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Il confronto con la Fedra di Sanguinet

Pavese e la teoria della traduzione

3.3. Il confronto con la Fedra di Sanguinet

Un confronto tra le traduzioni omeriche di Pavese e quella che Edoardo Sanguineti ha curato - con il titolo di Fedra - per la messinscena dell’Ippolito euripideo al teatro greco di Siracusa nell’ambito del XLVI ciclo di rappresentazioni classiche promosso dall’INDA nel 2010, è giustificato dalla sorprendente analogia dei risultati raggiunti dai due scrittori. Questo lavoro di Sanguineti fu, come egli stesso ebbe a dire, «l’ultimo approdo» della sua carriera di traduttore153. In precedenza aveva tradotto Le Coefore e I Sette contro Tebe di Eschilo,

L’Edipo Tiranno di Sofocle, Le Baccanti e Le Troiane di Euripide, la Fedra di Seneca e La festa delle donne di Aristofane, lavori che nacquero tutti in vista di una messinscena154. Questa attività era stata accompagnata da un’attenta elaborazione teorica: sin dal 1979

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Gabriella Remigi fa notare come la traduzione di Pavese di Of Mice and Men di Steinbeck tenda a mantenersi «fedele alla lettera e allo spirito dell’opera americana» e che tutti i casi in cui si discosta dal testo originale sono spiegabili come tentativi di dare un testo intellegibile al pubblico. È interessante la riflessione che Remigi inserisce a proposito del rapporto di Pavese con la tradizione: per quanto Pavese nei suoi saggi teorici esalti gli elementi di novità e rottura della prosa americana, nella traduzione spesso tende a stemperarli e a “cedere” al gusto letterario italiano. In un certo senso questo fenomeno si può paragonare alla comparsa, nelle traduzioni dal greco, di termini aulici e letterari appartenenti a quel filone di versioni che Pavese dichiarava di avversare. Cfr. REMIGI 2012, pp. 195-197. Il saggio di Pia Masiero sulla traduzione di The Hamlet di Faulkner, invece, rileva tutte le piccole libertà che Pavese si prende rispetto all’originale e, anche in questo caso, viene sottolineato come esse siano dettate unicamente da esigenze di chiarezza (cfr. MASIERO 1998, p. 103). Ma già in una delle prime analisi dedicate all’opera di Pavese traduttore (GORLIER 1964, che prende in analisi tre traduzioni, quella di

Portrait of the Artist as a Young Man di Joyce, di Moll Flanders di Defoe e di The Hamlet di Faulkner) si

rilevava da un lato come a Pavese interessasse più «il nodo intellettuale e speculativo [scil. del romanzo], che non l’esigenza di linguaggio o di struttura narrativa» (p. 74). Inoltre, nonostante venissero evidenziate diverse “infedeltà” al testo, si affermava (a proposito della traduzione di Moll Flanders, ma osservazioni analoghe si rintracciano anche nell’analisi delle altre traduzioni): «In questo senso [scil. il rispetto delle caratteristiche lessicali dell’originale], e pur in mezzo a qualche vistosa oscillazione, Moll Flanders appare una prova di traduzione felicemente risolta, nel senso della intelligenza, ma soprattutto del rispetto del testo, di una fondamentale correttezza così poco familiare a tutta una schiera di traduttori anche celebrati» (p. 80): anche in quest’ambito quindi Pavese si dimostra un innovatore nella consapevolezza della necessità di rimanere fedele al testo originale.

153

SANGUINETI 2010.

154 Le traduzioni sono state poi raccolte e pubblicate in S

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Sanguineti sottolineava come ogni traduzione fosse inevitabilmente un “tradimento” rispetto all’originale e come in realtà il testo letto (o rappresentato) non avesse altro autore che il traduttore. L’originale non era altro che «uno straordinario mito culturale», e ogni traduzione «volente o nolente, ci brucia il testo senza residuo»155. Il lavoro del traduttore era paragonato a quello dell’attore: entrambi, per quanto ufficialmente facciano riferimento ad un testo originale o a un copione, sono in realtà gli unici creatori della loro opera. Tale convinzione nasceva da una posizione ideologica, che Sanguineti non esitò a definire “storicismo assoluto” di origine marxista. Secondo questa visione, tanto l’esperienza umana quanto, più concretamente, la lingua nella quale essa si esprime, sono il prodotto di determinate condizioni storiche, economiche e sociali, e pertanto intrinsecamente irripetibili. Riportare in vita un prodotto culturale del passato è dunque un’illusione, e il mondo antico è per noi racchiuso in una impenetrabile «alterità»156. Il compito del traduttore, sfatata l’illusione di poter restituire un testo fedele all’originale, è rendere evidente agli occhi dei fruitori questa “esoticità” del mondo antico, tramite un prorompente effetto straniante: solo in questo modo il traduttore non risulterà un traditore del testo. Lo sforzo dunque non andrà nella direzione di una resa scorrevole e naturale nella lingua di arrivo, che sarebbe una mistificazione a livello linguistico, bensì del calco assoluto della lingua d’origine «simulando perversamente una fedeltà di tipo letterale al fine di smascherarne il carattere illusorio»157. A questo risultato Sanguineti arrivò gradualmente, e applicò la traduzione interlineare in maniera completa e intransigente proprio nella traduzione dell’Ippolito. Infatti, a proposito della sua ultima fatica, afferma: «La traduzione a calco è l’ultimo approdo a cui sono arrivato, per questa Fedra destinata a Siracusa». E in realtà i risultati non si discostano molto da dagli esperimenti di Pavese: citerò come esempio la resa dei versi 682-694 della tragedia:

E. Hipp. 682-694 (ed. Diggle)

[Φα.] ὦ παγκακίστη καὶ φίλων διαφθορεῦ, οἷ’ εἰργάσω με. Ζεύς σε γεννήτωρ ἐμὸς πρόρριζον ἐκτρίψειεν οὐτάσας πυρί. οὐκ εἶπον, οὐ σῆς προυνοησάμην φρενός, σιγᾶν ἐφ’ οἷσι νῦν ἐγὼ κακύνομαι; σὺ δ’ οὐκ ἀνέσχου· τοιγὰρ οὐκέτ’ εὐκλεεῖς θανούμεθ’. ἀλλὰ δεῖ με δὴ καινῶν λόγων· οὗτος γὰρ ὀργῆι συντεθηγμένος φρένας ἐρεῖ καθ’ ἡμῶν πατρὶ σὰς ἁμαρτίας, ἐρεῖ δὲ Πιτθεῖ τῶι γέροντι συμφοράς, πλήσει τε πᾶσαν γαῖαν αἰσχίστων λόγων. ὄλοιο καὶ σὺ χὤστις ἄκοντας φίλους πρόθυμός ἐστι μὴ καλῶς εὐεργετεῖν.

[Fedra]: o malvagissima e, dei tuoi cari, distruttrice,

quali cose hai fatto, a me. Zeus, te, il generatore mio, radicalmente ti estirperà, ferendoti con il fuoco. Non ho detto - non la tua, avevo preconosciuto,

mente di tacere quelle cose, per le quali, adesso, io, sono guasta? Ma tu non hai resistito: e, infatti, non più, gloriose,

moriremo. Ma ho bisogno, allora, per me, di nuoveparole Questo, infatti, per ira, avendo affilato i cuori, dirà, contro di noi, al padre, i tuoi peccati, ma dirà a Pitteo, il vecchio, i tuoi casi, e riempirà tutta la terra delle più turpi parole. Muori, e tu, e chiunque, i nolenti suoi cari, incline è a non bellamente beneficarli. 155 SANGUINETI 1979, p. 597. 156 Cfr. BISULCA 2009, pp. 1-2. 157 Cfr. B ISULCA 2009, p. 5.

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Anche qui troviamo il rispetto pedissequo dell’ordo verborum del testo greco (tanto che alcune frasi sono tutt’altro che perspicue), le proposizioni di forma implicita con cui vengono resi i participi, una traduzione che rispecchia la radice etimologica delle parole, anche a costo di coniare alcuni termini o usarne altri non comuni (pronoei'n diviene «preconoscere»)158. Il rispetto del genere cui appartiene un termine e della radice dalla quale è formato porta Sanguineti anche a scelte che non sembrano particolarmente felici (così il «non bellamente beneficarli» per μὴ καλῶς εὐεργετεῖν), ma egli spiega che questo è uno degli elementi più caratteristici della traduzione a calco: «La cosa [scil. la traduzione a calco] consiste di due elementi ‘diabolici’. Il primo è che se al verso 300 del testo c’è un modo di rendere una parola di Euripide e questa ritorna al 1200, ci deve essere la stessa parola, per quello che è umanamente possibile, nella traduzione italiana. Questa è un’acrobazia abbastanza forte perché la compatibilità, in contesti diversi di vocaboli diversi, implica una speculazione semantica e comporta l’idea che tradurre significa importare nella propria lingua una lingua straniera, e non adattare alla nostra lingua il greco. Bisogna grecizzare l’italiano, non italianizzare il greco159». Per quanto in Pavese non si trovi questa regolarità nella resa dei termini, tuttavia l’intento di fondo, cioè quello di «grecizzare l’italiano», era senza dubbio lo stesso. La seconda acrobazia cui Sanguineti fa riferimento è quella di ordine metrico: egli cerca, senza schemi fissi, di riprodurre lo schema ritmico dell’originale: in questo vi è una certa differenza con quanto fecero sia Pavese che Calzecchi Onesti, e tuttavia quest’esigenza scaturisce anche dalla destinazione teatrale del testo. Altri dettagli ancora ci ricordano il metodo di Pavese: la traduzione dei superlativi sempre come superlativi assoluti (al v. 679 κακοτυχεστάτα γυναικῶν ἐγώ diventa «Malfortunatissima, tra le donne, io»), il rispetto del numero grammaticale dei termini (tradurre φρένας del v. 689 con “i cuori” trae in inganno sul senso dell’originale: è il cuore d’Ippolito a essere inasprito dall’ira) e in generale l’abbassamento stilistico che la traduzione interlineare implica.

Certamente Sanguineti si concede, rispetto a Pavese, una maggiore libertà: aggiunge alcuni pronomi (il v. 684, πρόρριζον ἐκτρίψειεν οὐτάσας πυρί, diventa «radicalmente ti estirperà, ferendoti con il fuoco»), rende le infinitive con una costruzione italiana comprensibile, e la reggenza dei verbi italiani è rispettata anche quando differisce da quella dei greci: si tratta di accorgimenti necessari alla fruibilità del testo. Anche l’attenzione scrupolosa alla resa delle allitterazioni e di altre figure di suono si inserisce nella gamma di peculiarità legate alla natura tragica dei testi tradotti e alla loro destinazione recitativa160.

Se dunque le analogie con le traduzioni di Pavese sono indiscutibili, è opportuno chiedersi se Sanguineti non abbia espresso in modo più completo, in virtù della destinazione pubblica

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Questa attenzione caratterizzò tutti i lavori di traduzione di Sanguineti: scrive infatti Condello: «Riproduzione di una “lingua morta”, “traduzione cadaverica”, calco ostinato e forzoso della lingua di partenza [...]. Bastino qui pochi accenni per ciò che concerne gli artifici adibiti, a tale scopo, da Sanguineti. Sul piano del lessico, in prima istanza: dove la sistematica riduzione di ogni parola dell’originale al suo nucleo semantico, meramente dizionariale, produce ovunque soluzioni inattese, inopinate rinunce a ogni esito minimamente letterario [...]». Cfr. CONDELLO 2006, p. 303.

159 S

ANGUINETI 2010.

160 La particolare predilezione di Sanguineti per la resa dell’allitterazione è rilevata da B

ISULCA 2009, p. 7 (che fornisce anche alcuni esempi), ed è teorizzata da Sanguineti nella sua presentazione della raccolta di traduzioni dal teatro antico: SANGUINETI 2006, p. 15. A proposito della metrica, è l’autore stesso a rivelare i suoi intenti,

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delle sue traduzioni, premesse teoriche che siano per qualche aspetto assimilabili a quelle di Pavese. Sicuramente entrambi gli autori sono accomunati da un consapevole distacco rispetto alle traduzioni letterarie. Scrive Sanguineti: «In Italia, le traduzioni teatrali, specie di testi classici, sono sempre state segnate da un alto tasso di letterarietà. Il caso di Quasimodo, che ho già toccato, è evidente. Ma ciò vale anche per esperienze caratterizzate da una forte volontà innovativa, com’è per esempio il caso di Pasolini. [...] Da ragazzo, le mie prime letture di testi drammatici antichi avvennero sulle traduzioni di Romagnoli. Un’esperienza che giudico terribile»161. Tuttavia, pur partendo da premesse simili, cioè dalla consapevolezza che ogni traduzione è «travestimento» e che per i testi classici tali travestimenti hanno esiti particolarmente fuorvianti, gli obiettivi dei due autori sono diversi: mentre per Pavese, come si è già visto, una traduzione filologica e interlineare è concretamente un modo per far riscoprire il vero Omero e rappresenta il travestimento meno ingannevole per riprodurre uno spirito molto distante dal nostro, in Sanguineti la critica è molto più radicale. La traduzione filologica è una “illusione” come le altre (del resto anche un testo studiato filologicamente è frutto di un’interpretazione, e perciò “maschera” l’originale), e la resa interlineare, non semplice da intendere per l’orecchio italiano, si propone di denunciare il carattere esotico del testo e l’impossibilità di ridurlo ad un’esperienza comprensibile per i contemporanei. Scrive infatti Sanguineti:

A chiunque sostenga la possibilità di una e una sola traduzione filologicamente corretta, risponderei: “candido lettore, aspetta che passino altri cinque anni”. Perché si continuano a tradurre gli stessi testi? Perché si interpreta diversamente. Quando si legge Monti, l’Iliade è l’Iliade di Monti. Un traduttore tende a non confessare di essere un traduttore. Cerca di rendersi così trasparente da dare l’impressione di non esistere. Ma la trasparenza è un’utopia. Io, da parte mia, non sono diverso da qualsiasi altro traduttore: la differenza, semmai, sta nel fatto che io dichiaro ciò che un altro traduttore non sa o non dichiara. È solo una differenza di consapevolezza. Sono io che traduco: sono io che sto parlando.

Pavese dunque, partito da posizioni analoghe a quelle di Sanguineti (la critica a traduzioni “interpretative” e la consapevolezza della distanza di Omero dal mondo contemporaneo) ricade però nell’“utopia” descritta dal traduttore della Fedra: il suo è l’estremo tentativo di rendersi trasparente, mentre Sanguineti compie scelte analoghe proprio per denunciare la sua presenza in quanto traduttore. La polarità dei rispettivi propositi è riconducibile a un’ideologia sostanzialmente diversa: la visione marxista di Sanguineti, come si è detto, lo porta a negare qualsiasi contenuto assoluto ai testi antichi, e a considerare la lingua greca come frutto di un’ideologia ormai tramontata, e per questo intraducibile162

. Al contrario Pavese è influenzato da letture antropologiche ed etnologiche, che gli fanno vedere nel mondo greco “la radice di ogni civiltà” (del resto i Dialoghi con Leucò sono il frutto di tali studi; e sono sempre questi studi a riavvicinarlo al testo omerico), tanto che nella Presentazione paragona addirittura lo stile epico a quello dei «narratori neorealisti»: è proprio quello che di universale c’è in Omero che Pavese vuol far riemergere. È così paradossale che due atteggiamenti opposti rispetto al mondo antico, che hanno in comune solo la consapevolezza

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SANGUINETI 2006, pp. 14-15.

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I testi antichi, afferma Sanguineti «rappresentano situazioni, temi problemi, totalmente diversi dai nostri. Noi siamo un’altra umanità con valori completamenti diversi, con problematiche del tutto diverse». Cfr. BISULCA

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della natura di ogni traduzione e dell’estrema distanza dalla cultura greca, giungano a due risultati stilisticamente sovrapponibili.

Anche le reazioni della critica alle traduzioni di Sanguineti sono state diverse dai giudizi riservati a quelle di Pavese. Dal punto di vista della fruibilità, la traduzione è stata definita dalla stampa «sapiente, meditatissima ma irta di difficoltà [...]. Nuova, colorata di nobile sintassi, e tra le cose più discusse di questo XLVI Ciclo di Rappresentazioni Classiche163», «una traduzione dell’Ippolito che ritrova la misura della parola poetica antica164», «notevole e nuova [...], che a furia di gerundi e di inconsuete costruzioni della frase, crea una musicalità affascinante165»; da alcuni è stata tutt’al più definita «petrosa» o «spigolosa»166. La critica letteraria invece (si veda l’articolo già citato di Bisulca, o quello di Albini a proposito delle

Coefore167), rilevate le più vistose conseguenze dell’interlinearità, si è concentrata sulla

difficoltà di fruizione che tale traduzione comporta (Albini si chiede se non si tratti di una versione da «consumare a tavolino» piuttosto che da ascoltare): entrambi giungono però alla conclusione che le particolarità della sperimentazione teatrale, la possibilità di guidare l’ascolto tramite l’intervento degli attori, fanno sì che queste traduzioni «abbiano una loro validità», e che in ogni caso l’esperimento risulti «vitale e stimolante»168

. Nonostante le evidenti differenze tra i lavori di Sanguineti e Pavese (la diversità dei generi tradotti; la destinazione delle traduzioni, per la scena anziché per la lettura ecc.), è però interessante notare come un esito tanto simile a quello delle traduzioni omeriche dello scrittore piemontese abbia meritato, se non il plauso incondizionato, quantomeno il riconoscimento di operazione intellettuale stimolante da parte degli specialisti del settore.

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Domenico Rigotti, “Avvenire”, 12 maggio 2010.

164

Sergio Sciacca, “La Sicilia” 10 maggio 2010.

165 Maurizio Giammusso, ANSA 10 maggio 2012. 166

Per esempio da Mario di Caro e Rodolfo di Giammarco per “Repubblica”.

167

ALBINI 1979.

168 A

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Parte quarta

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