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Hannah Arendt: dall'ebraismo alla politica

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Academic year: 2021

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1 Introduzione

L’obiettivo che mi sono prefissata nella stesura del mio elaborato è quello di intuire il ruolo che l’ebraismo può aver assunto nel pensiero di Hannah Arendt. Lei, ebrea del Novenceto, il secolo più buio per questo popolo, lei filosofa, pensatrice inserita nel suo tempo, riflette in maniera controversa su quella che è la realtà tragica che la circonda, ma soprattutto su come lei, in quanto donna ebrea, possa rapportarsi con essa. Ciò che rende ardua questa mia impresa è il fatto che la sua opera risulta essere un grade impasto di riflessioni che spaziano tipi più svariati, da quello filosofico-teoretico, a quello storico e soprattutto politico.

Il tentativo di comprensione del suo presente, e quindi, della catastrofe storico-politica del Novecento, si realizza in maniera intrecciata alla volontà di capire se stessa, il ruolo e il senso della sua ebraicità, il posto che quest’ultima le fa occupare nel mondo. Si intuisce quindi fin da subito il motivo per cui la sua riflessione sull’ebraismo non può essere vista in senso culturale, tanto meno religioso, bensì costituisce la dimensione esistenziale con cui ella si presenta al mondo, e quindi, in fin dei conti, una questione politica, una questione, cioè, di rilevanza pubblica, in un momento storico come il suo, dove l’essere ebreo comportava al livello sociale un trattamento atroce, ossia l’essere emarginato prima, perseguitato e condotto a morte dopo. Il mio obiettivo allora, con questo lavoro, è quello di mettere in luce il modo in cui la Arendt, in quanto personaggio pubblico, con la sua notorietà dovuta al suo scrivere, pubblicare, insegnare si sia fatta carico della sua esistenza, del suo destino, con l’incondizionata volontà di accettarlo nella sua interezza, per mantenere un rapporto stretto e diretto con la realtà, nonostante le tempeste, gli sconvolgimenti e sradicamenti che questa le procura1. Nella prima

parte del mio lavoro, dunque, mi sono soffermata sulla vita della filosofa evidenziandone principalmente i tratti biografici legati al suo essere ebrea. Questi diventano infatti determinanti per capire il suo interesse e la sua volontà di comprendere la propria identità, indissolubilmente legata ad un destino segnato dal dolore. Per questo dunque, ho proceduto andando a descrivere l’interessamento che ha dimostrato per grandi personaggi del popolo ebraico nei quali ella, in qualche modo, si è potuta immedesimare o comunque indirettamente confrontare; prima fra tutti Rahel Varnhagen ma anche personalità di grande talento come Kafka, Heine, Lessing…, i quali finiscono per fornirle un modello per come vivere la propria condizione di ebrea pariah, senza rinnegare, come fa il parvenu, la propria identità, il proprio essere, la propria origine. E’

1 “La questione è sapere quale misura di realtà occorre mantenere anche in un mondo diventato disumano, se

non si vuole ridurre l’umanità a vuota parola o fantasma. In altri termini, fino a che punto rimaniamo obbligati al mondo quando ne siamo stati espulsi o ci siamo ritirati da esso?” da H. Arendt, L’umanità in tempi bui.

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proprio con quest’ultimo concetto che concludo la prima parte del mio scritto: origine in senso di storia e passato, origine da comprendere per vivere il presente, origine in senso di nascita intesa come il modo in cui si entra a far parte di un mondo che per quanto crudele va fronteggiato. Riflettere su questa, sulla storia e dunque sul concetto di natalità, inteso come atto che ci introduce nel mondo, e quindi prima pulsione all’azione nella nostra realtà, finisce per essere il modo con cui interpretare l’esistenza stessa. Diventa determinante allora legare la propria esistenza al contesto di realtà in cui è inserita, ad una mondanità e ad un apparire al mondo che imprescindibilmente porta con sé il rapporto e la relazione con gli altri. Questo tema da cui partono i grandi pensatori ebrei del suo tempo, è trattato dalla Arendt nella sua tesi di dottorato incentrata sul tema dell’amore, precisamente l’interpretazione che lei dà di quello agostiniano, utilizzato per descrivere e riflettere sul rapporto del soggetto con sé stesso, le cose del mondo e gli altri. Fin dalla sua prima pubblicazione, il concetto di pluralità appare essere il punto focale del suo pensiero, a tal punto da diventare il fondamento e il presupposto di tutto il pensiero arendtiano, soprattutto per quanto riguarda l’ambito politico, di cui mi occupo nel secondo capitolo. Introduco questo tema, andando ad osservare la reazione che la Arendt ha nel momento della sua presa di coscienza di che cosa significhi essere ebrea: la sua decisione di lasciare la Germania, di abbandonare il mondo intellettuale da cui, per certi versi si sentiva tradita, la volontà di dedicarsi e quindi impegnarsi totalmente a ciò che succede nel mondo, e quindi una sorta di attivismo politico, sia a livello pratico, con il suo impegno nelle associazioni sioniste, sia a livello intellettuale, con il suo congedo dalla filosofia. La sua decisione, che non si attuò mai realmente, a mio avviso, di abbandonare il mondo della filosofia da cui era stata formata, ricava le sue radici nella riflessione che lei compie riguardo al concetto di realtà, che la porta a formulare teoricamente un progressivo allontanamento dalla filosofia tradizionale, in favore di una filosofia dell’esistenza, introdotta da alcuni grandi pensatori del suo passato, tra cui Schelling e Kant. È questo il momento in cui la Arendt, così provata dal contesto storico in cui vive, cessa di identificare il fine del pensiero come ricerca e contemplazione dei principi ultimi, ma ritiene esso fondamentale e imprescindibile per l’interrogarsi e il riflettere sul mondo vero, sui fatti e eventi che vi capitano, che ogni uomo, per prima cosa necessaria, è destinato a vivere. Tutto ciò fornisce le basi per approdare al contenuto politico vero e proprio della teoria arendtiana, che tratto nella parte centrale e che fa da base alla formulazione antropologica che la Arendt offre. Riflettendo su vari testi, tra cui il principale è Vita Activa, analizzo in questo secondo paragrafo del capitolo, la definizione che la Arednt da di uomo a partire dalla sua condizione di apparenza, pluralità, mondanità, alterità; tutti elementi che portano la pensatrice a concepire la politica come senso ultimo dell’uomo stesso, unico ambito dove l’uomo ha

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davvero la possibilità e il dovere di agire. La valenza politica dell’esistenza degli uomini, dunque, è costituita dalla «mera passività del loro essere»2 , dal loro esistere e apparire nel

mondo. L’uomo, quindi, secondo questa visione, non può che vivere il contesto in cui esiste, partecipando attivamente. La partecipazione, il darsi alla propria realtà finiranno per costituire l’essenza stessa dell’uomo, che in una realtà di politica sana, si identificherà con una partecipazione allo spazio pubblico che andrà a comprendere l’intera vita stessa del cittadino, come avveniva in un contesto come quello della polis greca. In un tale mondo teorizzato, ogni singolo uomo ha il dovere e il diritto di esistere e apparire, in quanto portatore di se stesso, portatore di diversità e alterità rispetto all’altro. Ritengo sia questo un punto importante in cui si palesa la comprensione che la Arendt da alla propria ebraicità: indipendentemente da qualsiasi credo culturale, tantomeno religioso, essere ebrea costituiva il suo essere, il suo modo in cui si dava al mondo, e nella sua riflessione politica, lei, come chiunque altro, di qualsiasi razza e identità, doveva trovare il suo spazio, doveva esistere e dare il suo apporto nello spazio pubblico, che costituiva il luogo in cui chiunque è tenuto a vivere. Non è difficile supporre il motivo per cui la Arendt abbia lavorato così a fondo nello studio sul totalitarismo allora. Nella parte finale di questo capitolo analizzo l’opera che ha prodotto su questo tema, Le origini del totalitarismo, mettendo in luce i punti in cui i valori principali della teoria politica della Arendt vengono annientati dai regimi nazista e stalinista, che avevano coinvolto l’intera Europa nel suo periodo. Seguendo il filo della sua riflessione non posso quindi che mettere in luce come la catastrofe dei sistemi totalitari sia in realtà risultato di una carenza politica che aveva coinvolto tutta l’Europa, contraddistinta ormai da una società passiva, interessata solo agli aspetti economici, che aveva annientato la possibilità di un agire vero dell’uomo, di una partecipazione in ambito politico dei singoli uomini, e dunque, l’imprevedibilità che da queste sarebbe dovuta scaturire. Con l’arrivo del Reich e del dominio stalinista, definitivamente si elimina la possibilità di definizione dell’uomo così come la Arendt l’aveva intesa, non troppo lontana da quella aristotelica di zoon politikòn, così come era stata illustrata in Vita Activa.

Considerando il suo attaccamento alla realtà, considerando gli eventi storici a cui aveva assistito, considerando che, come ho già dichiarato, il tema centrale del mio lavoro è il rapporto che questa pensatrice ha con la sua identità da ebrea, non ho potuto concludere il mio elaborato, se non andando ad analizzare nel terzo capitolo le posizioni e le considerazioni che la Arendt assume nei confronti del suo popolo, che proprio in quegli anni affronta i due grandi avvenimenti che ne segneranno il futuro ancora visibile: l’Olocausto e la formazione dello Stato di Israele. Anche in questo caso, i due grandi eventi finiscono per essere motivo di riflessione

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per l’autrice che non si limita a fare le sue considerazioni sui fatti che stavano avvenendo, bensì, partendo da questi, compie ulteriori riflessioni che la fanno approdare alla formulazione di ulteriori teorie politiche e, soprattutto, morali. È qui che mi soffermo, infatti, prima di tutto sulle posizioni che lei assume riguardo ai movimenti sionisti, nel pieno della sua attività politica, a ridosso e durante la seconda guerra mondiale, da cui lei arriva a distaccarsi completamente per scelte che non condivideva affatto; nella seconda parte del capitolo, invece, mostro velocemente la questione morale tanto discussa e polemizzata, sollevata dal caso Eichmann da cui ha seguito l’approfondimento del problema di male radicale/male banale, che ha reso molto noto il pensiero della scrittrice.

Ancora una volta, nel riflettere su questi temi, è risultato chiaro come l’uomo, con le sue caratteristiche, con i suoi fatti, con i suoi contesti storici siano sempre il punto di partenza del pensiero arendtiano, che proprio per questo motivo vuole tenere al cento di ogni riflessione l’umanità che vive in questo determinato mondo. Il fatto che lei sia ebrea, allora, il fatto che abbia vissuto nel periodo più tragico per questo popolo, finisce per essere per il motivo che la spinge a concentrarsi su quelle che sono le categorie, gli attributi, le peculiarità, con cui l’uomo avrebbe dovuto resistere ai grandi tempi bui. L’agire vero, quello di una sana politica, imprescindibilmente legato alla capacità di giudizio, le due facoltà definitorie dell’uomo, sono state messe in ginocchio, se non annientate, dal suo tempo. Allora, arrivati a questo punto, ritengo opportuno sostenere che per la Arendt rispondere alla domanda che cosa significa essere ebrei, sia solo uno dei tanti modi per mostrare e dichiarare che cosa significa essere uomini, dal momento in cui mai si era verificato una tale distruzione del concetto di uomo, come nel Novecento, proprio il secolo che il destino ha serbato per la nostra filosofa.

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5 Capitolo 1

1. Una vita da ebrea

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Il 14 ottobre 1906, in un sobborgo di Hannover chiamato Linden, viene alla luce Hannah Arendt, e inizia così la storia di una donna, di un’ebrea nel novecento, di una filosofa umile e interessata prima, premiata e di successo dopo, di una politica, di una scrittrice, di una personalità celebrata e citata, ma anche discussa e contestata, ma soprattutto di una persona innamorata del mondo e che proprio partire da questo Amor mundi, ha sempre agito e vissuto. I suoi genitori Paul e Martha Arendt erano cresciuti a Königsberg, dove crebbe anche la stessa Hannah, in famiglie appartenenti alla borghesia ebraica tedesca. In questa città erano già presenti agli inizi del novecento gruppi di sionisti, soprattutto in ambito universitario, ma le generazione anziane degli ebrei tedeschi, tra cui le famiglie degli Arendt, non vedevano di buon occhio queste associazioni4. Entrambi gli Arendt avevano studiato e viaggiato di più rispetto

agli altri componenti delle loro famiglie e avevano, quindi, una cultura più ampia e solida. Dal punto di vista politico si consideravano di sinistra e entrambi avevano sostenuto il partito socialista, cosa che distingueva loro dagli altri coetanei, che generalmente appartenevano al partito democratico tedesco. Non erano religiosi, ma vollero comunque impartire una formazione ebraica alla figlia che iniziò a seguire il Rabbino Vogelstein, fin da piccola. Per lui Hannah iniziò subito a nutrire una forte passione, di totale dedizione ma, con il tempo, anche da atteggiamento provocatorio, spesso indirizzato al ruolo che lui occupava. Questa educazione religiosa sarebbe stata l’unica ricevuta dalla Arendt in tutta la sua vita. Anche grazie al rabbi Vogelstein, avrebbe capito, in seguito, quanto i dubbi di fede e le lotte interiori non fossero essenziali per determinare un’identità ebraica, che lei, sebbene in maniera controversa, vorrà sempre manifestare di fronte al mondo. Il vero momento in cui si rese conto di cosa significasse per lei e per il mondo il suo ebraismo è stato nel 1933, quando per l’avvento di Hitler e le conseguenti politiche antisemite, decide di fuggire a Parigi insieme al marito Günther Stern.

3 Le informazioni contenute in questo paragrafo sono, per la maggior parte, tratte dalla fondamentale opera

biografica su Hannah Arendt, di Elizabeth Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975, per amore del mondo, Bollati Bolinghieri, Torino, 1990.

4 Sembra che proprio in questo periodo, Max Arendt, il padre di Paul , avesse incontrato Kurt Blumenfeld, che

in seguito sarebbe stato il Presidente dell’Organizzazione sionista tedesca, oltre che il mentore di Hannah per quanto riguarda il suo appassionato impegno nel Sionismo, ma anche nella teoria politica in genere, e che proprio in questa occasione ebbero uno scontro violento, poiché il signor Arendt rifiutava la posizione sionista in quanto rigettava tutto ciò che potesse mettere in ombra la sua germanicità.

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Fino a questo evento sappiamo che per lei essere ebrea non aveva significato niente di particolare, nessuna sensazione di diversità o inferiorità, solo un dato di fatto. Questo anche per il contesto in cui Hannah Arendt visse durante la sua infanzia: l’antisemitismo a Königsberg non era molto evidente, visto il gran numero di ebrei assimilati che vi abitavano; c’erano insegnanti ebrei e artisti ebrei, medici e avvocati, alcuni addirittura avevano cattedre onorarie presso l’università (anche se all’insegnamento universitario gli ebrei non avrebbero potuto aspirare). La cerchia degli amici degli Arendt era composta da professionisti, tra cui diversi non ebrei; nonostante tutto questo a Hannah, come agli altri bambini ebrei, capitava di sentire la parola “ebreo”, magari in tono anche dispregiativo, lei, però, ne rimaneva più illuminata o interessata piuttosto che turbata. In un’intervista televisiva, rilasciata nel 1964 parla così della sua infanzia: Un po’ più grande ma sempre bambina io sapevo che avevo un aspetto da ebrea e cioè un aspetto un po’ diverso dagli altri. Ma non in modo che mi facesse sentire inferiore: lo sapevo e basta, tutto qui. E anche mia madre, anche la mia casa erano un po’ diverse da come sono di solito le case, anche se paragonate a quelle di altri bambini ebrei. tutto mi sembrava un po’ diverso, ma è molto difficile per un bambino dire precisamente in che cosa consiste la differenza (..). Mia madre non era molto teorica, la “questione ebraica” non aveva per lei alcuna importanza. Naturalmente era un’ebrea! Non mi avrebbe mai fatto battezzare e me le avrebbe date sul serio se mai avesse avuto motivo di credere che negavo di essere ebrea. Ma l’argomento non era mai oggetto di discussione, era fuori questione che lo fosse (…). tutti gli ebrei venivano a contatto con l’antisemitismo. E l’animo di molti bambini ne veniva avvelenato. Con me la differenza stava nel fatto che mia madre insisteva perché io non mi lasciassi umiliare. Ci si deve difendere! (….). ci si doveva difendere da soli da osservazioni fatte da altri bambini. Quindi queste cose non sono mai diventate problematiche per me. C’erano regole di condotta, le regole della casa per così dire, dalle quali la mia dignità veniva protetta, protetta in modo assoluto.5

La morte del padre prima, nel 1913, e dell’amato nonno poco dopo, resero l’infanzia di Hannah tragicamente triste a tal punto che iniziò a sviluppare un carattere determinato e in parte anche arrogante nei confronti soprattutto del sistema scolastico e degli insegnanti; la contraddistingueva, però, una grandissima intelligenza e prodigiosa acutezza. Tutto consolidato dalla madre, che, apprensiva, arrivava ad assecondare e difendere Hannah in ogni situazione. Proprio per questo tipo di diverbi venne espulsa dal liceo ginnasio femminile Luiseschule di Königsberg, nel 1921. Decise di andare a seguire dei corsi universitari a Berlino nel 1922. Qua inizia a studiare seriamente Greco, Latino e Fenomenologia della Teologia Cristiana con Romano Guardini. Dopo questo periodo, e dopo aver sostenuto gli esami a Königsberg per potere

5 H. Arendt, Che cosa resta? Resta la lingua, in Archivio Arendt I, 1930-1948, a cura di Simona Forti, Milano,

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poi accedere all’università, nel 1924 inizia a frequentare l’università di Marburgo, dove conosce colui che sarà decisivo per il suo sviluppo personale e intellettuale: Martin Heidegger. Per descrivere questo grande maestro, nel momento e nel contesto in cui lei lo ha incontrato, Hannah usa queste parole:

il re nascosto [che] regnava sul reame del pensiero: un reame che, anche se affatto di questo mondo, è tanto celato in esso che non si è mai del tutto certi che esista veramente.6

La Arendt inizia l’università nel bel mezzo di una rivoluzione filosofica, quella fenomenologica di Husserl e quindi di Heidegger, ma anche quella dovuta ad una riflessione sulla filosofia stessa, che stava pian piano acquisendo un significato e un senso diverso; proprio nelle lezioni e nei seminari che Hannah Arendt frequentava, Essere e tempo stava prendendo forma. La filosofa venne completamente assorbita da questo clima così inteso, si rendeva conto di essere partecipe di un cambiamento irreversibile che avrebbe segnato la storia del pensiero. Come dice Elizabeth Young Bruehl a proposito di Heidegger:

ma quando conobbe Heidegger, tutto cambiò per Hannah Arendt. Heidegger era come il personaggio di una leggenda romantica: dotato di un talento al confine col genio, poetico, sdegnosamente in disparte nel mondo accademico e indifferente all’adulazione studentesca, bello in suo modo severo, vestito con abiti semplici di foggia contadina.7

Qua a Marburgo oltre alle lezioni di Heidegger, studia anche con Rudolf Bultmann per un seminario sul Nuovo Testamento. Tra le persone che conosce in questi anni, di sicuro spicca la figura di Hans Jonas, studente alle prime armi come lei, con il quale stringe un’amicizia che durerà per tutta la vita. Nel 1926 decide di andare a passare un anno a Friburgo, per seguire un seminario con Husserl; dopo di che, ritenendo la loro relazione pericolosa e possibilmente compromettente per entrambi, Heidegger invita la sua amante ad andare a scrivere la tesi di dottorato a Heidelberg. Qua ha la possibilità di studiare con un altro grande filosofo del novecento, Karl Jaspers, che proprio in questo periodo stava riunendo appunti e note per la realizzazione della sua grande opera, Filosofia (1931). Jaspers, per Hannah, sarà per tutta la vita una guida, la figura di riferimento per ogni tipo di confronto, filosofico e intellettuale in genere, nonché un ottimo amico; alcuni hanno ipotizzato, anche, potesse rappresentare la figura paterna che lei aveva perso troppo precocemente; di sicuro fu colui che non tradì mai le sue aspettative da nessun punto di vista, a differenza di Heidegger.

6 H. Arendt, Martin Heidegger at Eighty, in “New York Review of Books”, 21 Ottobre 1971 7 E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975. Per amore del mondo, cit., p.79

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Nel 1929 la Arendt porta a compimento la sua tesi di dottorato dal titolo Il concetto di amore in Agostino, che segna l’inizio della lunga serie di accuse, critiche e dibattiti che le sue opere andranno sempre a provocare. Con questo lavoro sulle varie forme di amore in Agostino, che cerca di trattare in maniera sistematica, la Arendt voleva portare avanti una posizione molto forte su una delle personalità più studiate in tutta la storia della teologia e del pensiero, e cioè che Agostino fosse un filosofo, e non un teologo. Venne accusata di non aver compiuto uno studio completo di questa figura e di aver totalmente ignorato la posizione di teologi contemporanei a lei, che in maniera molto accurata prendevano in esame questo colosso del pensiero cristiano. Di sicuro il fatto che un’ebrea ventitreenne discutesse una figura così centrale della Chiesa cristiana, fece un grande scalpore. Possiamo ipotizzare, però, che se le filosofie di Heidegger e di Jaspers fossero state più conosciute, la considerazione di questa opera sarebbe stata diversa: qua, lei non aveva voluto fare una trattazione teologica, bensì un lavoro di filosofia esistenziale, che però in questi nuovi termini venne poco compreso.

Nel gennaio 1929 conosce ad una festa in maschera Günther Stern, con il quale pochi mesi dopo andrà a vivere a Berlino. Tra loro c’è una forte intesa intellettuale che si manifesterà in diverse occasioni in cui si trovano a collaborare. Stern è affascinato dalla personalità e cultura di Hannah, lei impressionata dalla dolcezza e premura di lui; nel giro di poco tempo si sposano a Berlino. In questo periodo i coniugi Stern si trovavano entrambi impegnati alla ricerca di un impiego avendo bisogno di una stabilità economica per poter vivere in questa città, luogo in cui tutti gli intellettuali ponevano le loro speranze per una realizzazione individuale e personale. Sebbene non fosse sufficiente per vivere entrambi, Hannah era riuscita a ottenere una borsa di studio alla Notgemeinschaft der deutschen Wissenschaft, che le avrebbe permesso di approfondire gli studi sul Romanticismo tedesco. È questo il periodo in cui si avvicina alla grande figura femminile che ispirerà molte delle riflessioni più importanti della Arendt, Rahel Varnhagen. In lei, Hannah vedeva rivelarsi una sensibilità e una vulnerabilità molto simili alle proprie. Vedeva in lei un percorso di vita comune, che non si limitava al fatto di condividere la sorte di essere entrambe nate ebree, ma era costituito da esperienze fondamentali per lo sviluppo della consapevolezza di loro stesse, della vita in generale e di una loro integrità personale.8

Se Heidegger e Jaspers sono stati i padri spirituali di Hannah per quanto riguarda il suo pensiero filosofico, un altro uomo ha segnato profondamente la vita di questa donna che pian piano si

8 La Arendt inizia in questo il periodo la stesura del famoso libro su Rahel Varhagen, ma la sua pubblicazione

avverrà molti anni dopo, grazie l’insistenza di Benjamin e di Heinrich Blucher, secondo marito di Hannah, nel 1957.

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allontana dalle sue radici filosofiche per approdare alla teoria politica e, in un certo senso, all’attivismo: Kurt Blumenfeld. Egli nacque nel 1884 da una famiglia ebraica di cultura tedesca, completamente assimilata. Quando si trovò a Königsberg a studiare, iniziò ad essere completamente coinvolto dal sionismo, a tal punto da lasciare i propri studi per seguire vari progetti per questa missione. Partecipò alla fondazione di un circolo sionista presso la sua università e iniziò a usare le sue doti persuasive sui membri della comunità ebraica di Königsberg che si opponevano al sionismo. Nel 1909 abbandonò definitivamente gli studi di legge per diventare segretario esecutivo e principale portavoce dell’Organizzazione sionista di Germania. La Arendt lo conobbe nel 1926, quando ancora studiava a Heildelberg. Hans Jonas lo aveva invitato per una riunione del circolo dei sionisti universitari a cui partecipava e Hannah lo aveva aiutato nell’organizzazione e nella gestione della riunione. Kurt Blumenfeld risvegliò in lei e nutrì in lei il senso della sua identità ebraica, e la introdusse, veramente, al rinnovamento della coscienza ebraica che i sionisti in quel periodo stavano cercando di portare avanti. Il Sionismo di cui lui si faceva portavoce era adatto per tutti quegli ebrei, soprattutto tedeschi, che a differenza di quelli dell’est, avevano già alle spalle una storia di emancipazione, ma che in questo avevano perso ogni contatto con la propria cultura ebraica. Sosteneva l’emigrazione in una Palestina dove fosse istituita una comunità ebraica, che in quel momento non c’era, perché l’assimilazione non dovesse essere il prezzo da pagare in cambio della cittadinanza. Hannah era per lo più d’accordo con le posizioni di Blumenfeld, anche se non prese mai realmente in considerazione il progetto di trasferirsi in Palestina.

A partire del 1930-1931 il pensiero della Arendt divenne sempre più politico e storico; passava molto tempo a Berlino con Blumenfeld e con i suoi amici sionisti. Venne invitata a scrivere recensioni o a tenere discorsi presso le conferenze sioniste. È questo il periodo in cui approfondisce uno studio su figure come Lessing, Herder, Moses Mendelssohn, che riporta in un articolo dal titolo Illuminismo e questione ebraica.

Intanto, sul fronte della situazione politica tedesca, erano in pochissimi a condividere l’opinione della Arendt che Hitler si fosse aperto la strada verso il potere a partire del 1929. Tutta la Germania lo aveva salutato come il salvatore. A mano a mano che il partito nazista prendeva sempre più piede, l’adesione di Hannah alla campagna sionista si faceva sempre più profonda; tra i colleghi sionisti e i loro amici accademici le sue doti da intellettuale erano molto ammirate. Ma quando il 27 febbraio 1933, il Reichstag venne dato alle fiamme e iniziarono una serie di retate con arresti di comunisti, tutto mutò definitivamente. Stern fuggì da Berlino a Parigi, il loro matrimonio era agli sgoccioli per le ormai molte differenze negli interessi, nei modi di condurre le loro vite, per le troppe esperienze e situazioni che vivevano separatamente ormai

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da tempo. Hannah, che da tempo meditava di emigrare, decise di rimanere a Berlino, considerando quello il momento in cui non poteva rimanere semplice osservatrice. Parla, così, di quel periodo, nell’intervista con Gaus già citata:

come lei sa gli arrestati finivano nelle celle della Gestapo o nei campi di concentramento. Ciò che accadde era mostruoso, anche se ora appare nulla in confronto a quello che successe in seguito. Per me fu un vero trauma, e da allora mi sentii responsabile, non pensavo più cioè, che si potesse rimanere degli osservatori, e così ho cercato di rendermi utile in molti modi.9

Fu così che su richiesta di Blumenfeld e gli altri sionisti, dopo la partenza di Stern, mise a disposizione il suo appartamento come luogo di transito per i ricercati in fuga, soprattutto comunisti. Questo soddisfaceva il suo bisogno di azione, il suo bisogno di resistere e dichiarare la sua opposizione al regime. Questa coraggiosa collaborazione alla fuga degli esuli fu in realtà ciò che la introdusse al mondo dell’azione; questo mondo che ora plasmava in sé e che sarebbe rimasto integro, seppur in forme diverse, per sempre. Era consapevole che persone non più comuniste di lei avevano corso pericoli ben più gravi di lei, che fino a quel momento non si era mai troppo interessata alla politica, una figlia dei suoi genitori, moglie di un uomo di sinistra e che proprio in quel periodo aveva iniziato a studiare Marx, Lenin, Trockij.

Questo è un punto cruciale nella vita di Hannah, perché è proprio questa collaborazione con il Sionismo a far sì che iniziasse ad agire in quanto ebrea. Le sue parole, infatti, a tal proposito furono queste:

L’aspetto positivo della faccenda è che presi coscienza di un fatto che allora riassumevo in una frase che mi ripetevo in continuazione: “se si è aggrediti in quanto ebrei, bisogna difendersi da ebrei”; non in quanto tedeschi, cittadini del mondo, fautori dei diritti dell’uomo o chissà che altro. La questione è piuttosto: che cosa posso specificamente fare i quanto ebreo? In secondo luogo era mia intenzione lavorare con un’organizzazione, per la prima volta, e lavorare con i sionisti, che peraltro erano gli unici pronti. Non avrebbe avuto alcun senso optare per gli assimilati; d’altro canto non avevo nulla a che spartire con loro (…) ora l’appartenenza all’ebraismo era diventato un problema anche per me, e questo problema era un problema politico: puramente politico! Volevo intraprendere un’attività pratica; esclusivamente e unicamente un’attività a favore degli ebrei10.

Il suo impegno più concreto richiesto da Blumenfeld e dagli altri Sionisti, fu quello di raccogliere dalla Biblioteca di Stato Prussiana del materiale che mostrasse l’attività antisemita

9 Intervista con Gunther Gaus, 1964, Archivio Arendt I, 1930-1948, a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano,

2001, p 39

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nelle organizzazioni non governative, nei circoli privati, nelle associazioni di commercianti e professionisti, compilando una lista di citazione di letteratura antisemita che difficilmente sarebbe mai arrivata altrimenti alla stampa tedesca o straniera. L’obiettivo era di rendere pubblico questo materiale per far sì che il mondo conoscesse questa “propaganda dell’orrore”. Hannah venne scelta perché era vicina ai Sionisti, anche se non era una di loro, e aveva, quindi, una posizione più favorevole. Nonostante questo, poco dopo venne arrestata e portata al presidio di polizia di Alexaderplatz. Riuscì ad uscire dopo solo otto giorni, e senza avvocato, grazie al fatto che era riuscita a fare amicizia con la guardia che la aveva incarcerata. Era un tipo alle prime armi, non troppo sicuro di sé e che, come sempre, era rimasto affascinato dal carattere di Hannah. Lei, nonostante tutto, sapeva che una fortuna del genere non sarebbe ricapitata, e iniziò quindi a fare i preparativi per lasciare la Germania. Hannah e Martha Arendt fuggirono attraverso i boschi dei monti Metalliferi, ai confini tra il territorio tedesco e quello ceco, noti ai fuggiaschi ebrei. Erano dirette a Praga dove c’era una base di esuli di sinistra che avevano organizzato tutta una rete di posti di confine per facilitare sia l’uscita di chi fuggiva dalla Germania, sia per l’ingresso di posta, informazioni e corrieri. Vennero destinate a Karlsbad, e il loro passaggio di confine avvenne di notte, attraverso la porta della casa di una famiglia che aveva deciso di collaborare. Questa casa aveva la porta principale in Germania, quella sul retro, in Cecoslovacchia. Dopo un breve soggiorno a Praga, le due donne partirono per Ginevra, dove abitava una delle più vecchie amiche di socialiste di Martha, che lavorava per la Società delle Nazioni. Questa riuscì ad offrire ad Hannah un lavoro temporaneo come segretaria, anche se lei voleva proseguire verso Parigi, dove gli altri Sionisti si stavano raccogliendo. Si vede qui, sempre di più, la sua volontà e bisogno di sentirsi attiva. È da notare che, come già detto, questo periodo, per lei segna un momento di totale cambiamento, anche a livello personale legato all’ambiente da cui proveniva, quello intellettuale tedesco. Nel momento in cui si riferisce a questo periodo e fa riferimento al collaborazionismo tedesco con il Nazismo, lei sostiene di non sentirsi tradita dai nemici, ma dagli amici, ossia gli intellettuali, che in quanto tali facevano parte di questa ondata. È come si in questo momento avesse avvertito una frattura con tutto ciò che fino a quel momento aveva costituito le sue radici, il suo mondo. Non avrebbe più voluto far parte di questo mondo, ma approdare in un altro, quello dell’agire.11

Sta iniziando adesso quel periodo, durato diciotto anni, in cui Hannah Arendt non godrà di diritti politici ma dovrà essere considerata un’apolide.

Nell’autunno 1933, partì per Parigi dove era già arrivato Günther Stern; i due si rimisero insieme e ritrovarono amici e attività comuni, ma il matrimonio era già compromesso da tempo.

11 Ivi, cfr pp 45,46

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Continuano a essere uniti per amicizia e per facilitare le difficoltà pratiche di procurarsi vitto e alloggio.12 È questo il periodo in cui Hannah conosce il grande critico letterario Walter

Benjamin a cui rimarrà sempre legata, anche dopo la prematura scomparsa. Mentre Stern si muoveva nell’ambiente letterario universitario di Parigi- seminari all’École normale supérieure, o quelli di Kojève al’École des hautes études, a cui partecipavano personaggi come Sartre e Jean Wahl, con cui avrebbe iniziato a collaborare alla rivista “Recherches philosophiques”- Hannah, invece, rivolgeva tutta la sua attenzione ai problemi ebraici, e quindi era lontana dagli interessi accademici: il suo primo lavoro fu presso un’organizzazione dal nome “Agriculture et artisanat”; essa offriva corsi di formazione professionale agricola e artigianale ai giovani profughi in vista di una loro sistemazione in Palestina, oltre a corsi di lingua e storia ebraica e di Sionismo, tutte cose utili per andare a risiedere in un Kibbutz. Con questo lavoro guadagnava abbastanza da sostenere anche Stern, fino ad avere la possibilità di trovare impieghi per amici in difficoltà. Successivamente inizia a lavorare per un’altra organizzazione ebraica, la Youth Aliyah. Questa era un’organizzazione che aveva l’obiettivo specifico di mandare i profughi ebrei in Palestina. Con un gruppo di questi, nel 1935 ebbe l’opportunità di fare un viaggio presso questi territori che lei da sempre aveva voluto visitare.

Il 1936 fu l’anno in cui Hannah conobbe Heinrich Blücher , l’anno in cui iniziò il loro sodalizio intellettuale, prima del matrimonio che durerà per tutta la loro vita; ma fu anche l’anno in cui in Francia stava iniziando a tirare un vento che fino a quel momento era stato tanto quieto da non essere troppo percepito: quello della propaganda antisemita gestita da organizzazioni che proprio adesso vennero alla luce: Propagande nationale, il Rassemblement Anti-juif de France, il Centre de Documentation et propagande ecc. Per le strade di Parigi e nelle librerie venivano vendute copie di letteratura nazista tradotta in francese. Hannah, nella Youth Aliyah, con i suoi articoli e inserti nella rivista aveva il compito di proteggere i ragazzi che si stavano formando, dai danni psicologici che tutta questa atmosfera avrebbe potuto provocare.

A Natale del 1938, Martha Arendt presa la decisione di raggiungere la figlia a Parigi, di lasciare, quindi, Königsberg, visto che la situazione per gli ebrei si faceva sempre più difficile in territorio tedesco. Giunta nella capitale francese, tutte le sue attenzioni e apprensioni erano rivolte nei confronti di Hannah, che a poco a poco iniziò a sentirsi oppressa. In più a questo, la tensione iniziò a salire quando Blücher venne internato in un campo di lavoro a sostegno dello sforzo bellico francese a Villemalard presso Orlèans, a seguito di una decisione del governo francese di internare tutti i cittadini tedeschi di sesso maschile dal passato politico sospetto. Lui aveva preso parte al Partito Comunista di Germania, e poi quello Anti-spartichista, ed era fuggito a

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Parigi nel 1934 con grande fretta e senza documenti. Dopo due mesi venne rilasciato e un anno dopo portò, insieme a Hannah, agli uffici i rispettivi documenti di divorzio per rendere possibile il loro matrimonio. Pochi mesi dopo comparve su tutti i giornali un annuncio emesso dal governatore generale di Parigi: tutti gli uomini tedeschi dai diciassette ai cinquantacinque anni, tutte le donne nubili o tutte le donne sposate senza figli dovevano presentarsi per essere smistati nei campi di raccolta o di internamento. La destinazione di Hannah fu il campo di Gurs, un campo che fin dall’aprile 1939 era stato usato per profughi spagnoli e per i membri delle Brigate internazionali. La vita qua era monotona, non era un campo di lavoro, ma per sopravvivere alla disperazione le donne si dedicavano a occupazioni più o meno regolari. La Arendt insisteva molto perché le sue compagne di baracca curassero il loro aspetto al meglio che potevano, che non si lasciassero andare ma che si impegnassero a tenere alto il morale. Hannah non era certo quella che se ne stava a compiangersi, eppure è certo che considerò sempre questo periodo uno dei più bui della sua vita. Riuscì ad uscire per pura fortuna, per aver saputo approfittare dell’unica occasione che ci sarebbe stata per potersi procurare i documenti, durante il caos dell’occupazione tedesca. La fortuna fu di aver un posto dove andare: una casa nei pressi di Montauban, di cari amici di Blücher; alle altre che scesero di partire pur non avendo una meta non restava che andarsene alla ventura, che con i tempi che correvano non era proprio una bella sorte. Montauban era un punto di raccolta per i fuggiaschi di tutti i campi d’internamento della Francia, perchè il sindaco era socialista e esprimeva la sua opposizione al governo di Vichy ospitando ex prigionieri. È per le strade di questa città che incontrò per caso, dopo molto attesa e tanta sofferenza il suo amato Blücher di cui non aveva notizie da tempo. In ottobre, proprio quando fu emessa l’ordinanza che imponeva agli ebrei di presentarsi ai prefetti locali per essere registrati, i Blücher iniziarono la ricerca dei visti per l’America. Grazie alla partecipazione di Hannah nello Youth Aliyah e all’aiuto di Stern, riuscirono ad avere dei visti di emergenza. Con questi iniziarono a recarsi illegalmente in bicicletta a Marsiglia per ritirare i documenti. Tutto andò liscio fino a quando si resero conto che solo per un pelo erano riusciti a sfuggire all’arresto in un albergo di Marsiglia. Scampati per un soffio dal pericolo decisero di partire immediatamente. È in questa occasione che Hannah vide per l’ultima volta Benjamin che le affidò una pila di manoscritti, con la speranza che riuscissero a consegnarli all’Institut for Social Research a New York.13

Una volta giunta in America, partendo con la nave da Lisbona, si rese conto che il periodo passato lavorando più nello Youth Aliyah non aveva placato il suo desiderio di fare un lavoro pratico, un lavoro politico indirizzato verso il futuro; iniziò quindi a lavorare con gruppi di

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Sionisti d’America, sia emigrati che nazionali, sebbene non le soddisfacesse pienamente la loro dirigenza. L’occasione di un buon lavoro per lei si presentò a novembre, era un posto di articolista per il giornale ebraico di lingua tedesca Aufbau. Il primo contatto con questo giornale lo ebbe nel settembre 1941, quando era andata a sentire una conferenza di Blumenfeld, anche lui fuggito in America, sulla questione che avrebbe occupato la sua attenzione per tutto l’anno che seguì: gli ebrei dovevano avere un loro esercito? Hannah nei suoi articoli dichiarava la sua posizione per cui un esercito avrebbe rafforzato il popolo ebraico, poiché questo necessitava di un’eguaglianza e solidarietà interna; necessitava dopo anni di assimilazione, di una coscienza nazionale; aveva bisogno di un esercito non solo di difesa, ma di identità personale. Hannah, in questo periodo, era convinta che le esperienze dei Sionisti avessero lasciato gli ebrei del tutto impreparati all’azione politica e alla protesta. Sono questi i momenti di frattura della Arendt con il movimento sionista, un rapporto che si interromperà poco dopo. Intanto, sempre più dall’Europa stavano giungendo le notizie di quello che succedeva nei campi di concentramento e di sterminio. Hannah, come tutti gli altri ebrei in America, adesso si ritrovarono completamente spiazzati, increduli e distrutti dall’orrore delle notizie. Sicuramente il dolore di questo periodo, come tutto l’impegno e lo sforzo che la Arendt aveva posto nel cercare di non restare ferma di fronte al tracollo storico che l’Europa stava vivendo, furono tutte basi di quella che sarà considerata la opera più grande della pensatrice, e che proprio in questo periodo stava avendo la sua origine. Tra il 1945 e il 1946, infatti, Hannah Arendt iniziò a scrivere Le origini del Totalitarismo, un’opera imponente, un attacco frontale all’Europa del XIX secolo, quello borghese che aveva messo le basi per il Totalitarismo in Germania. A mano a mano che succedevano gli eventi infatti la Arendt aveva cominciato col considerare il Nazismo come una conseguenza della cristallizzazione degli elementi impliciti nell’antisemitismo, nell’imperialismo e nel razzismo presenti nei secoli precedenti. Fu un’opera scritta di pari passo con il correre della storia e quindi sempre in continuo cambiamento; apportò le basi anche per altri temi fondamentali della pensatrice che svilupperà in seguito, come ad esempio quello del male radicale.

Il 1945 fu però un anno importante per la vita di Hannah, anche per un altro motivo: il suo grande maestro, la sua guida, Karl Jaspers, venne a conoscenza che la sua cara studentessa era sopravvissuta, che viveva in America e riuscì, quindi, a trovare il modo per inviarle una sua lettera. Con grande sollievo di Hannah, che aveva ritrovato il suo professore e amico, fu informata anche a proposito di Hans Jonas per cui era molto preoccupata. Iniziò, quindi, tra

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l’allieva e il maestro una serie di collaborazioni per le rispettive pubblicazioni; Hannah faceva arrivare le opere di Jaspers in America, e lui faceva la stessa cosa in Europa con quelle sue.14

Negli anni che succedettero Hannah continuava a vivere con la sua tribù, gli amici che aveva con cui si ritrovava spesso per parlare e discutere, ma anche per svagarsi e stare insieme15,e

proseguiva il suo impegno nell’attività e nella discussione riguardo al popolo ebraico, una questione che si era nel frattempo spostata sul problema Stato d’Israele. Le posizioni che lei prende in questo periodo sono note grazie a articoli che pubblica, il più importante Ripensare il Sionismo,ma anche altri in riviste come Aufbau, Menorah Journal, Review of Politics, Contemporary Jewish Record, Jewish Frontier, Nation, Partisan Review e altri. Non è da dimenticare che a partire del 1944 viene presa a lavorare per l’organizzazione Commission on European Jewish Cultural Reconstruction, finalizzata a ritrovare artefatti e libri ebraici dispersi durante la persecuzione in Europa. Sono questi gli anni in cui inizia ad ottenere contratti veri e propri come insegnante di teoria politica e sociale presso grandi college americani. Nel 1949, fino al 1951, lavora come presidente esecutivo nell’organizzazione Jewish Cultural Reconstruction, ed è proprio grazie a questo impiego che riesce a fare il primo viaggio in Europa, dopo averla lasciata nel 1941. È durante questo viaggio che ritrova i due grandi pilastri della sua giovinezza: Jaspers, che ancora era rimasto un punto fermo della sua vita, e Martin Heidegger. Per quanto per lei l’Europa continuasse ad essere casa, il presente, vide che tutto adesso era diverso. Era una casa distrutta quella che ritrovò, le città e i luoghi per lei importanti della Germania erano stati tutti ricostruiti, ma dietro le facciate delle città nuove, si palesava ancora il malessere che i dodici anni di Totalitarismo e il conflitto mondiale avevano procurato. La Arendt commiserava l’incapacità dei tedeschi sia di affrontare la realtà della istruzione del loro paese, sia di meditare sugli eventi che l’avevano provocata.

L’anno precedente a questo viaggio, precisamente nel luglio 1948, un evento segno ulteriormente la vita di Hannah Arendt: durante una vacanza in Inghilterra, Martha Arendt morì nel sonno mentre faceva visita Eva Beerwald, una sua figlia acquisita dal secondo marito Martin Beerwald. È interessante notare come sebbene né Martha né Hannah fossero ebree praticanti, la figlia abbia voluto recitare il Kaddish16 per la madre. Questo perché lei nutriva un profondo

14 È proprio in questo periodo che Hannah dichiara la sua fede a Jaspers, inserendolo nel suo saggio What is

Existenz Philosophy? Trad.it. Che cosa è la filosofia dell’esistenza?, in questo lavoro nell’edizione Jaka Book,

Milano, 1998

15 Tra questi Mary McCarthy, la più importante perché la più vicina ad Hannah nella sua permanenza in

America.

16 Il Kaddish del lutto, è una preghiera funebre tipica della tradizione ebraica. Dopo la morte di un genitore,

figlio, coniuge, o fratello/sorella è tradizione recitare il Kaddish del Lutto quotidianamente per trenta giorni, o undici mesi nel caso di un genitore defunto, e successivamente ad ogni anniversario della morte.

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rispetto per certe tradizioni commemorative appartenenti alla sue radici ebraiche, che avevano una capacità di esprimere in maniera irripetibile la conferma di una continuità della vita terrena.17

Un’altra scomparsa importante fu quella di Judah Magnes nell’ottobre dello stesso anno: Hannah lo aveva conosciuto al convegno di Baltimore, doveva aveva partecipato come inviata per Aufbau, nel 1942. Lui era docente dell’Università ebraica e sosteneva fin da quei tempi l’idea di una Palestina binazionale entro una federazione di Stati Arabi. Nel dibattito sulle questioni dello stato di Israele, Hannah si allontanerà sempre più dalle posizioni Sioniste, andando ad abbracciare invece quelle di Magnes, che prevedevano una cooperazione arabo-ebraica, che potesse dare una risposta ai timori e ai problemi che la nascita dello stato di Israele avevano causato. Judah Magnes, fu per Hannah, parimenti a Jaspers, un esempio di autorità morale e serene sicurezza che andò a mancare nel momento della sua scomparsa.

Gli anni successivi a questi eventi, che vanno dal 1951 al 1961, Hannah Arendt continuò ad insegnare presso le università come Princeton e Chicago. Furono gli anni delle pubblicazioni delle più grandi opere di questa pensatrice: Le origini del Totalitarismo,1951, Vita Activa (1958), Rahel Varhagen, vita di un’ebrea (anch’esso nel 1958), senza dimenticare tutti gli articoli e interventi che rilascia nei vari corsi accademici o sui dibattiti politici che si stavano verificando. Uno particolarmente interessante per la polemica che sollevò fu il suo articolo dal titolo originale Reflections on Little Rock. Questo scritto riguardava la causa dell’integrazione razziale dei neri in America in quel periodo. Fu accusata di scarsa sensibilità e esagerata audacia nell’esporre posizione delicate; la reazione che scatenò questo articolo fu come un presagio di quello che succederà successivamente con la polemica suscitata da La banalità del male. Nel 1960, infatti, venne la notizia del sequestro di Eichmann in Argentina da parte di agenti israeliani. Non appena fu chiaro che sarebbe stato processato a Gerusalemme, la Arendt accorse al New Yorker per offrirsi come inviata al processo per conto di tale giornale. Riponeva un sacco di speranze per questo processo, riteneva un suo dovere morale prenderne parte, un obbligo verso il suo passato, ma una volta giunta lì avvertì un senso di delusione: nessun mostro, nessuna grande dichiarazione avevano luogo dinanzi all’autorità giudiziaria israeliana. L’intera faccenda era terribilmente normale; Eichmann non era per niente come lo aveva immaginato: nessuna brutalità, nessuna malvagità, ma solo tanta stupidità e incapacità di pensare, un pagliaccio. Ciò che ancora una volta, invece, la aveva fatta riflettere erano state tutte la prassi israeliana che aveva portato al processo, lo scopo che Ben Gurion e il suo governo volevano

17 In realtà, la vera e propria commemorazione di sua madre Hannah la farà anni dopo, quando porterà a

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perseguire attraverso di esso. Tutte queste impressioni furono raccolte e riordinate e dopo due anni furono pubblicate nella sua più celebre opera La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (1963). Il dibattito che questo libro suscitò, segnò per sempre ogni tipo di riflessione sull’Olocausto e su quello che fu il crimine commesso verso l’umanità che nella storia sia mai avvenuto. Nonostante questo, però, provocò anche una serie di fratture di rapporti importanti nella vita di Hannah, con persone che si sentirono offese dalle sue posizioni prese. Da quel momento in poi la notorietà di Hannah Arendt cresce enormemente, sia in senso positivo-sono questi gli anni di altre importanti pubblicazioni come Sulla Rivoluzione (1963),L’umanità in tempi bui (1968),Sulla Violenza (1970) e di assegnazioni di premi importanti come il premio Sigmund Freud da parte della German Academy for Language and Literature e la medaglia Emerson-Thoreau dell’American Academy of Arts and Letters-sia in senso negativo, visto che gran parte degli intellettuali del mondo ebraico con cui lei da anni collaborava avevano deciso di condannare in tronco la sua opera, e con questa anche tutto il suo pensiero.

Nei cinque anni che le rimasero da vivere il suo interesse per la politica rimase acceso, ma l’atteggiamento che Hannah mostrava nei confronti della vita era diverso: nel 1970 infatti era morto il suo amato Blücher, la storia del mondo continuava a mostrare questioni e problemi che adesso lei non riusciva più a sostenere. Aveva bisogno di calma e di quiete. Fu così che decise di riaffacciarsi alle sponde di quel fiume a cui tanto tempo prima si era affacciata e immersa ma che aveva poi abbandonato: la filosofia. Inizia quindi a lavorare alla sua ultima opera che rimarrà incompiuta e che verrà redatta da Mary McCarthy, poco dopo la morte di Hannah, Vita della mente. Questa opera sembra avere un significato conciliatorio per lei, la pace dopo tutta la tempesta che era stata la sua vita intellettuale, che aveva valicato nazioni, periodi storici e ambiti smisurati e che qui cercavano la loro quiete. La Arendt voleva qui descrivere le attività mentali del pensare, del volere e del giudicare. Dopo la Vita activa,ecco che si fa importante, alla fine del suo percorso, la vita contemplativa. Purtroppo, però mentre si accingeva a scrivere la terza parte, quella del giudicare, nel dicembre 1975, Hannah Arendt fu colpita da un attacco di cuore, che segnò la fine della sua vita.

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2. Da ebrea a ebraista

Dopo aver esaminato la vita di questa pensatrice, risulta chiaro quanto essa sia stata condizionata o addirittura ostacolata dal suo essere nata ebrea. Tutta la sua vita, sul piano pratico e intellettuale, è stata determinata dalla sua appartenenza a questo popolo, verso il quale, la storia, da sempre, ha tenuto in serbo un destino particolare, purtroppo più volte tragico. Hannah Arendt, che si è sempre dimostrata attiva e vigile, si rende conto, più di altri che vivono la sua stessa sorte, di tutto questo e inizia quindi ad approfondire che cosa significhi essere ebrei, che cosa abbia determinato nella vita di persone che come lei, vivono e vogliono vivere nel mondo. Tutta la sua riflessione sarà mossa, quindi, dall’intenzione di capire quale sia il senso politico dell’essere ebreo, intendendo con il termine politico, l’ambito nel quale il singolo si relaziona agli altri, al contesto storico e alla società. Nell’interrogarsi e approfondire tutto questo, Hannah Arendt finisce per entrare in contatto, studiare e, se vogliamo, porsi a confronto con personaggi che condividono con lei questa sorte, seppur distinta per condizione e periodi storici. Tra questi personaggi risulta coprire un posto privilegiato sicuramente Rahel Varnhagen, della quale la nostra autrice ha realizzato la celeberrima biografia. Nel presente paragrafo, andremo quindi a osservare più da vicino i motivi che hanno spinto la Arendt a maturare questo interesse e quali riflessioni ne deduce, riflessioni che saranno fondamentali presupposti dell’immenso lavoro che realizzerà sia in ambito di teoria politica, che nella generalità del suo pensiero.

In un passo del suo scritto su Lessing, tratto dal suo discorso in occasione del conferimento del premio dedicato al filosofo a Amburgo, il 29 settembre 1959, Hannah scrive:

Dicendo "Un'ebrea", non mi riferivo neppure a una realtà dotata di una specificità storica. Al contrario, non riconoscevo altro che un fatto politico, attraverso il quale il mio essere un membro di quel gruppo finiva per avere il sopravvento su tutte le altre questioni di identità personale o piuttosto le decideva in favore dell'anonimato. Oggi un tale atteggiamento potrebbe sembrare una posa. Ecco perché oggi è facile notare che quelli che si sono comportati in quel modo non hanno imparato molto alla scuola dell’"umanità", anzi sono caduti nella trappola di Hitler, ossia sono stati succubi dello spirito dell'hitlerismo a modo loro [..]non ci si può difendere se non nei termini dell'identità che viene attaccata. Coloro che rifiutano le identificazioni che vengono loro imposte da un mondo ostile, possono sentirsi mirabilmente superiori al mondo, ma la loro superiorità non è più di questo mondo; è la superiorità di un "paese dei sogni" più o meno ben attrezzato18.

Dovendo tener conto necessariamente del contesto storico in cui la Arendt visse, la questione di essere ebrea diventa sempre più con il tempo un fatto politico. Lo abbiamo visto a partire

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dalla storia della sua vita e sarà sempre più chiaro tra le pagine delle sue opere. Un fatto politico che ha a che fare con lei come individuo, come donna nel mondo. Riconosce ben presto che, come accennato nelle righe sopra riportate, l’essere ebreo e le questioni che ne derivano hanno a che fare con l’uscire dall’anonimato di lei in quanto persona. La Arendt, che come tutti gli altri ebrei si trova ad essere apolide, rifugiata, invisibile e inesistente sotto il profilo giuridico e politico, una perseguitata, a poco a poco inizia a riflette su cosa significhi definirsi. Cosa significhi definirsi essendo un individuo, membro di un gruppo, il cui elemento specifico, ciò che veramente lo contraddistingue è la realtà della persecuzione. Rispondere alla domanda "Chi sei?" con "Un'ebrea" voleva dire accettare il criterio di identificazione di un essere umano attraverso la razza, accettare cioè qualcosa non solo di persecutorio, ma di inammissibile come qualificazione di un essere umano. Eppure, questo era l'unico dato di realtà concesso all'ebreo: la realtà della persecuzione che lo inchiodava a una nascita brutalmente ridotta a legame di sangue, di etnia, a marchio biologico. Questa era la condizione dell’ebreo, che Hannah non accetta. Per la Arendt tutto questo era inammissibile, inaccettabile, tanto da diventare una questione di impegno pratico individuale: cosa poteva fare lei in quanto ebrea, per poter far emergere e vivere la sua umanità di donna. Attaccata in quanto ebrea, vuole accettare la realtà necessaria dei fatti e difendersi da ebrea, vuole uscire dall’anonimato per riuscire a contrastare questa realtà dura, che procede senza intoppi, un fato che deve essere messo in discussione. Il suo modo di venir contro a tutto questo, sarà sul piano dell’impegno pratico, l’attivismo presso vari gruppi sionisti e associazioni impegnate nel sostegno degli ebrei europei19, mentre sul piano

più intellettuale, quello del comprendere, un avvicinamento e un intenso studio della storia e del processo che ha portato a tutto questo.

Tu mi confronti a un albero che sia stato sradicato dalla terra e poi ripiantato alla rovescia:la natura lo ha dotato di troppa forza! La cima mette radici e, maldestramente, le radici diventano cima. Così, caro, purtroppo, purtroppo sono io. Questa è la misura della mia vita. Il suo primo attaccarsi al reale. Lascia che questo sia il mio epitaffio, e insieme è il mio paradosso.20

In questo breve estratto di una lettera di Rahel Varnhagen a August Varnhagen sembra essere riassunta la condizione dell’ebreo e della realtà che Hannah vuole scardinare. In queste poche righe di questa scrittrice così tanto importante per la nostra filosofa è espressa la realtà del destino ebraico e l’ostinata disperazione di chi, come Hannah, non vuole arrendersi alle sue costrizioni. Hannah non vuole sentirsi come Rahel, un albero sradicato da terra, Hannah vuole

19 Cfr. paragrafo precedente

20 R. Varnhagen, Rahel Varnhagen und ihre Zeit. Briefwechsel .a cura di F. Kemp,Verkäufer Plesse Antiquariat

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osservare e fare sue le proprie radici, per poi da qui ripartire, per reagire, e magari ribellarsi alla propria condizione. L’interesse e l’amore per la scrittrice ebrea romantica Rahel Varnhagen- quella che lei stessa connota con « migliore amica, anche se purtroppo è morta cento anni fa»21-

parte proprio da tutto questo. La Arendt, infatti, ritiene che l’inizio per una vera comprensione e azione nella realtà sia guardare le origini del suo popolo. Tra i motivi per cui si affeziona così tanto a questa pensatrice romantica è decisivo quello del contesto in cui ella visse, e lo straordinario- agli occhi di Hannah- modo in cui ella vi reagì, da donna consapevole che non si arrende di fronte agli impedimenti, limiti e sofferenze che la sua nascita di ebrea e donna le aveva inferto. Il periodo storico in questione è quello che la Arendt tratta nell’articolo Illuminismo e questione ebraica, del 1932, durante il quale gran parte degli intellettuali ebrei ritiene necessaria una qualche forma di emancipazione sociale, realizzabile, secondo la maggior parte di loro, attraverso diverse forme di assimilazione alla società, con le conseguenti modifiche al modo di vivere la loro religiosità22. Da ciò derivano forti complessità politiche,

religiose, sociali ma anche personali per ogni singolo ebreo. È chiaro, infatti, che a partire da adesso e da questo modo di porre la questione, gli ebrei saranno sempre inseriti all’interno di una definizione imposta loro dall’esterno, dentro o fuori la società, in base alla loro capacità di conformarsi all’ impianto sociale ; saranno destinati a occupare sempre una posizione di eccezione, che gli impedirà di avere una “storia propria” così come articolata e pensata dal pensiero europeo23.

Così, gli ebrei diventano nella storia gli esseri privi di storia24

Ora l’essere ebrei comincia a definirsi come una posizione di estraneità, più di quanto non lo fosse già stata nelle epoche precedenti. Proprio l’assimilazione sociale aveva portato gli ebrei ad abbandonare la propria cultura di origine e le proprie tradizioni, spingendoli ad una ricerca constante di una collocazione all’interno della società che si accordasse con la propria identità. Ne consegue un grande senso di spaesamento e confusione. Studiando a fondo Rahel Varnhagen, la Arendt mette in luce proprio la complessità di questa situazione e le difficoltà di chi come Rahel si trova in una condizione che comprende problemi sociali che, allo stesso tempo, riguardano anche l’identità e l’esistenza stessa della persona. La loro, nel cuore della

21 H. Arendt, H. Blücher, Briefe 1936-1968, München, 1996, p. 45

22 È il periodo dei forti dibattiti tra intellettuali ebrei come Lessing, Mendelssohn, Herder, Dohm di cui la Arendt

parla nell’opera citata sopra.

23 Da notare infatti come proprio in Illuminismo e questione ebraica la Arendt calchi la mano nell’esporre il

significato e l’importanza del concetto di Storia nei vari pensatori presi in esame.

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tormentata storia europea, è un'identità senza radice, segnata drammaticamente sia dall'esclusione come destino riservato per secoli agli ebrei, sia dall'inclusione intesa come adesione ed assimilazione ad una nuova patria, di cui non tutti sono capaci prima tra tutti la pensatrice romantica in questione. Entrando in contatto con lei e con la sua storia, Hannah non può fare a meno di osservare come l'ebraismo diventi in tal modo cifra di una condizione esistenziale comune a tutti gli uomini, che nell'ebreo si fa radicale: quella di sentirsi nel contempo dentro e fuori del mondo sociale e storico di cui si è parte senza appartenervi.25 Quella

dell’ebreo è un’identità errante, che la Arendt non si stancherà di tematizzare in maniera esplicita in più luoghi della sua opera. Scrive così a proposito di Rahel:

Poiché Rahel, nonostante tutti gli sforzi, non trova un inserimento sociale, e le sue tendenze all’assimilazione si fermano in uno spazio vuoto d’aria e di persone, non le riesce di diventare un essere umano tra gli uomini.26

Parlare della Varnhagen, per Hannah, diventa fondamentale per descrivere la condizione di tanti ebrei che non riescono a trovare un loro posto nella società, rendendo, quindi, comprensibile la complessità di questa condizione che riguarda l’identità della persona stessa.

Ancora la Arendt in una corrispondenza con Karl Jaspers:

Ancora oggi sono dell’opinione che gli ebrei, alle condizioni della loro assimilazione sociale e della emancipazione di stato non possano “vivere”. La vita di Rahel mi sembra una prova di questo, proprio perché lei ha sperimentato tutto in sé stessa, con straordinaria crudezza e con totale mancanza di mistificazione. Quello che in lei mi ha attratto, è stato sempre il fenomeno che la vita la colpisse “come il tempo cattivo chi è senza ombrello”. Mi sembra che per questo in lei diventi tutto così chiaro.27

La Arendt si lega a questo personaggio perché, seppur in modo controverso e dubbio, e a suo parere anche discutibile, accetta questa tempesta della vita e non si arrende ad essa. Per tutta la vita ha cercato di mascherare la sua nascita, di trovare risposte diverse alla fatidica domanda “chi sei?”, altre parole ma anche altri nomi, altri modi di essere e di apparire, diversi rispetto al rinvio della sua nascita. Ha vissuto tutto questo in maniera straordinariamente intensa e con profonda coscienza. Hannah non può fare a meno di immedesimarsi in questa figura che vive nel profondo della propria interiorità gli stessi disagi e dolori che l’origine ebraica ha procurato

25 Cfr. H. Arendt, Rahel Varnhagen, Storia di una donna ebrea, ed. Il Saggiatore, Milano, 1988, pp 230-231: “ il

destino ebraico non era né così casuale né così particolare, ma rifletteva, anche se al contrario, esattamente lo stato della società, e ne raffigurava la terribile realtà in positivo, riproducendo le sue lacune negative”.

26 H. Arendt, Rahel Varnhagen. Storia di una donna ebrea, cit., p.139

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alla nostra stessa filosofa vissuta in un periodo in cui l’essere nati ebrei non comportava solo un disagio sociale, bensì un rischio per la vita stessa.

“Raccontare la storia della vita di Rahel così come l’avrebbe potuta raccontare lei stessa”28 vuol dire per Hannah Arendt interpretare una vita con null’altro che se stessa, facendola per così dire specchiare in sé stessa29.

Quella della Varnhagen è la storia di una donna ebrea nella Prussia tra la fine del XVIII e i primi anni del XIX secolo che, passando di situazione in situazione, nel vorticare dei cambiamenti, scopre, di volta in volta, che si può nascondere solo colui che si pone nel completo silenzio e nella perfetta passività. La storia di una donna ebrea che non ha un posto nel mondo - perché vive in un tempo che non prevede un posto per lei - ma che lo esige a tutti i costi, e che proprio per questo soffre, non solo in quanto essere umano, ma in quanto essere umano, donna, ebrea, che non vuole il silenzio né la perfetta passività, che esige, anzi, ad ogni situazione, la sua parte di attività, compiendo agli occhi della Arendt anche troppi errori, tra i quali uno in particolare: scambiare la società, la buona società del suo tempo, che la lasciava ai margini, con il mondo vero, portando all’estremo le sue forze nei mille tentativi per esserci, proprio lì, in quella società, senza mai presentire le possibilità o le impossibilità di un agire. La storia di una donna che, nella Prussia illuminata del suo tempo, arriva a portare con sé quella nascita come un oscuro segreto, intraprendendo una battaglia contro dati di fatto, inventandosi una vita priva di mondo e di tradizione, di solo pensiero e di sola intimità, realizzato nei salotti intellettuali berlinesi, da cui a poco a poco inizierà a fuggire. Una vita che richiede di apparire e, a lei, di apparire diversa da quello che è. La storia di una donna scissa al suo interno, che si lascia travolgere dall'ambiguità delle due vite –quella di ebrea e quella di tedesca inserita nel contesto intellettuale del tempo; trovando, dunque, in questa ambiguità, almeno momentaneamente, l'impressione di una soluzione duratura. La storia di una donna ebrea che ha cercato di nascere, non una seconda, ma più volte, che ha consacrato la propria vita, anche a costo di sacrificarla, a far dimenticare e a dimenticare la propria origine. È la storia di una donna che ha patito e riflettuto su ogni minimo elemento della propria esistenza, traendone, per tanto tempo, solo tragedie personali e impossibilità sociali, di fronte alle quali arriva a trovarsi sul punto di arrendersi.

Accade però qualcosa, forse proprio per le troppe umiliazioni subite, forse per la sua incapacità di vivere una vita non sua, una svolta con la quale questa donna diventa un modello per la stessa

28 H. Arendt, Rahel Varnhagen, storia di una donna ebrea, cit., p.5

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Arendt: arriva all'accettazione della sua nascita, anzi, all'entusiasmo sublime con cui rivendica la sua origine, in un senso di responsabilità piena. Il descrivere la vita di Rahel Varnhagen diventa così uno scrigno di infinite storie, tra cui quella di Hannah, in ognuna delle quali Rahel è protagonista, come se molti capitoli essenziali che trattano della sua vita non fossero altro che racconti di umanità che hanno questa donna ebrea come protagonista. La Arendt scorge nella Rahel Varnhagen, nel momento della sua svolta, la premessa di quello che secondo lei è il modo migliore per vivere e reagire alla propria condizione da ebreo: quello del non arrendersi, quello del far valere la propria umanità, quello che ritrova principalmente in un concetto che è presente in forme più o meno esplicite nella totalità dell’opera arendtiana e che già Bernanrd Lazare, nel periodo del caso Dreyfus, aveva descritto, quello del Paria30.

Il Paria, simbolo di una posizione nel mondo disintegrata, marginale, ma che tuttavia rimane indipendente dai richiami del conformismo, ma non estraneo alla sfera pubblica. Il Paria è colui che scegliendo di non assimilarsi e non conformarsi, nella sofferenza che questo comporta, riesce a svelare le contraddizioni che la società ha insite dentro di sé e non si lascia coinvolgere da esse, rimanendo saldo e integro. È colui che accetta la propria identità e sceglie di viverla fino in fondo, e per il quale, proprio questa accettazione, finisce per essere la risposta alla tragicità della sua condizione che perdura nel corso di tutta la storia: il suo essere emarginato prima, assimilato dopo, il diventare successivamente, apolide o senza patria, con la graduale privazione di ogni cosa che esso comporta, il subire il peso dell’isolamento e l’ammassamento nei ghetti e infine, l’orrore delle camere a gas. In Le Origini del Totalitarismo, dove attraverso la riflessione e lo studio di avvenimenti storici si tenta di mettere chiarezza e darsi dei perché su quelli che sono stati i grandi movimenti totalitari del Novecento, la Arendt chiarisce bene cosa significasse essere ebrei apolidi e senza diritti, e che valore, quindi, aveva scegliere di rimanere paria.

“La disgrazia degli individui senza status giuridico non consiste nell’essere privati della vita, della libertà, del perseguimento della felicità, dell’eguaglianza di fronte alla legge e della libertà di opinione, ma nel non appartenere più ad alcuna comunità di sorta, nel fatto che per essi non esiste più nessuna legge, che nessuno desidera più neppure opprimerli. Solo nei regimi totalitari, nell’ultima fase di un lungo processo, il loro diritto alla vita è minacciato; solo se rimangono perfettamente superflui, se non si trova nessuno che li reclami, la loro vita è in pericolo.31

30 Cfr. B. LazareL’Antisémitisme, son histoire et ses causes Ed. L. Chailley, Parigi, 1894 31 H. Arendt, Le Origini del Totalitarismo, Edizioni di Comunità, Milano, 1967, p.409

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