano interessati a liberarsi dagli affari umani, per concentrarsi sull’attività filosofica metafisica, e la filosofia politica aveva l’obiettivo di fornire gli strumenti a tal fine. Hannah Arendt, ovviamente, nel suo studio osserva come in realtà nel contesto contemporaneo, nessuno più creda che ci sia bisogno solo di “saggi”. Proprio i fatti traumatici del Novecento abbiano fatto crescere questo interesse: grazie soprattutto a Hegel e all’evoluzione nel concetto di Storia che si ha avuto nell’epoca moderna, rivalutato nel periodo del primo dopo guerra.

Agli occhi di questa generazione, Hegel sembrava aver risolto una volta per tutte il problema decisivo della filosofia politica: come occuparsi in termini filosofici di quella sfera dell’Essere che deve le sue origini esclusivamente all’uomo, e perciò non può rivelare alcuna verità- finché questa è concepita non come invenzione umana, ma data ai sensi e alla ragione dell’uomo211.

In realtà agli occhi della Arendt, parlare di storia in questi termini era rilevante negli anni venti, perché permetteva di prendere sul serio gli avvenimenti successi senza abbandonare l’interesse per la verità212. Consentiva, inoltre, di tralasciare l’idea di progresso cartesiana con cui era stata

identificata la storia, concezione che andava a sostituire la visione greco-classica della mortalità nella natura umana con la supremazia del soggetto, primario protagonista della narrazione pura e semplice dei fatti213. Tutto questo, secondo Hannah Arendt, costituiva solo una parte della

complessità della situazione culturale e filosofica del suo periodo contemporaneo:

210 Basti pensare anche al significato della parola politica, etimologicamente politeia, e lo stravolgimento che ha

subito: dall’accezione primitiva aristotelica con cui si intendeva l’autogoverno degli abitanti liberi della polis, al significato moderno con cui si allude genericamente alla gestione e l’amministrazione della società.

211 H. Arendt, L’atto originario della filosofia politica è lo stupore, in La lingua materna-la condizione umana e il

pensiero plurale, cit., p.62.

212 Ovviamente il processo di riflessione sul concetto di storia e di come è mutuato nel tempo, è decisamente

ampio e complesso; non ritengo qui opportuno approfondirlo per ovvie ragioni.

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In base a un sentimento molto diffuso in Europa, gli eventi del XX secolo hanno portato alla luce e reso pubblica una crisi profonda della civiltà occidentale, di cui i filosofi non accademici erano stati consapevoli prima che essa assumesse una dimensione politica. Gli aspetti nichilistici dei movimenti politici, particolarmente vistosi nelle ideologie totalitarie (che si basano sull’assunto che ogni cosa è possibile, offrendo così una base pseudo-ontologica per la stessa pretesa nichilistica che ogni cosa è permessa) erano infatti così familiari ai filosofi che esse potevano facilmente scoprire in essi le proprie convinzioni.214

Possiamo affermare che l’avvento del totalitarismo ha condotto i filosofi verso la sfera politica, perché proprio in questo contesto le convinzioni teoretiche si facevano tangibili nel mondo; superando anche l’armonia prestabilita di una totalità come presentata da Hegel. Siamo giunti al punto in cui filosofia e politica, pensiero e azione si riconciliano nella Storia. Il termine “storicità” ha iniziato quindi ad assumere un ruolo importante nella filosofia tedesca, fino ad arrivare a Heidegger che è arrivato a definire la storia in termini ontologici nel suo Sein und Zeit, con l’intenzione dunque di abbandonare qualsiasi spirito trascendente o Assoluto, e quindi la pretesa di poter, dunque, disporre dei criteri eterni del mondo. La Arendt, come abbiamo visto nel capitolo precedente 215, si allontanerà dal suo maestro, perché, pur ritenendo validi i

presupposti del suo pensiero, avrà l’intenzione di andare oltre. Abbiamo anche ormai capito, arrivati a questo punto, come questo suo itinerario intellettuale, sia motivato da ciò che era la sua vera convinzione, ossia che ogni forma di pensiero, filosofia, politica o storia, dovesse avere come inizio e fine il riscontro del reale del mondo. Ecco che allora lo stupore del mondo, il ϑαῦμα aristotelico continua ad essere la base e il fondamento di ogni teoria, di qualsiasi tipo essa sia.

L’autentica filosofia politica non potrà scaturire soltanto da un’analisi delle tendenze, dei compromessi parziali, delle reinterpretazioni o, al contrario, dalla ribellione contro la stessa filosofia. Come tutti i rami della filosofia, potrà scaturire da un atto originario di thaumazein- dallo stupore.216

Lo studio del totalitarismo e l’opera che ne è derivata si sono dimostrate una chiara dichiarazione di tutto questo, cosa che comunque la Arendt non aveva mai nascosto217. La

dimensione e l’importanza di questa opera è evidente infatti se collocata al centro di tutti questi

214 H. Arendt, L’atto originario della filosofia politica è lo stupore, cit., p. 63 215 Vedi Cap. II, pp.38-42

216H. Arendt, L’atto originario della filosofia politica è lo stupore, cit., p.83

217 Non bisogna dimenticare che proprio per questo suo attaccamento alla realtà delle cose, ella stessa aveva

smesso di presentarsi come una filosofa, preferiva altresì definirsi una “storica politica”. “Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione (Beruf), per parlare in generale, è la teoria politica” da H. Arendt,

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aspetti che hanno caratterizzato la vita e il pensiero dell’autrice. In essa risiedono tutti i suoi temi più rilevanti, che, anche se non compiuti, traggono qui le sue radici. Non è difficile dedurre il fatto che, per esempio, la formulazione e lo sviluppo teorico del pensiero politico che possiamo riscontrare nelle sue opere successive, risiedano in nuce in questo lavoro. Il significato che il totalitarismo poteva avere per lei in quanto ebrea, la volontà di osservare e guardarsi intorno che le era stata procurata proprio da questa sua condizione di perenne emarginazione, lo shock che il regime le aveva causato, non poterono che influire sulla realizzazione de Le Origini del totalitarismo. Quest’opera costituisce il primo mattone di quella che sarà la costruzione complessiva del pensiero arendtiano, una riflessione attenta degli eventi e degli elementi che compongono la realtà intorno a lei, da cui ella stessa, per ovvi motivi, si sente toccata profondamente. Per questo motivo presenta completamente la realtà dei fatti, non si limita a descrivere una parte della storia, ma cerca sempre di mettere in campo l’universalità degli eventi e i loro responsabili, coinvolgendo anche lo stesso popolo ebraico, la cui osservazione e studio, dal punto di vista storiografico, non ha mai abbandonato il pensiero arendtiano. Da qui si muove l’analisi, e spesso, la critica nei confronti della politica ebraica, che sotto i suoi occhi, da essere assente, a suo giudizio, per gran parte della storia, giunge a esercitare il suo potere su un vero e proprio stato, quello di Israele.

In linea con la sua concezione di partecipazione politica era necessario darsi una collocazione esistenziale in termini storici e di appartenenza ad una tradizione, motivo per cui non ha mai rinnegato il suo ebraismo. Essere ebrei, riconoscere ed accettare tutto ciò che questo comporta, è il punto di partenza per un agire politico nel mondo. Solo partendo da questa realizzazione, rivendicando per sé e per il suo popolo la condizione di diversità e esilio, Hannah Arendt arriva a concepire una teoria politica in cui lei, come tutti gli altri ebrei possono realizzare se stessi, in una completa emancipazione. Prendendo le mosse da questa posizione filosofica, la Arendt non cessa mai di scontrarsi con il significato storico e politico dell’agire del suo popolo. Il suo intento è sempre stato quello di ritrovare nella storia e nell’atteggiamento politico del popolo ebraico i motivi che lo hanno condotto agli estremi a cui è arrivato. Questo, come abbiamo già descritto nel primo capitolo, era stato il motivo che la aveva spinta ad avvicinarsi alla storia moderna, fin dalle sue prime fasi. Era infatti determinante per lei la fase in cui gli illuministi, ebrei e gentili avevano tentato di conciliare il giudaismo classico con una visione universalistica della cultura, suscitando una opposizione da parte dei religiosi, cristiani o ebrei che fossero. Questo perché l’accesso alla società dei gentili era collegata alla perdita più o meno profonda dei caratteri tipici ebraici, e soprattutto slegata dalla tradizione religiosa. Si stava attuando il tentativo di trarre dall’ebraismo quei valori e quei principi che potevano diventare

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comuni con l’Illuminismo, perché accessibili non necessariamente a partire dalle Sacre scritture, ma deducibili con la ragione universale. Quelle «verità eterne»- riporta Hannah Arendt- che «costituiscono il fondamento della tolleranza»218. Partendo dal presupposto che

«la ragione comune a tutti è stata ugualmente accessibili a tutti gli uomini in ogni tempo»219, si

poteva dedurre l’abbandono dell’idea della religione positiva, e, dunque, una totale assimilazione a quelli che erano i principi e i modi della cultura del tempo, provvedimento che, in realtà, avrebbe dato ai singoli ebrei la possibilità di quella tanto desiderata emancipazione a livello sociale. Con l’ingresso nel XIX secolo, periodo in cui si arrivò all’emancipazione effettiva della maggioranza ebraica in molti paesi europei, si realizzò necessariamente una definitiva disgregazione dell’antico quadro in cui si era svolta l’esistenza ebraica, proprio a causa del carattere prevalente pratico della religione ebraica. Mutò radicalmente il modo di vita e di pensare degli ebrei che si trovavano adesso di fronte ad una scelta consapevole: la fedeltà al giudaismo o i vantaggi dell’assimilazione, pariah o parvenu220. I tratti caratteristici degli

ebrei emancipati erano e rimasero la divisione in loro stessi tra l’orgoglio e l’imbarazzo della loro ebraicità, legata all’incapacità di trovare un equilibrio tra la vita pubblica e la sua esperienza esteriore.

La sorte sociale dell’ebreo medio era determinata dalla sua eterna indecisione. E la società non lo spingeva certo a rompere gli indugi, perché era decisamente questa ambiguità di situazione e di carattere che rendeva attraenti le relazioni con gli ebrei. La maggioranza degli assimilati vivevano così in uno stato crepuscolare di favore e sfavore, e di sicuro sapevano soltanto che il successo e la sconfitta erano inestricabilmente connessi con la loro origine. Per essi la questione ebraica aveva perso per sempre qualsiasi significato politico; ma proprio per questo li perseguitava nella vita privata e influiva tirannicamente nelle loro decisione personali.221

Nell’analisi arendtiana questa indecisione era stata un fattore che aveva contribuito allo sviluppo di tutti quei movimenti antisemiti europei che avevano portato alla tragedia estrema del regime nazista. Tenendo presente anche la storia degli ebrei e la posizione che avevano occupato fino a quel momento, di cui la Arendt fa una lunga trattazione in Le origini del totalitarismo. Ponendo come inizio il periodo storico degli stati nazionali, mostra il ruolo svolto in questa forma di governo dagli ebrei. Essi avevano acquistato prestigio e privilegio occupando il posto di banchieri indispensabili, in quanto fornivano capitale allo stato. Verso la metà del XVIII secolo praticamente ogni corte aveva un proprio finanziatore ebreo, la cui posizione veniva sfruttata dalle comunità ebraiche: grazie a lui avevano la possibilità di esporre i propri

218 H. Arendt, Illuminismo e questione ebraica, cit., p.21 219 Ivi

220 Vedi capitolo 1, pp.19-22

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problemi a corte e avere un canale privilegiato per risolverli. Questo contribuì a far sorgere un diffuso sentimento antiebraico tra i gentili. Inoltre utilizzavano la loro fama e le loro conoscenze internazionali; la loro fitta rete di relazioni internazionali li rendeva pertanto sospettati di poter manovrare i singoli stati mediante una società segreta. Ovviamente essendo gli ebrei così legati al governo dello stato nazionale, erano oggetto dell’odio di qualsiasi gruppo o classe sociale in tensione con lo stato stesso. Questa posizione si acuì nella Prussia dopo la sconfitta ad opera di Napoleone, dove l’aristocrazia, in totale opposizione con lo stato, si scaglio contro gli ebrei come simbolo dello stato stesso. La volontà da parte del popolo ebraico di non inserirsi nelle questioni politiche degli stati, di non attuare una partecipazione vera e propria, bensì di rimanere al di sopra di tutto questo, occupando un ruolo indispensabile per l’apparato economico, erano comportamenti che, secondo Hannah Arendt, non potevano che suscitare un odio e un antagonismo nei confronti di questo gruppo sociale. Inoltre, l’ossessione dell’ebreo ad assimilarsi non contribuiva certamente ad un miglioramento della sua immagine.

La sventura degli ebrei, dai tempi dei privilegi generali degli ebrei di corte e dell’emancipazione degli ebrei d’eccezione, è stata che il parvenu è diventato, per la storia del popolo, più decisivo del paria; che Rothschild era più rappresentativo di Heine; che gli ebrei erano più orgogliosi di un qualsiasi primo ministro ebreo che di Kafka e di Chaplin. […] mascherato da filantropo, il

parvenu ha avvelenato tutto il popolo, imponendogli il suo ideale. Il filantropo ha del povero un

accattone, e del paria un futuro parvenu222.

Con il progredire di questa situazione, di cui il caso Dreyfus è il simbolo maggiore, sorge sempre di più l’esigenza di una risoluzione, che per la prima volta per questo popolo, assume i connotati di proposta politica: il Sionismo, il cui primo e massimo teorico fu ovviamente Theodor Herzl. Superata la prospettiva ristretta che faceva del Sionismo, il movimento mirato esclusivamente alla colonizzazione della Palestina per uno stato ebraico, esso divenne un’organizzazione su scala mondiale che, come altri intellettuali, Hannah Arendt percepì come una vera e propria ideologia. Questo fatto non rendeva Herzl e il suo movimento troppo lontano da quell’ambiente ostile, contro il quale esso stesso si muoveva, anzi: a suo avviso Herzl «scrisse Lo stato ebraico sotto l’influsso diretto e violento di queste nuove forze politiche»223.

Nell’interpretazione arendtiana di questo movimento, il suo fondatore si mostra totalmente coinvolto e dominato dalla mentalità del tempo, a tal punto da dichiarare di arrivare a comprendere in sé l’antisemitismo stesso; non solo, dunque, le sue cause e implicazioni, bensì la sua esistenza. Altro tratto che condivideva con i capi dei nuovi movimenti, soprattutto

222 H. Arendt, Pazienza attiva, in Antisemitismo e identità ebraica, Edizioni di Comunità, Torino, 2002, p.14 223 H. Arendt, Lo stato ebraico: 50 anni dopo, dove ha portato la politica di Herzl, (maggio 1946), in Ebraismo e

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antisemiti, era l’irrefrenabile volontà di agire ad ogni costo; una smisurata intraprendenza, che, a suo parere, doveva sottostare a forze e leggi inevitabili della storia e della natura. L’antisemitismo era una di quelle.

L’antisemitismo era una forza irresistibile e gli ebrei avrebbero dovuto utilizzarla o ne sarebbero stati divorati. Secondo le sue stesse parole l’antisemitismo era la «forza motrice» responsabile, fin dalla distruzione del Tempio, di tutte le sofferenze degli ebrei, e avrebbe continuato a causare sofferenza finchè gli ebrei non avessero imparato a utilizzarla a loro vantaggio. In mani esperte questa «forza motrice» si sarebbe dimostrata il fattore più salutare nella vita ebraica: sarebbe stata utilizzata nello stesso modo in cui si utilizza l’acqua bollente per produrre energia224.

Questo era il motivo che spinse Herzl a ipotizzare una possibile collaborazione con onesti antisemiti che si sarebbero potuti mostrare disponibili a supportare l’obiettivo sionista della fondazione di uno stato ebraico con prestiti o con aiuti per trasportare beni e persone; in questo modo gli antisemiti si sarebbero potuti mostrare come i principali alleati della causa sionista. Una cosa certa è comunque che, agli occhi di Hannah Arendt, l’iniziativa di Herzl risultò essere qualcosa di nuovo e rivoluzionario nell’atteggiamento che fino a quel momento era stato tipicamente ebraico; per la prima volta si stava manifestando una vera e propria volontà di agire. Fino a quel momento, Hannah Arendt ritiene ci sia stato solo un episodio in cui dai tempi della diaspora, il popolo ebraico aveva voluto tentare di cambiare la sua condizione di emarginazione e di atteggiamento politico passivo, che si basava sul ricordo di un remoto passato e la speranza di un remoto futuro: questo era stato il movimento mistico-politico di Sabbatai Zevi225. Agli

occhi di Hannah Arendt, questo era stato l’ultima grande iniziativa degli ebrei, che conclusasi in catastrofe, aveva prodotto conseguenze che sarebbero state determinanti per gli atteggiamenti e le convinzioni tipicamente ebraiche da lì ai secoli a venire. Con questo movimento si compie una definitiva disillusione su quello che la religione poteva garantire: essa non poteva più fornire una struttura salda con cui soddisfare le proprie esigenze politiche, spirituali e quotidiane. Da quel momento in poi ogni ebreo, credente o meno, «ha dovuto giudicare gli eventi secolari da un punto di vista laico e prendere decisioni secolari in termini laici»226. Dopo

questo tentativo, l’atteggiamento ebraico tipico è diventato quello della “sopravvivenza ad ogni costo”, che, secondo la Arendt, non ha permesso un vero e proprio sviluppo politico.

Nel documento Hannah Arendt: dall'ebraismo alla politica (pagine 92-110)

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