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Da ebrea a “un essere per il mondo”

Come abbiamo già in parte osservato, la realtà in cui Hannah Arendt vive, ciò che costituisce la sua mondanità, hanno fatto da impulsi per la realizzazione di tutte le sue profonde riflessione sulla vita, sull’etica, sulla morale, sull’esistenza tutta. Hannah Arendt è la testimone per eccellenza di come una vita offesa dalla storia possa riuscire a tradursi in un’interminabile ricerca di verità, in un’impresa di costruzione di un pensiero che vuole farsi carico del mondo e di tutta la sua radicale finitezza. C’è stato modo di chiarire, infatti, come la nostra pensatrice rifletta sulla condizione di esistenza, sulla relazione che questa ha con la realtà esterna, con la mondanità, relazione che risulta essere per certi versi costitutiva dell’esistenza stessa. È necessario, quindi, tentare di intuire e di riflette sul come si è attuata la relazione di Hannah Arendt con la sua realtà. Una relazione che, come apparirà chiaro, andrà a motivare e determinare tutti i suoi studi e le teorie più importanti.

Risulta superfluo sottolineare ancora una volta l’orrore che Hannah in quanto ebrea, nel suo secolo, è stata costretta a vivere. Da ricordare, però, è la particolarità del modo in cui la nostra pensatrice prende coscienza, si fa carico della sua condizione e prende la decisione di reagire. Per quanto l’antisemitismo si sia palesato nella sua vita fin dalla sua giovinezza117, un evento ha fatto scattare in lei il cambiamento: come lei stessa dichiara nell’intervista con Gaus già citata anche nel precedente capitolo, fu il 1933, l’anno in cui Hitler prese in tutto e per tutto il potere, il momento in cui Hannah mutò il suo approccio nei confronti della sua ebraicità e del modo politico di viverla.

Per me fu un vero trauma, e da allora mi sentii responsabile, non pensavo più, cioè, che si potesse rimanere degli osservatori, e così ho cercato di rendermi utile in molti modi.118

È da questo momento che iniziò la sua collaborazione con il Sionismo già accennata, il suo porsi a seguito di colui che fu guida per lei nel campo dell’attivismo politico, ma che fu anche il leader di tutto il Sionismo tedesco, Kurt Blumenfeld; è questo il momento in cui Hannah riconosce il fatto che essere ebrea ha un significato prettamente politico in un contesto come quello tedesco dell’epoca in cui lei ha vissuto. Per quanto per lei, come per molti altri, l’ascesa

117“Vengo da una vecchia famiglia ebrea. Comunque, la parola “ebreo” non veniva usata quando ero bambina.

Mi ci sono imbattuta per la prima volta ascoltando le battute antisemite-che è meglio non ripetere- dei bambini per strada. Da quel momento ho avuto, per così dire, un’”illuminazione”.” Da Archivio Arendt, a cura di Simona Forti, Feltrinelli, Milano, 2001, p.41. Per approfondimenti riguardo queste informazioni biografiche della Arendt vedi sopra, cap. 1, pp. 5-6.

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di Hitler non costituisse uno chock, il 1933 fu per lei il momento di farsi carico della sua condizione, per reagire ad essa, e questo consisteva, necessariamente iniziare ad agire e attivarsi in qualche direzione.119Non è da dimenticare che a causa della sua famiglia Hannah Arendt visse la sua infanzia con la consapevolezza che fosse ebrea, ma senza che questo risultasse un problema, in quanto per i loro genitori il fatto di essere ebrei non significava granchè.120 Il 1933 segnò l’inizio di una consapevolezza diversa riguardo il suo destino che sarebbe stato minato dai fatti storici contemporanei a lei: sarebbe stata costretta all’emigrazione, tutto sarebbe mutato, anche i rapporti con coloro che fino a quel momento aveva considerato, chi più chi meno, amici:

In secondo luogo… gli amici si “uniformavano” o allineavano. Il problema, il problema personale, non era ciò che facevano i nostri nemici, ma ciò che facevano i nostri amici. Sull’onda della Gleichschaltung (uniformazione), che era relativamente volontaria – in ogni caso non ancora indotta dal terrore- era come se intorno a noi si fosse creato uno spazio vuoto.121

E il fatto che la sua cerchia fosse composta da intellettuali, fu ulteriore motivo per decidere di allontanarsi da quel mondo. Da quel momento in poi per lei la linea da seguire era riassunta nella domanda «che cosa posso specificatamente fare in quanto ebreo?»122. Da qui il suo impegno nella collaborazione con le associazioni Sioniste e tutto ciò che ne deriverà. Il fatto che lei apparisse agli occhi del mondo come un’ebrea, e che questo soprattutto a partire da adesso comportasse una serie di complicanze destinate alla tragedia, tutto ciò contava più di ogni altra cosa, non erano più importanti le questioni di identità personale; sostenere e far valere queste avrebbe rappresentato una grottesca e pericolosa evasione dalla realtà, cosa che lei rifiutava.

Da ricordare che Hannah Arendt aveva già dichiarato la sua passione per Rahel Varnhagen, di cui aveva subito il fascino proprio per la sua volontà di comprendere la sua realtà di ebrea, nel suo complesso in un contesto che, seppur non come nell’epoca della Arendt, era già difficile. Come già chiaro dal capitolo precedente123, Hannah apprezzava e condivideva lo spirito brillante della Varnhagen, proprio perché a lei era toccata in sorte la vita, e questo fece sì che l’esperienza dell’autoriflessione non passasse per mediazioni di qualche tipo- il sapere, il ruolo sociale ecc- bensì passasse per la vita stessa, senza negazioni; la sua vita era andata a coincidere con le vicende della sua esistenza. Allo stesso modo della Varnhagen, l’attenzione della Arendt,

119 Cfr. ivi, p.45

120 Cfr. Cap.1, pp.1-2

121 H. Arendt, Archivio Arendt I, cit., p.46 122 Ibidem

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allora, si sposta verso la realtà vera, quella fattuale, quella ha come soggetto il “ciò che è”, che fa da base alla sua volontà di allontanarsi dai tutti gli intellettualismi, a tutti gli ambiti in cui lei era cresciuta che avevano avuto a che fare con il sapere meramente teorico. Lei stessa infatti dichiara nella solita intervista:

Il libro su Rahel Varnhagen era già finito quando lasciai la Germania, e il problema degli ebrei vi svolge un ruolo importante. L’ho scritto con l’intenzione di comprendere. Non che vi esaminassi specificatamente i miei problemi personali di ebrea, ma ora l’appartenenza all’ebraismo era diventato anche per me un problema, e questo problema era un problema politico: puramente politico! Volevo intraprendere un’attività pratica; esclusivamente e unicamente un’attività a favore degli ebrei. Con quest’idea fissa in testa ho quindi cercato lavoro in Francia.124

L’attività politica di Hannah Arendt avviene nel segno dell’essere nata ebrea, dell’appartenenza del popolo ebraico perseguitato; le varie forme di agire, di adempimento di compiti precisi a cui si dedicò, derivavano dalla convinzione, di ordine squisitamente politico, che, con l’ascesa di Hitler, non era più possibile essere una spettatrice. Ma questa presa di coscienza si è svolta in lei in un modo del tutto particolare: il definitivo rifiuto dello status e della professione di intellettuale, motivato da una resa dei conti con la questione della responsabilità degli intellettuali stessi, dà luogo a una serie di attività che vanno tutte a confluire in quel suo agire dall’aspetto multiforme: la riflessione storica-teorica, la teoria e l’impegno politico ecc. Ancora una volta è possibile riscontrare l’autonomia della nostra autrice e la via del tutto originale che si è decisa a perseguire rispetto al suo ambiente filosofico di provenienza, ma anche rispetto a quello prettamente politico a cui va incontro: alla radicalizzazione pratico- esistenziale (“io sono nata ebrea”) direttamente legata alla persecuzione, all’annunciarsi di una tragedia storico-politica, non segue una radicalizzazione né teorica, né di nessun altro tipo. Qualunque orientamento, nuovo pensiero avrebbe sporto troppo da una parte o da un’altra, e oltre che privo di senso, sarebbe risultato inefficace e deleterio in un contesto storico così grave. Il congedo della filosofia apre lo spazio della concretezza del fare individuale, legato alla propria appartenenza e a incombenze precise, nell’orizzonte di un presente storico di fronte al quale era indispensabile prendere posizione. C’è da dire, però, che anche l’attività del pensiero ne risultano più definiti. Viene infatti a prospettarsi il terreno di una vasta e differenziata esperienza di relazione con gli altri esseri umani e di assunzione di responsabilità verso ciò che accade, terreno che accoglie le svariate forme di tutto ciò che uno fa e può fare, dove vengono meno le tradizionali antitesi tra teoria e prassi; le differenziazioni nell’ampio campo

124 H. Arendt, Archivio Arendt I, cit., p.47

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dell’esperienza esistono e sono molte, derivano dalle modalità di attuazione delle diverse forme di attività umana, che sia pratica, teorica, etica o estetitca, politica o economica, e in particolare dal tipo di scambio o di interazione che ognuno di esse realizza con il contesto storico-sociale con concreto. Questo fa sì che agli occhi di Hannah Arendt, ogni forma di espressione, ogni teoria filosofia, ogni forma culturale appaia non più come una realizzazione individuale o il simbolo di una rappresentazione di qualcosa di falsamente universale, ma assuma il carattere di “eventi”, di elementi dell’esperienza dell’essere umano, vissuto in un tempo e in un luogo. Hannah Arendt è stanca e vuole uscire dalla concezione del reale identificato con lo squilibrio, l’insicurezza, duplicità, sospensione, soprattutto per ebrei come lei, che nella situazione tragica che vivono hanno il vuoto intorno a loro e si smarriscono in una realtà confusa e indeterminata. Lei vuole affrontate la sua realtà di essere ebrea, e lo può fare solo nel prendere atto della politicità della sua condizione da ebrea, della sua esistenza tutta e chiarendo a se stessa e al mondo quanta possibilità c’è in tutto questo. È questo che causa il suo congedo dalla filosofia, anche se il pensiero come attività non viene in nessun modo abolito. Hannah Arendt, come abbiamo visto nel paragrafo precedente, vuole allontanarsi da quelle forme di pensiero che si muovono sulla sottile pista atemporale, isolata, indifferente agli affari umani. Lei invece vuole praticare il pensiero che sia sì autonomo, ma che si identifichi altresì con il coraggio dell’autoriflessione, con la messa in discussione scaturita dalla trama invisibile della realtà, dell’enigma dell’apparenza. La Arendt, ora più che mai, brama di utilizzare il pensiero, ma non per discostarsi dalla realtà, ma per sciogliere tutti quei perché che la assalgono di fronte a tali atrocità del mondo. È necessario, dunque, adesso, che il pensiero cessi di interrogarsi sulle cose ultime, ma si sporga sul reale, assuma nuove forme e nuove regole sul terreno della realtà. È proprio per questo che la parte più cospicua dell’opera complessiva di Hannah Arendt sia costituita da riflessioni incentrate sull’uomo inteso come essere mondano, come essere che appare, come essere politico. Da qui in poi la pensatrice imbocca una nuova linea di pensiero distinta dall’antropologia filosofica e alla filosofia dell’esistenza fino a quel momento teorizzata, poiché pone come fulcro il fatto che la condizione umana è costitutivamente legata al mondo dell’apparenza, del mostrarsi e manifestarsi in presenza di altri. Per la prima volta l’identità e l’essenza dell’uomo non sono ricercate nel pensiero, nella ragione che conduce alle cose ultime dell’essere, ma sono ritrovate nella rivelazione di sè che l’uomo attua nel mondo. Vivendo in uno spazio, con altri, l’uomo rivela la sua essenza e la sua identità, e proprio nell’opera Vita Activa-La condizione umana125, la nostra autrice si prefigge l’obiettivo di capire

il come. Come intuibile dal titolo, il modo con cui l’uomo rivela la sua identità è attraverso

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l’interagire con l’esterno e le varie forme di attività che in questo scritto sono analizzate e descritte. Tutto ciò è condotto a partire dalle condizioni fondamentali dell’esistenza umana, tutte costituite dalla relazione con l’esterno, nei suoi diversi gradi e che suscitano diverse forme di attività. L’opera, infatti, si apre con la designazione delle tre fondamentali forme di attività umana: l’attività lavorativa, l’operare e l’agire. La prima è frutto della condizione dell’uomo che abita la terra, intesa come ambiente naturale, organico e inorganico, in cui è necessario sopravvivere. Per tale condizione l’uomo vive la sua dimensione di homo laborans, grazie al quale l’uomo riesce a procedere nel suo processo vitale, senza morire e senza far estinguere la sua specie. L’operare, invece, non corrisponde alla dimensione naturale dell’uomo, bensì al mondo artificiale, inteso come insieme di manufatti, che, in questo caso, l’homo faber realizza per la sua permanenza in questo mondo; tra questi fanno parte gli strumenti che hanno una qualche utilità pratica, ma anche opere la cui utilità è meno evidente, come le opere d’arte. Hannah Arendt, infine, pone l’azione o agire, come attività corrispondente alla condizione dell’uomo determinata dalla relazione con gli altri esseri umani. Essa è fondata sul presupposto che la condizione umana è determinata dalla pluralità degli uomini presente nel mondo, fissando quindi la valenza politica di ogni aspetto dell’esistenza126. Questa forma di attività definisce l’essenza umana sulla base di quella che era stata la formula aristotelica di uomo come zoov

politikon127.

Anche se tutti gli aspetti della nostra esistenza sono in qualche modo connessi alla politica, questa pluralità è specificatamente la condizione- non solo la conditio sine qua non, ma la

conditio per quam- di ogni vita politica. Così il linguaggio dei romani, forse il popolo più dedito

all’attività politica che sia mai apparso, impiegava le parole “vivere” ed “essere tra gli uomini” e rispettivamente “morire” e “cessare di essere tra gli uomini” come sinonimi. Ma nella sua forma più elementare, la condizione umana dell’azione è implicita anche nella Genesi (“Egli li creò maschio e femmina”), se accettiamo questa versione della creazione del genere umano e non quella secondo Dio originariamente creò solo l’Uomo (Adam, “lo” e non “li”), così che la moltitudine degli esseri umani è il risultato di una moltitudine128.

L’uomo, quindi, viene inteso e definito a partire dal suo stare nel mondo, con le varie forme di attività che esso comporta; assicurandosi la propria sopravvivenza, creando oggetti, in un rapporto di scambio e manipolazione della realtà esterna. Ma è a causa della presenza della

126 Cfr, ivi, pp.7-8

127 Anche se in altri scritti la Arendt ci tiene a rimarcare la distanza che la separa dal discorso aristotelico, in

quanto non ritiene che la natura dell’uomo sia quella dello zoov politikon: “quasi che nell’uomo vi fosse un elemento politico che è parte della sua essenza. Proprio questo è falso; l’uomo nasce tra gli uomini, dunque decisamente al di fuori dell’Uomo. Perciò non esiste una sostanza propriamente politica. La politica nasce nell’infra, e si afferma come relazione.” Da H. Arendt, Che cos’è la politica, Einaudi, Milano, 1995, p. 8

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pluralità umana che l’uomo rivela la sua essenza, entrando a far parte di una trama di relazioni, di un intreccio di sguardi e di gesti, grazie ai quali si sancisce l’appartenenza o inerenza a un insieme di corpi che si muovono o sono attivi, facendo esperienza del mondo in una molteplicità di prospettive e punti di vista.129 Non sembra un caso, allora, la determinazione con cui Hannah Arendt abbia sempre rifiutato la possibilità di negare il proprio ebraismo: sebbene questo per lei non avesse un forte significato di qualche tipo, era il dato di fatto con cui ella si presentava al mondo, nel quale appariva.

L’agire, che come abbiamo visto si muove in ciò che i Greci chiamavano polis, ossia lo spazio in cui gli uomini possono entrare in relazione tra di loro, consente il rivelarsi del chi, che necessariamente appare agli altri, e si rende manifesto nella sua identità e nella sua differenza. La pluralità che ne fa da presupposto, infatti, definisce la condizione umana in quanto agisce come forza di differenziazione e arricchimento di ambiti e di esperienze corrispondendo essa stessa a un’esperienza di quella paragonabile alla politeia, per quanto ormai quasi scomparsa. È nell’ apparenza agli altri, del vedere e dell’essere visti, dell’udire ed essere uditi, che avviene la vera e propria rivelazione dell’identità umana, e l’azione è la forma di esperienza che pratichiamo in questa dimensione130. Si parla di sfera pubblica per la dimensione dell’apparenza: questo è per identificare lo specifico carattere di realtà dell’esperienza che gli uomini fanno attraverso l’azione, ossia mettendosi in diretto rapporto l’uno con l’altro. La polis del resto non era altro che questo.

La polis propriamente parlando, non è la città stato in quanto situata fisicamente in un territorio; è l’organizzazione delle persone così come scaturisce dal loro agire e parlare insieme, e il suo autentico spazio si realizza tra le persone che vivo insieme a questo a questo scopo, indipendentemente dal luogo in cui si trovano.” Ovunque andrete voi sarete una polis” […]. È lo spazio dell’apparire, nel più vasto senso della parola: lo spazio dove appaiono agli altri come gli altri appaiono a me, dove gli uomini non si limitano a esistere come le altre cose viventi o inanimate ma fanno la loro esplicita apparizione.131

129 “Non l’Uomo, ma gli uomini abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”. Cit. H. Arendt, La vita

della mente, cit., p.99

130 “La pluralità umana, condizione fondamentale sia del discorso sia dell’azione, ha il duplice carattere

dell’uguaglianza e della distinzione. Se gli uomini non fossero uguali, non potrebbero né comprendersi tra loro né comprendere i propri predecessori, né fare progetti per il futuro e prevedere le necessità dei loro

successori. Se gli uomini non fosse diversi, e ogni essere umano distinto da ogni altro che è, fu o mai sarà, non avrebbero bisogno né del discorso né dell’azione per comprendersi a vicenda. Sarebbero soltanto sufficienti segni e suoni per comunicare desideri e necessità immediati e identici.” Da H. Arendt,Vita Activa- La condizione umana, cit., p. 127

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È come se allo spazio, composto di cose e oggetti, di interessi e scopi, si sovrapponesse lo spazio puramente relazionale, in cui l’uomo rivela la sua essenza.132

Il senso umano della realtà esige che gli uomini attualizzino la mera datità passiva del loro essere, non per mutare, ma per rendere articolato e chiamare alla piena esistenza ciò che altrimenti dovrebbero comunque soffrire passivamente.133

L’identità che si rivela nell’agire è meno aleatoria rispetto a quella che avremmo potuto ottenere nelle tradizionali filosofie, tutte discendenti della teoria cartesiana di un io-penso che realizza il riconoscimento di se stesso, proprio perché appare a più esseri umani, a tal punto che, invece di parlare di riconoscimento fenomenologico, con cui si intende un’interazione tra coscienze, si può parlare di partecipazione degli altri. Si potrebbe sostenere che l’agire mostra la straordinaria facoltà di rivelare l’essenza dell’uomo, proprio perché questi si espone alla presenza e allo sguardo degli altri, senza necessariamente dipendere da un loro riconoscimento preliminare. Il riconoscimento è un evento che ha luogo nella relazione. Tra gli altri. All’interno di questa pluralità, avviene la distinzione tra i vari uomini, che proprio in virtù dell’alterità possono identificarsi.134

L’alterità, è vero, è un aspetto importante della pluralità, la ragione per cui tutte le nostre definizioni sono distinzioni, per cui non riusciamo a dire ciò che ogni cosa è senza distinguerla da ogni altra. L’alterità nella sua forma più astratta è reperibile solo nella pura moltiplicazione degli oggetti inorganici, mentre ogni vita organica mostra già variazioni e distinzioni, anche tra gli esemplari di una stessa specie. Ma solo l’uomo può esprimere questa distinzione ed

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