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La valutazione della realtà

Come abbiamo potuto osservare alla fine del capitolo precedente, il concetto di origine è utilizzato da Hannah Arendt come mezzo per individuare un sentiero all’interno della realtà in cui l’uomo è calato, in quanto la natalità diventa il segnavia della comprensione dell’esser-nel- mondo dell’uomo, che implica, quindi, una fedeltà alle cose, alla loro realtà nella datità del loro accadere. Del resto, la fedeltà alle cose e l’amore per il mondo erano già il frutto dello studio - anch’esso approfondito nel capitolo precedente- che la filosofa aveva condotta su Agostino, attraverso il quale trova le parole per raccontare l’esperienza esistenziale di ogni uomo nell’essere con gli altri, nel suo Amor mundi. Elizabeth Young-Bruehl, nella sua biografia su Hannah Arent, ricorda che la filosofa avrebbe voluto intitolare il libro Vita Activa, che vedremo approfonditamente nel corso della trattazione, con, appunto, Amor mundi59. L’amore per il

mondo è un elemento che percorre tutta la riflessione della Arendt, a partire dallo studio su Agostino fino a La vita della mente, ma che stride con lo scenario filosofico a lei contemporaneo, dove al posto dell’amore per il mondo si assisteva alla formulazioni di riflessioni che avevano il disprezzo o il totale allontanamento dal mondo60. Nel suo tipico

atteggiamento di osservazione e concentrazione sul ciò che la circondava, fissandosi inevitabilmente sulle atrocità che la sua realtà storica aveva provocato, lei, come tanti altri intellettuali, non può fare a meno di chiedersi e riflettere su come tali fatti siano stati possibili, quali possano essere state le cause e, andando più in profondità, cosa può aver contribuito a rendere anche il mondo intellettuale, da cui lei è sorta, così gremito di esponenti che hanno preso parte attivamente alla realizzazione di tali orrori. La tradizione filosofica occidentale, il suo riparo in cui si è rifugiata fin da giovanissima, aveva generato personaggi come Martin Heidegger, il suo maestro per eccellenza, che adesso provocava in lei inquietudine e incertezza: come un pensatore di tale statura aveva potuto non solo aderire al nazismo, ma anche, dopo la Seconda Guerra Mondiale, mantenere una posizione ambigua nei confronti di tale scelta? È proprio in questi sentimenti di turbamento e disappunto che Hannah Arendt sente lontana una riflessione filosofica del calibro heideggeriano e non solo, che non riusciva a fornire risposte e

59 E. Young-Bruhel, Hannah Arendt1906-1975: per amore del mondo, cit., p.370

60 “Nulla forse è più sorprendente, in questo nostro mondo, della varietà pressoché infinita nelle sue

apparenze, del puro valore spettacolare delle sue vedute, dei suoni, degli odori, qualcosa di pressoché dimenticato negli scritti dei pensatori e dei filosofi”. Vedi H. Arendt, La vita della mente, cit., p.100

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spiegazioni comprensibili e soddisfacenti a fenomeni storici di tale misura, essendo totalmente immersa in problemi puramente metafisici come le speculazioni sul senso dell’essere.

È proprio questo il tema centrale del suo piccolo saggio Che cosa è la filosofia dell’esistenza? pubblicato nell’inverno 1946, per la rivista The Partisan Review con il titolo What is the Existenz Philosophy? dove in poche pagine troviamo il tentativo di centrare la sua critica alla filosofia occidentale considerata da lei mera metafisica e totalmente lontana dal mondo. È la filosofia caratterizzata dal fatto di non aver mai dubitato dell’identificazione tra essere e pensiero, il cui iniziatore può essere considerato lo stesso Parmenide, mentre l’ultima parola di tale tradizione, Hegel. In questo saggio la Arendt da filosofa si scaglia contro la filosofia e tenta di elaborare un nuovo approccio filosofico sulla base della convinzione dell’impossibilità di identità tra essere e pensiero: la filosofia dell’esistenza. Questa, secondo la sua posizione, è stata introdotta da Schelling, con la sua filosofia positiva, opposta, appunto, alla filosofia negativa, capace solo di indicare in che modo si può e si deve necessariamente pensare la realtà. La filosofia positiva schellinghiana ha come obiettivo quello di rendere ragione del dato, dell’avvenimento, dell’esistenza; implica che la ragione riconosca di non essere essa stessa il principio assoluto e ammetta che il proprio pensare proviene da un essere che lo rende possibile. Questo risultava, agli occhi della Arendt, un punto di svolta nella storia della filosofia, che, a suo parere, fino a quel momento non era stata altro che un’evoluzione all’interno del solito paradigma dell’essere da Parmenide a Hegel. Ora con Schelling:

la filosofia moderna comincia con il riconoscimento che il che cosa non spiega mai il che; comincia con il terribile choc di una realtà vuota in sé.61

Tale svolta ha come necessario presupposto, secondo la Arendt, Cartesio, con la sua impostazione moderna di realtà, basato sull’interrogativo se l’essere in quanto tale è, e ancor più Immanuel Kant.

L’unità di essere e pensiero presuppone la coincidenza prestabilita di essenza ed esistenza, cioè che tutto ciò che può essere pensato esiste e tutto ciò che esiste, grazie alla sua conoscibilità, deve essere razionale. Tale unità è stata demolita da Kant, padre vero, benché nascosto, della filosofia moderna, il quale non è rimasto sinora il segreto sovrano. Kant aveva già privato l’uomo della sua antica sicurezza all’interno dell’essere, evidenziando la struttura antinomica della ragione e mostrando, nella sua analisi dei giudizi sintetici, che con ogni giudizio in cui si predica qualcosa della realtà noi oltrepassiamo il concetto di una cosa data.62

61 H. Arendt, Che cosa è la filosofia dell’esistenza?, cit., p. 54 62 Ibidem, p.54

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Questa identificazione tra essenza ed esistenza viene irrimediabilmente intaccata da questo tipo di riflessione; il termine “esistente” ora indica un qualcosa di opposto al pensato o contemplato, in un momento della storia del pensiero che aveva condotto l’uomo a non avere più niente a cui aggrapparsi, né alla ragione, né all’idee, né all’universale63, concetti che erano stati gli unici

strumenti con cui la filosofia aveva operato da Platone in poi. Demolendo l’antico concetto di essere che derivava da questo modo di pensare, Kant aveva come obiettivo quello di ristabilire una dignità dell’uomo, la sua autonomia rispetto al pensare filosofico.

In realtà, nel descrivere tutto questo, Hannah Arendt si rende conto fin da subito che questo grande innovatore si è arrestato a metà strada nel demolire questi antichi concetti. Ciò che ha conservato è «il concetto- altrettanto antico ed intimamente legato al concetto di armonia- di essere come dato, alle cui leggi l’uomo è comunque soggetto»64. In Kant permane il problema

che l’uomo debba sottomettersi alla struttura dell’essere, inteso nei termini di causalità naturale:

Secondo Kant, l’uomo ha certo la possibilità di determinare i propri atti a partire dalla libertà di una buona volontà, ma tali atti cadono sotto la legislazione della causalità naturale, dominio per sua essenza estraneo all’uomo. una volta fuori dalla soggettività, cioè dalla libertà, gli atti umani entrano nella sfera della oggettività, cioè della causalità, e perdono il loro carattere libero. L’uomo, di per sé libero, è consegnato senza speranza al corso della natura che gli è estraneo, vale a dire ad un destino che gli è contrario e che distrugge la sua libertà.65

È da qui che nasce il dualismo dell’uomo, da una parte, sottomesso alla causalità della natura che circonda l’uomo –presente nella Critica della Ragion Pura- dall’altra dotato di libera volontà nel determinare i suoi atti nelle questioni morali, come ci descrive nella Critica della Ragion Pratica.

Si ripresenta qui, quella difficoltà su cui la Arendt si era già soffermata agli arbori della sua produzione filosofica, nel 1928, con la tesi di dottorato su Agostino: il problema di sostenere un rapporto con l’essere inteso come dato e, contemporaneamente, salvaguardare la libertà e umana66. Il tentativo della filosofia tradizionale di risolvere questo problema con

l’identificazione tra essere e pensiero è, secondo la nostra pensatrice, un ricorrere ad un’illusione, un’illusione che la ragione possa, in qualche modo, rischiarare la realtà.

Kierkegaard è, agli occhi della Arendt, colui che in qualche modo fa un ulteriore passo in avanti rispetto a Kant: è colui che si rende conto del paradosso di mettere in concreto rapporto il

63 Cfr. ibidem, p.56

64 Ibidem, p.57 65 ibidem

66 Cfr. S. Maletta, in Hannah Arendt: una filosofia della cultura, in H. Arendt, Che cosa è la filosofia

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singolo uomo, con l’universale, inconcepibile e inafferrabile se non in ambito contemplativo. Hannah Arendt usa questi termini al riguardo:

all’interno di tale paradosso l’individuo può cogliere l’universale, può farne contenuto della propria esistenza e condurre quindi un’esistenza paradossale, così come Kierkegaard ci racconta di se stesso. Nell’esistenza paradossale l’uomo cerca di realizzare praticamente la contraddizione per cui se l’universale in generale vuole diventare reale e perciò significativo per l’uomo, «esso è posto come singolare»67.

In questa condizione di smarrimento in cui l’individuo si trova a vivere in questo mondo così sommerso dalla ragione, questo filosofo, secondo l’interpretazione della Arendt, è colui che più di tutti pone la riflessione sul piano giusto: partire dall’unica certezza che l’uomo ha, cioè la sua esistenza, non comprensibile razionalmente, e prendere atto di ciò che questa esistenza comporta; «diventare soggettivo», ossia «diventare un essere che esiste coscientemente e che coglie costantemente le implicazioni paradossali della propria vita nel mondo»68. Tale

riflessione del divenire soggettivi, si accende in questo filosofo a causa dell’angoscia di fronte alla morte, di fronte a quell’avvenimento l’uomo è necessariamente solo, separato dalla vita quotidiana e concreta.

Ciò che Hannah Arendt critica di questa impostazione è che la morte, come succederà per svariati filosofi successivi, come abbiamo visto primo tra tutti lo stesso Heidegger, si pone al centro di ogni riflessione sulla realtà:

Da un punto di vista psicologico questa tecnica di riflessione interiore si fonda semplicemente sulla supposizione che, col pensiero che un giorno non esisterò più, si spegnerà pure il mio interesse per ciò che esiste. È caratteristico della filosofia moderna che tale supposizione sia recepita senza esame e, in una certa misura, ingenuamente da un gran numero di uomini. Su tale presupposto non si basa solo l’interioritàmoderna, bensì anche quel modo un po’ fanatico - che ha inizio anch’esso con Kierkegaard- di decidere di prendere sul serio l’attimo e di considerarlo quale unico garante dell’esistenza, cioè della realtà.69

Così facendo, si arriva a convincersi che l’uomo sia tanto più uomo quanto più declina il suo interesse per il mondo, per ciò che esiste. E questa di certo non poteva essere, come abbiamo ormai capito, l’opinione di Hannah Arendt.

67 Ibidem, p.62

68 Ibidem, p.61 69 Ibidem, p.63

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È questo, infatti, uno dei punti focali della critica arendtiana alla filosofia occidentale; dalle originali intuizioni di Kierkegaard prendono inizio diverse delle filosofie contemporanee che la Arendt critica fortemente, perché incentrate per lo più sul concetto di morte e di allontanamento dal mondo degli umani. Non è un caso che, proprio nel saggio che stiamo analizzando, il capitolo su Kierkegaard venga seguito dall’analisi arendtiana di Heidegger, con la sua conseguente critica. Heidegger e Jaspers, i due maestri spirituali della nostra pensatrice, si sono posti nella storia del pensiero occidentale come prosecutori della scia intuitiva del filosofo danese, anche se in maniera totalmente diversa e con mire distinte.

La Arendt, infatti, presenta in questo capitolo, Heidegger come un falso rivoluzionario70, per

la sua intenzione di voler rifondare una ontologia, cosa che ai suoi occhi altro non significa che «proporsi di annullare la demolizione dell’antico concetto di essere cominciata con Kant»71.

Secondo la riflessione della filosofa, Heidegger ha tanti meriti, e tra questi, quello di essersi inserito nel caos emerso dopo la rivoluzione kantiana, nell’armonia perduta tra essere e pensiero, tra essenza ed esistenza, tra ciò che è realtà e ciò che può essere colto attraverso ragione. Nella sua analisi, infatti, il pensatore tedesco parte dalla riflessione per cui è possibile un ente in cui si identifica l’essenza con l’esistenza, e questo ente altro non è che l’uomo stesso.

La sua essenza è la sua esistenza. «la sostanza dell’uomo non è lo spirito bensì l’esistenza». L’uomo non ha alcuna sostanza: si dà interamente nel fatto che egli è.72

Questo, a opinione della Arendt, è importante non solo per lo stravolgimento delle strutture filosofiche riguardanti l’uomo che ne derivano, ma anche per l’innovazione che nel campo della metafisica tradizionale comporta:

per comprendere il fascino di questo progetto, occorre ricordare che, per la metafisica tradizionale, Dio era l’essere nel quale coincidevano essenza ed esistenza, nel quale pensiero ed azione erano identici e che, perciò, era interpretato come fondamento celeste dell’essere terreno.73

Si ha adesso, il tentativo di rendere l’uomo “il Signore dell’essere”, ossia di proporre una nuova ontologia in cui l’uomo occupa il posto che prima apparteneva a Dio. Questo non poteva che risultare interessante alla nostra pensatrice, il cui primo obiettivo era porre l’uomo e il reale al primo posto. Andando avanti con lo studio del percorso intrapreso da Heidegger, Hannah continua a dare le sue interpretazioni più o meno arbitrarie. A sua opinione, egli cerca di uscire

70Cfr. ibidem, p. 65

71Ibidem, p.65 72Ibidem, p. 67 73ibidem

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dalla concezione dell’essere come dato, e lo fa proponendo la sua concezione del senso dell’essere con la temporalità. Questo però dà adito a alcune conclusioni della nostra autrice, che Sante Maletta, nella sua opera Hannah Arendt e Martin Heidegger, L’esistenza in giudizio, definisce “curiose”74: la tesi della temporalità, insieme a quella dell’esserci (propria dell’essere

dell’uomo determinato dal suo essere per la morte) determinano l’implicazione che il senso dell’essere altro non è che la nullità.75 Secondo la Arendt, ciò non ha esiti necessariamente

nichilistici, ma anzi può risultare un vantaggio estremo per le mire di chi come lei vuole attuare una rivolta contro la filosofia intesa come mera contemplazione e porre invece la questione in maniera tale che sia possibile passare all’azione. Sulla base di questo pensiero, infatti:

l’uomo può immaginare che il proprio rapporto con l’essere donatogli sia nient’altro che quello del creatore prima della creazione del mondo-creato come è noto, a partire dal nulla. Nella definizione dell’essere come nulla si trova, infine, il tentativo di abbandonare la definizione di essere come dato e di trasformare gli atti umani simili a quelli divini tout court76.

Nonostante questi presupposti risultino abbastanza interessanti per la Arendt, arriva fin da subito a notare che le riflessioni che Heidegger ne trae siano tutt'altro che condivisibili. Il fatto che l'essere dell'uomo sia chiamato “esserci” e che questo termine venga utilizzato per identificare l'uomo stesso, ha come obiettivo quello di «ridurre l'uomo ad una serie di modalità dell'essere ostensibili fenomenologicamente»77. Ciò, secondo la Arendt, comporta la sparizione

di tutti quei caratteri, ben evidenziati da Kant, che facevano parte della spontaneità dell'uomo e che non potevano essere mostrati fenomenologicamente, poiché in quanto spontanei non possono essere osservati come mere funzioni dell'essere, tra questi la libertà, la dignità, la ragione. A parere della Arendt, la proposta heideggeriana altro non è che una forma di funzionalismo in cui le facoltà dell'individuo sono meri modi d'essere e questo comporta conclusioni non accettabili per la nostra filosofa:

tale funzionalismo realista, cui l'uomo appare solo come un conglomerato di modi di essere, è per principio arbitrario, poiché la scelta dei modi non è guidata da alcuna idea di uomo. Al posto dell'uomo è posto il «se stesso», poiché l'esserci (l'essere dell'uomo) ha come particolare che per lui ne del proprio essere. Tale riflessività dell'esserci può venire compresa « esistenzialmente» e questo è tutto ciò che rimane della potenza e della libertà umane.78

74Cfr. S. Maletta, Hannah Arendt e Martin Heidegger, L’esistenza in giudizio, Jaca Book, Milano, 2001, p.25 75Cfr. H. Arendt, Che cosa è la filosofia dell’esistenza?, cit., p.66

76Ibidem, p.66 77Ibidem, p.68 78Ibidem

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Ecco che in Heidegger, la forma principale della libertà umana torna ad essere il fare filosofia, e ciò, agli occhi di Hannah, non è poi tanto distante da «una riformulazione del primato del bios theoriticos aristotelico, dell'atteggiamento contemplativo considerato come la più alta possibilità dell'uomo». Di nuovo, come in gran parte della storia della filosofia la potenza e la dignità dell'uomo, poste quasi al pari a quelle di Dio, si attualizzano in una fuga dal mondo concreto e reale, che invece l'uomo non può far a meno di abitare. La sua mondanità viene di nuovo ad essere rifiutata. Hannah Arendt riconosce a Heidegger il merito di aver impostato la sua filosofia su un piano mondano, l'essere dell'uomo, infatti, è definito con “essere nel mondo”, ma nella sua impostazione è presente una contraddizione: l'essere-nel-mondo, l' In der Welt sein, l'esserci, può raggiungere la sua autenticità solo nel momento in cui riuscirà a ritirarsi da quell'essere-nel mondo-che lo determina strutturalmente e essenzialmente: l'esistenza così posta è di per sé orientata verso l'ente intramondano, verso la morte, che è ciò per cui l'essere è, ma è anche ciò per cui l'essere, inteso come essere-per-il-mondo viene impedito. Ciò comporta che:

la modalità fondamentale dell'essere-nel-mondo è lo spaesamento nel duplice senso di mancare una dimora e di incutere paura. nell'angoscia, che è fondamentalmente angoscia di fronte alla morte, si esprime il non-sentirsi-a-casa-propria nel mondo.79

L'uomo avrebbe la certezza di essere se stesso solo con l'arrivo della morte, la quale lo condurrebbe via da questo mondo. La Arendt nota inoltre che questo «se stesso» sarebbe il vero io dell'esserci, la sua identità, e che proprio per questo esemplifica la struttura aporetica dell'essere-nel mondo: nel mondo, nella quotidianità questa identità non può essere colta, perché in tale contesto, nella pluralità e nella mondanità smetterebbe di essere se stesso. Arriva a dire che il «se stesso» è caratterizzato da un profondo egoismo, dalla sua «radicale separazione da tutti i suoi simili»80. L'essere-per-la morte costituisce il principio su cui si basa l'essenza

dell'uomo, ed è ciò che

strappa l'uomo al legame con i suoi simili che, in quanto “si”, gli impediscono di essere se stesso81.

79Ibidem, p. 69

80Ibidem, p. 71 81Ibidem

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A tale isolamento si aggiunge il fatto che intendendo in questo modo l'essere, nella sua essenza, non si può fare altro che definirlo “nullità”: questo perché l'esserci non si è dato da solo l'esistenza, ma si trova creato; o meglio, si trova gettato in un mondo, da lui non scelto. Tutto ciò che gli rimane di fare è prendere atto della fatticità della sua condizione, singolo individuo isolato, gettato nel mondo, nella sua nullità. In questo stato di cose «diviene chiaro che il se- stesso è il concetto opposto a quello dell'uomo»82, così come era stato per Kant, per il quale

ogni singolo uomo potesse rappresentare tutta l'umanità. E dunque:

come in Kant l'imperativo categorico insiste sul fatto che ogni azione deve assumere la responsabilità per tutta l'umanità. Così l'esperienza della nullità colpevole insiste sull'annullamento dell'umanità ogni giorno.83

Hannah Arendt troverà in Jaspers la proposta più adatta al suo pensiero; la sua opinione su Heidegger, però, verrà rivista ed esposta in maniera più globale nell'ultima opera, pubblicata postuma, La vita della mente. Aveva riconosciuto il grande apporto alla storia del pensiero del suo maestro in uno scritto realizzato nel 1969 a seguito di un incontro con lui, per rendergli onore in occasione dei suoi ottanta anni. Tale testo, infatti, porta il titolo Martin Heidegger ha

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