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Di nuovo a Gerusalemme

Nel documento Hannah Arendt: dall'ebraismo alla politica (pagine 110-134)

«Assistere a questo processo è, in qualche modo, io ritengo, un obbligo che ho verso il mio passato»260, così dichiarò Hannah Arendt riguardo al processo a Eichmann che si sarebbe tenuto

a Gerusalemme tra il 1961 e il 1963, le cui considerazioni contenute nell’opera La banalità del male, Eichmann a Gerusalemme, avrebbero reso la filosofa famosa, in tutto il mondo intellettuale del tempo, anche se, nella maggioranza dei casi, in un senso totalmente negativo. Ed effettivamente, per lei, questo processo avrebbe costituito la possibilità di toccare con mano, di vedere con i propri occhi un criminale nazista all’interno della realtà di Israele, i due fuochi, come abbiamo visto nel capitolo precedente, su cui si era costruito tutto il pensiero e l’agire della nostra autrice. Ma l’eccitazione per questo grande evento, la felicità di tornare a Gerusalemme, terminarono non appena vide l’imputato, “l’uomo nella gabbia di vetro”, che non destava la benché minima inquietudine o turbamento. Fin da subito, per il modo in cui questo processo fu gestito dalle autorità israeliane, le apparve subito lampante l’atteggiamento ebraico che tanto criticava nel periodo in cui prese parte al dibattito politico sionista, e che abbiamo descritto nel capitolo precedente. Questo processo, infatti, per una grande porzione dell’opinione pubblica, di cui la Arendt faceva parte, era stato strumentalizzato dal governo israeliano per far valere quei valori e principi che avevano fatto da fondamento a tutta la politica sionista.

259 Riguardo alle questioni razziali in Americani, intorno agli ’60, Hannah Arendt si pronunciò in diversi articoli. Il

più controverso fu Riflessioni su Little Rock (1959), in H. Arendt, Responsabilità e giudizio, Einaudi, Torino, 2004, pp.167-183

260 Arendt al Vassar College, 2 gennaio 1961, citazione presente in E. Young-Bruehl, Hannah Arendt 1906-1975,

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Tra le prime critiche che furono mosse al processo, ci fu quella riguardante il modo in cui Eichmann fu trovato e rapito dall’Argentina, a opera dell’Agenzia segreta israeliana, ossia da veri e propri agenti governativi. Il trasferimento di Eichmann, come di qualsiasi altra persona costituiva per la legge dell’Argentina un reato. Il fatto che il governo stesso avesse compiuto tale misfatto fu una cosa presa in esame dalla difesa di Eichmann durante il processo, ma su ciò l’accusa sostenne che la cosa «riguardava soltanto la Repubblica argentina e lo Stato di Israele e non aveva nulla a che fare con i diritti dell’imputato, e che del resto questa violazione era stata “sanata” mediante dichiarazione congiunta dei i due governi, il 3 agosto 1960»261. In realtà

l’Argentina, qualche giorno dopo la notizia della cattura, chiese tramite l’ambasciatore israeliano una dichiarazione ufficiale da parte del governo di Gerusalemme. Il governo israeliano precisò che Eichmann era stato trasportato in Israele di sua libera volontà262 e si

dichiarava fiducioso che l’Argentina tutta avrebbe compreso il significato eccezionale del processo. Esisteva comunque un vero e proprio problema sul piano del diritto internazionale. Se per Israele la cattura in sé era secondaria rispetto al fine e alle ragioni storiche, questa per l’Argentina poteva risultare un precedente internazionale pericoloso, poiché un residente di uno Stato sovrano poteva essere impunemente rapito da agenti o cittadini di uno stato straniero. Alla fine l’Onu stessa, conseguentemente a queste trattative, dichiarò il processo lecito. Di sicuro una cosa era certa, l’Argentina non avrebbe mai rinunciato così facilmente ai suoi diritti se Eichmann fosse stato un proprio cittadino: questi in realtà aveva vissuto là solo negli ultimi tempi, sotto falso nome (Ricardo Klement), privandosi quindi del diritto di essere protetto dal governo263. Eichmann comunque non era un apolide; dal punto di vista giuridico era ancora

cittadino tedesco, ma la Germania ovest non ebbe grossi problemi a non complicare la situazione. Di fatto, Eichmann era considerato dal mondo un apolide, e come lui sapeva meglio di chiunque altro, per via della sua carriera nel partito nazista, degli apolidi si poteva fare qualsiasi cosa.

Altro aspetto su cui la Arendt si interrogò e si confronto con altre personalità- tra queste il suo caro amico Jaspers264- fu quella della legittimità di una corte esclusivamente israeliana,

261 H. Arendt, La banalità del male- Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano, 1964, p.246

262 Cosa tecnicamente vera in quanto Eichmann subito dopo il rapimento scrisse di suo pugno una dichiarazione

in cui accettava liberamente di essere processato in Israele: “dichiaro di mia spontanea volontà che, essendo stata ormai scoperta la mia vera identità, mi rendo perfettamente conto che sarebbe inutile cercare di sfuggire inutilmente alla giustizia. Perciò mi dichiaro disponibile a recarmi in Israele e affrontare il giudizio di un tribunale, […], e io cercherò di scrivere che cosa ho fatto nei miei ultimi anni di attività pubblica in Germania, senza abbellimenti di ogni sorta, in modo da dare un quadro veritiero alle generazioni future. […] Voglio finalmente essere in pace con me stesso […]” da ibidem, p.248

263 Cfr. H. Arendt, La banalità del male, cit., p.247 264 Cfr. H. Arendt, K. Jaspers, Carteggio, cit., pp. 177-220

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piuttosto che di una internazionale. Del resto, come era stato a Norimberga, si stava parlando di crimini contro l’umanità.

Il caso Eichmann riguarda l’umanità e non doveva essere immiserito diventando una questione israeliana. Il problema è soltanto uno: quali forme politiche e giuridiche si sarebbe dovute trovare? Né lei né io siamo in grado di dare una risposta.265

La Arendt, al contrario dei dubbi di Jaspers, era abbastanza convinta della validità di un processo tenuto da Israele: quest’ultimo avrebbe potuto parlare a nome di tutti gli ebrei, se non in senso giuridico, almeno in senso politico, ricordando anche che la maggior parte dei sopravvissuti alla persecuzione nazista erano andati a vivere in Israele.

Di sicuro ci si rende conto del valore storico e politico che questo processo possedeva per lo Stato di Israele: nato nel 1948, si colloca a livello internazionale come paese alleato delle potenze occidentali. Ma c’è ancora un conto aperto: simbolico, più che materiale. I criminali nazisti, responsabili dello sterminio degli ebrei, sono stati processati a Norimberga dagli stati vincitori, poi dai tribunali dei singoli stati con tempi e modalità diverse. Israele, nato dopo la fine del conflitto bellico, non ha potuto tenere i suoi processi. Il caso Eichmann, dunque, ha lo scopo di sanare questa lacuna per l’opinione pubblica del paese: il criminale deve essere portato per la prima volta davanti a un tribunale composto interamente da ebrei e da loro processato. Ciò serve per stabilire un principio: Israele è, al pari delle potenze vincitrici della seconda guerra mondiale, uno Stato sovrano che può condurre un processo di portata internazionale. Dall’altra parte, Israele bramava per un bisogno che sentiva sempre più impellente, quello di creare un’identità ebraica: il Neo- Stato aveva sicuramente delle basi che non potevano essere negate, frutto del pionerismo sionista del XX secolo o della rete creata dai kibbutz, su cui Ben Gurion fondò l’ossatura dello Stato. Anche l’uso rinnovato della lingua ebraica a discapito di quella yiddish, sicuramente aveva contribuito alla costruzione della nuova identità israeliana, lontana dagli schemi culturali dell’ebreo diasporico. Di sicuro, c’era bisogno, però, di creare o comunque di rinvigorire la coscienza degli ebrei come popolo, soprattutto dopo l’ondata di migranti successivamente al secondo conflitto. Il popolo d’Israele, di fatto, non era certamente un popolo politico coeso; c’erano appartenenze culturali, politiche e sociali molto differenti tra loro. Risultava difficile trovare un filo comune che legasse un ebreo emancipato inglese, un chasid ucraino e un ebreo yemenita, che andasse oltre l’appartenenza alla medesima religione. Il processo Eichmann, il grande nemico degli ebrei, avrebbe dato la possibilità di

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trovare un punto di unione, anche per coloro che erano troppo giovani per aver vissuto gli avvenimenti tragici della Shoa, e che ne avevano solo sentito parlare. «La generazione “cresciuta dopo l’olocausto” correva il pericolo di allentare i legami con il mondo e di conseguenza con la propria storia»: per l’ennesima volta la Arendt notava in tutto questo, quella mentalità che aveva guidato la lotta Sionista e poi la fondazione dello Stato, che faceva apparire come fulcro dell’identità ebraica, non la cultura, l’attività politica, bensì la sofferenza. Secondo il suo pensiero, era stata questa la mentalità che li aveva rovinati in passato, che li aveva resi incapaci di distinguere amici dai nemici; che li aveva spinti a convincersi tutti i gentili fossero uguali e quindi potenziali assassini, ed era la mentalità che Ben Gurion si era ostinato a tenere come guida per tutta la nazione.

Per questo il processo doveva essere trasmesso in Tv, per questo doveva essere un evento, uno spettacolo, entrare negli occhi degli spettatori e non solo nella loro coscienza. La corte, Beth Hamishpath, guidata dal Procuratore Generale Gideon Hausner e dal presidente Moshe Landau, erano stati, quindi, gestiti da Ben Gurion, che Hannah Arendt definisce come il «registra invisibile»266 di questo evento, che più che un processo appariva, dunque, un dramma, di cui la

Corte sembrava essere la protagonista. In linea con quella che era stata la linea di pensiero sionista, tanto criticata dalla Arendt – come abbiamo visto nel paragrafo precedente- l’oggetto di questo spettacolo, in cui tutto il popolo israeliano doveva riconoscersi, era l’atroce sorte che gli ebrei, in quanto popolo, avevano dovuto subire per il semplice fatto di essere ebrei, cosa che la Arendt non negava, ma che non doveva, secondo lei, occupare il ruolo fondamentale nella determinazione di una coscienza di popolo.

Ed ora, per quanto schivi e comprese del loro dovere, i giudici erano lì, seduti alla loro cattedra, di fronte al pubblico come in un teatro. Il pubblico doveva rappresentare il mondo intero, ed effettivamente nelle prime settimane fu costituito in prevalenza da corrispondenti di quotidiani e riviste, accorsi a frotte da Gerusalemme dai quattro angoli della terra. Dovevano assistere a uno spettacolo non meno sensazionale del processo Norimberga; solo che questa volta il tema centrale sarebbe stata “la tragedia del popolo ebraico nel suo complesso”. Se infatti a Eichmann “contesteremo anche crimini contro non ebrei”, ciò avverrà non tanto perché li ha commessi, quanto “perché non facciamo distinzioni etniche”.267

Alla Arendt apparve che dietro a tutto il processo c’era l’obiettivo di mostrare la tragedia che il popolo ebraico aveva vissuto, piuttosto che fare giustizia per le atrocità che il Nazismo aveva compiuto.

266 H. Arendt, La Banalità del male, cit., p.13 267 Ibidem, p.14

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Di qui il fatto che in Israele nessuno voleva sentir parlare di un tribunale internazionale, perché questo avrebbe giudicato Eichmann non per “crimini commessi contro gli ebrei” ma per “crimini commessi contro l’umanità commessi sul corpo del popolo ebraico”268

Hannah Arendt si era sempre interessata alla storia dell’antisemitismo, ne aveva ricercato le origini e i motivi, perché riteneva che questa fosse importante per capire le atrocità che potevano essere commesse contro il genere umano, perché riteneva importante prevenire simili crimini. Gli ebrei in quanto specifiche vittime non c’entravano. Questo processo, invece, aveva tutt’altro obiettivo: doveva mostrare quanto un ebreo fosse sicuro solo all’interno della propria terra, poiché l’odio nei suoi confronti, che era arrivato a procurare sei milioni di vittime, era sempre in agguato.

Gli ebrei della diaspora dovevano ricordare come l’ebraismo, “con i suoi quattromila anni di storia, con le sue creazioni spirituali, i suoi programmi etici e le sue aspirazioni messianiche” avesse sempre dovuto fronteggiare “un mondo ostile”; come gli ebrei avessero tralignato finché erano andati a morte come pecore; e infine, come soltanto la fondazione di uno Stato ebraico avesse loro permesso di rispondere a che li attaccava: lo si era visto nella guerra d’indipendenza, nell’avventura di Suez e lo si vedeva ancora nei quotidiani incidenti lungo le infelici frontiere di Israele. […] la generazione “cresciuta dopo l’olocausto” correva il pericolo di allentare i legami con il mondo ebraico e di conseguenza con la propria storia269.

In realtà le aspettative vengono tutte deluse, in quanto «per tutto il processo non ci sarà mai niente di teatrale»270 né per quanto riguardava i giudici, né, tantomeno per quanto riguardava

Eichmann, che in nessun modo appariva come il mostro malvagio che tutti si aspettavano di processare. E anche per quanto riguardava il pubblico:

se il pubblico al processo doveva essere il mondo e se il dramma doveva essere un vasto panorama delle sofferenze ebraiche, le aspettative e le intenzioni andarono deluse. I giornalisti dopo circa due settimane disertarono l’aula, e da quel momento la fisionomia del pubblico mutò radicalmente271.

I giudici, infatti, per quanto ben manovrati da Ben Gurion, appaiono alla Arendt comunque come integri servitori della giustizia, per la quale dunque era importante giudicare i crimini che Eichmann aveva commesso, «non le sofferenze degli ebrei, non il popolo tedesco, e neppure l’antisemtismo»272. Per tutto il corso del processo non ci sarà nulla di teatrale nel

comportamento dei giudici: essi ascoltano con serietà e attenzione, sono ineccepibili di fronte

268 Ibidem, p.15 269 Ibidem, p. 18 270 Ibidem, p.12 271 Ibidem, p.16 272 Ibidem, p. 13

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ai racconti di tale sofferenze, i loro modi nei confronti della difesa, l’avvocato tedesco Robert Servatius273, e dell’imputato sono irreprensibili.

Fin da subito, queste iniziali considerazioni della Arendt, appena pubblicate come articoli nel New Yorker, il giornale per cui era stata mandata al processo, suscitarono non poche polemiche. Ma niente in confronto a quello che successe nel momento in cui apparvero le osservazioni, sparse un po’ per tutti gli articoli, in totale sei, sul ruolo che gli Judenräte, ossia i Consigli ebraici d’Europa, avevano avuto durante la «soluzione finale» e la rappresentazione, chiara fin dalle prime pagine, di Eichmann descritto come uomo normale, uomo banale. Nel corso della controversia a ciascuno di questi punti furono affiancati giudizi e immagini esasperati di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, si sentivano toccati emotivamente dai fatti trattati. Così per quanto riguarda la descrizione di Eichmann, si parlò di una giustificazione da parte della Arendt dei crimini commessi da quest’ultimo; per quanto riguarda i consigli ebraici, le fu imputato di ritenere il popolo ebraico un vero e proprio collaboratore del proprio sterminio; e infine, dalle riflessioni sulla gestione del processo da parte di governo israeliano e le relative questioni sul diritto internazionale, nacquero le denunce che Arendt fosse un’anti-israeliana, un’antisionista, un’ebrea piena di odio per se stessa, una purista del diritto, una moralista ecc..

Di sicuro il libro, come abbiamo potuto osservare anche dai pochi accenni fatti, si prestava facilmente a critiche, per i temi trattati, ma anche per lo stile e i toni sovente sarcastici e spesso arroganti che la Arendt aveva mantenuto. È chiara, infatti, una certa sua insensibilità per le emozioni che Ben Gurion esprimeva e che molti altri condividevano: il libro parla delle implicazioni politiche, descrive asetticamente l’imputato, mostra per la prima volta il concetto di banalità morale, ma non accenna mai alle ferite profonde che il popolo ebraico aveva subito, né ammette mai quella naturale tendenza difensiva che ne deriva, che ci spinge a muovere accuse e a incanalarle tutte contro una persona particolare.

La controversia che nacque da queste posizioni fu sicuramente fondata sulle differenze di impostazione riguardo alla questione che la Arendt poneva rispetto all’opinione comune. Hannah Arendt descrisse Eichmann come mero burocrate, un uomo che solo durante il periodo di dominio nazista era riuscito ad uscire dall’anonimato, in quanto tutta la sua vita fu un continuo susseguirsi di sfortune e insuccessi, dovuti principalmente alla sua inettitudine.274

Durante il regime occupò il ruolo di capo dell'ufficio B4 sottosezione 4 dell'RSHA, ufficio per la sicurezza nazionale delle SS, ossia il suo compito era quello di organizzare i trasporti degli

273 Bisogna tenere conto che Servatius era un avvocato tedesco, pagato dallo stesso stato di Israele, perché la

Germania si era rifiutata. Come dice Hannah Arendt: “il dottor Servatius combatte questa disperata battaglia da solo e in un ambiente ostile” da Ibidem, p.12

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ebrei, all’inizio finalizzati all’emigrazione dalla Germania, successivamente, con l’avanzare della guerra, alla deportazione nei campi di sterminio. Ciò che lui non si stanca di ribadire per tutto il processo, era quella formula che tutti gli imputati posti sotto accusa, dopo la fine della guerra, avevano usato costantemente: “stavamo seguendo degli ordini”.

Le sue azioni erano criminose soltanto guardando retrospettivamente, e lui era sempre sotto un cittadino ligio alla legge, poiché gli ordini di Hitler- quegli ordini che certo egli aveva fatto del suo meglio per eseguire- possedevano “forza di legge”.275

Su che tipo di colpa e di responsabilità per i fatti atroci questa obbedienza potesse rappresentare, Hannah Arendt si interrogherà fin da subito, dal momento in cui viene a sapere delle atrocità che si stanno svolgendo in Europa, ossia dal 1943; apparirà ricorrente negli anni successivi, nei vari articoli e saggi che si troverà a scrivere276. Non appaiono molto lontane da tutto questo,

infatti, le parole riportate nell’articolo scritto per il giornale Jewish Frontier, nel 1945, dal titolo italiano Colpa organizzata e responsabilità universale:

D. Avete ucciso delle persone nel campo? R. Si D. Le avete uccise col gas? R. Si

D. Le avete sepolte vive? R. è capitato

D. Le vittime provenivano da tutta Europa? R. Penso di si

D. Lei personalmente ha ucciso delle persone? R. assolutamente no. Ero solo l’ufficiale pagatore del campo.

D. Qual era la sua opinione su ciò che stava avvenendo intorno a lei? R. Inizialmente è stata dura, poi ci siamo abituati.

D. è consapevole del fatto che i russi la impiccheranno? R. (scoppiando in lacrime) Ma perché?

Che cosa ho fatto?

Davvero non aveva fatto niente. Aveva solo eseguito degli ordini e da quanto mai è un crimine eseguire degli ordini? Da quando mai è una virtù ribellarsi? 277

Un uomo come Eichmann -e come tanti altri funzionari di quel tempo- che si sentiva infastidito, a detta sua, anche dalla vista del sangue era un uomo più che normale, poiché si comportava in maniera ideale con la moglie, con i figli e sopra ogni cosa nei confronti del proprio dovere. Lui non aveva fatto niente di sua spontanea volontà, non aveva nessun odio antisemita, aveva cari amici ebrei, tra cui dei parenti acquisiti.

Sostenere tutto questo per la Arendt non significava sollevare l’imputato da ogni tipo di responsabilità, come si volle far credere dalla controversia che ne scaturì, ma aveva lo scopo di

275 Ibidem,p. 32

276 Molti di questi saggi sono raccolti nel libro Responsabilità e giudizio, di Einaudi, uscito nella traduzione

italiana nel 2004. Tra questi citiamo: La responsabilità personale sotto la dittatura; Responsabilità collettiva;

Auschwitz sotto processo ecc…

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presentare in maniera più oggettiva il contesto e la situazione in cui si viveva nel tempo di questa catastrofe. Voleva comprendere e riuscire a capire come potesse essere successo.

I giudici non gli prestarono fede perché erano troppo buoni o forse anche troppo compresi dai principi basilari della loro professione per ammettere che una persona comune, “normale” non svanita né indottrinata, né cinica, potesse essere a tal punto incapace di distinguere il bene dal male. Da alcune occasionali menzogne preferirono concludere che egli era fondamentalmente un “bugiardo” - e così trascurarono il più importante problema morale e anche giuridico di tutto il caso. Essi partivano dal presupposto che l’imputato, come tutte le persone “normali”, avesse agito ben sapendo di commettere dei crimini; e infatti Eichmann era normale nel senso che “non

Nel documento Hannah Arendt: dall'ebraismo alla politica (pagine 110-134)

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