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Pavese e le traduzioni dall’inglese

Pavese e la teoria della traduzione

3.2. Pavese e le traduzioni dall’inglese

Pavese iniziò ad occuparsi di traduzioni di opere letterarie anglo-americane sin dagli anni immediatamente successivi alla sua laurea: nel 1931 pubblicò la traduzione di Our Mr. Wrenn di Lewis per la casa editrice Bemporad, due anni dopo quella di Moby Dick per la Frassinelli, e per tutto il corso degli anni ’30 la sua attività in quest’ambito fu intensissima (tradusse, tra gli altri, Joyce, Defoe, Dickens). Mantenne vivo questo interesse anche negli anni ’40, dedicandovisi tuttavia con minore intensità; la sua ultima traduzione (Captain Smith and

Company di R. Henriques) venne pubblicata nel 1947. È dunque evidente che la sua

esperienza con la letteratura moderna angloamericana vada tenuta in considerazione come termine di confronto per le sue traduzioni dai classici, ed è del resto lui stesso che in diverse occasioni, come si è visto, accosta i due ambiti di lavoro137. Neanche a proposito di queste traduzioni Pavese si preoccupò di delineare un metodo o principi teorici. Tutti i lavori che accompagnarono la pubblicazione delle sue traduzioni furono di carattere culturale e

132 Lettera del 7 giugno 1948. 133 P RAZ 1974, pp. 79-80. 134 C HIRICO 1998, p. 163. 135 BATTEZZATO 2007. 136 CAVALLINI 2012.

137All’accostamento con la traduzione dell’Antologia di Spoon River che ricorre nella Presentazione e nelle

lettere, si aggiunga la lettera a R. Calzecchi Onesti del 7 gennaio 1949: «Condivido il suo gusto per il linguaggio artigiano del popolo (sono l’indegno autore di traduzioni dall’inglese e dall’americano dove affrontai con allegria lo stesso problema- Moby Dick di H. Melville e Dedalus di J. Joyce) e lei con questo richiamo mi invita a nozze».

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contenutistico: a Pavese interessava capire cosa l’opera avesse da dire al pubblico italiano (cioè se fosse traducibile “culturalmente”) più di come questo dovesse esser detto nella lingua d’arrivo138

.

Anche in questo caso dunque diventa fondamentale la testimonianza dell’epistolario: dalle lettere che Pavese invia ad amici, conoscenti ed editori si evincono non solo alcuni dettagli sulla sua prassi di traduzione, ma anche importanti dichiarazioni che chiariscono con quale spirito si accostasse al testo inglese. La testimonianza forse più esplicita è fornita da un passaggio in una lettera ad Enrico Bemporad, editore della traduzione Il Signor Wrenn. Bemporad aveva scritto a Pavese sollevando alcune obiezioni sulle sue scelte stilistiche, che dovevano apparirgli piuttosto fantasiose139. Pavese si trovò quindi a giustificare i criteri con i quali aveva intrapreso questa sua prima traduzione140:

Mi preme farLe osservare che il mio sforzo è stato appunto di far sì che «i lettori capissero il pensiero e gli atteggiamenti dei personaggi del romanzo». E ad ottenere questo non c’era che un mezzo: intendere il più fedelmente possibile il testo e rendere quel che s’era inteso, non colla letterale equivalenza linguistica, ma col più italiano, col più nostro, sforzo di ricreazione possibile. Potrò (sono il primo a riconoscerlo e l’ultimo a volermene scusare), potrò in quest’impresa essere incorso in qualche sovrabbondanza o in qualche debolezza, potrò aver usato qualche espressione un po’ insolita o un po’ dura, ma vorrei che si tenesse a mente la difficoltà, l’estraneità del testo e, soprattutto, la novità del punto di vista.

La teorizzazione più esplicita giunge però a questo punto:

Poiché ci sono due generi di traduzione. L’uno, quello da me scelto; l’altro il metodo scientifico, ed allora l’ideale è, senza mezzi termini, la versione interlineare, che serva agli studentini. O la traduzione precisa, fredda, impersonale, ed allora, se pure è possibile ottenerla, il pubblico ci capirebbe poco davvero, o una traduzione che sia una seconda creazione, esposta ai pericoli di ogni creazione e soprattutto conscia del pubblico a cui parla. Poiché, debbo dire, non credo che nel mio Signor Wrenn ci siano, come Lei mi scrive, «pagine assolutamente incomprensibili».

138 Si veda ad esempio il saggio su Sinclair Lewis, uscito su “La Cultura” del novembre 1930 e intitolato Senza

provinciali, una letteratura non ha nerbo; pochi anni dopo (su “La Cultura” del maggio 1934) pubblicò, sempre

sullo stesso autore, il saggio La biografia romanzata. Sul Moby Dick di Melville scrisse nel 1932 l’articolo Il

baleniere letterato (“La Cultura”, gennaio-marzo 1932), e nello stesso anno la prefazione alla sua traduzione dal

titolo Avere una tradizione è meno che nulla, è solo cercandola che si può viverla (tutti i testi furono poi ripubblicati in PAVESE 1951). Nel saggio La biografia romanzata, per esempio, Pavese riconosce che l’interesse che Lewis può rappresentare per la cultura italiana sta nello «spettacolo di una mutevole e variopinta realtà, piena di testimonianze di una vita vissuta con molto, magari troppo, entusiasmo». Nel caso di Melville tutti i saggi si concentrano sull’individuazione delle radici culturali dell’autore e sulla loro rielaborazione in realtà simboliche e mitiche all’interno del romanzo.

139 Cfr. P

AVESE 1956, p. 28. Bemporad aveva scritto il 27 marzo 1931: «Mi son ben reso conto della difficoltà che Ella ha avuto di tradurre un libro dall’americano, scritto in una forma così originale, ma francamente devo dirLe che non mi pare che Ella sia riuscito a dare al pubblico italiano un libro intelligibile. Disgraziatamente mi sono avvisto di questo fatto soltanto dopo che il libro era stampato e la cosa non è più rimediabile...». Queste critiche non erano però unanimemente condivise: in una lettera del 27 marzo l’amico Cajumi, dopo aver anticipato a Pavese i giudizi di Bemporad, scrive: «...giudizi che non condivido punto. Anzi per essi ho avuto una discussione assai vivace con lui, e infatti il libro è uscito come lei lo ha tradotto, perché mi opposi ad ogni mutamento. [...] Anzi, se avessimo presto una bella recensione da mettergli sotto gli occhi per provargli che i suoi criteri sono preistorici, sarebbe bene».

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Le dichiarazioni di Pavese sono sorprendenti perché mostrano una concezione teorica antitetica a quella che traspariva dalla Presentazione a Calzecchi Onesti. In realtà l’opposizione di fondo qui descritta (quella cioè tra una traduzione «scientifica», «per studentini» e una traduzione che sia una «seconda creazione») è la stessa che Pavese poneva tra le traduzioni neoclassiche di Omero (che ne facevano di fatto una nuova opera letteraria italiana, e per di più di secondo rango) e quella filologica perseguita da lui e da Calzecchi Onesti. Tuttavia in questo caso Pavese si trova a difendere proprio il tipo di traduzione creativo: fedeltà al testo non significa «interlinearità assoluta», ma «rendere quel che si è inteso», affinché il pubblico riesca a capirlo a sua volta. Ovviamente una posizione così netta era anche dettata dall’esigenza di rispondere alle critiche di Bemporad, che vertevano proprio sulla comprensibilità del testo; ma che il lavoro del traduttore debba tener conto del pubblico dei lettori vale sia per il romanzo di Lewis sia per la Presentazione dell’Iliade pubblicata da Einaudi.

È possibile spiegare questo divario a partire da due considerazioni: da un lato bisogna ricordare che quella di Our Mr. Wrenn fu in assoluto la prima traduzione di Pavese destinata al pubblico; l’Antologia di Spoon River, che è l’opera cui si fa riferimento per la traduzione di Omero, uscì invece nel 1943, e lo impegnò solo in qualità di supervisore (perciò con una funzione che richiedeva l’elaborazione di precise direttive teoriche), mentre il lavoro di traduzione era affidato alla sua allieva Fernanda Pivano (per altro il grosso dei testi era stato affrontato dalla Pivano all’insaputa di Pavese), una collaborazione simile a quella che si realizzò per l’Iliade. Si può ragionevolmente pensare a un’evoluzione del modo in cui Pavese guardava al mestiere del traduttore; col tempo sarebbe approdato di nuovo a una marcata preferenza per la traduzione che ricalchi il più possibile le forme e i ritmi del testo originale; predilezione che traspariva già nei suoi esercizi giovanili ma era destinata poi a maturare, attraverso esperienze personali o mediate dal lavoro altrui, sui testi della letteratura moderna che si distanziavano per ragioni culturali ma non cronologiche. L’elogio della creatività di Fernanda Pivano rappresenterebbe il termine più distante, in questa oscillazione fra traduzione-calco e maggiore autonomia dal testo: è proprio Pavese a commentare nella

Prefazione alla traduzione dell’Antologia: «Ci sarà permesso dire, a questo punto, che

invidiamo alla traduttrice lo schietto piacere da lei provato in questa fatica. Di esso testimonia la felicità espressiva, non di rado creatrice, da cui sono pervase non poche di queste pagine». La creatività è in netto contrasto con l’aderenza assoluta all’originale; il riferimento è dunque più che altro all’attenzione spesa per non tradire la natura del testo141

. Nella stessa prefazione infatti, dopo aver citato una serie di passi dalla traduzione, Pavese commenta: «Abbiamo trascritto questi passi scegliendo a caso, ad apertura di pagina, e vorremmo che il lettore ne sentisse l’assoluta immediatezza, il valore di diretta e genuina espressione. Il testo, in questi casi almeno, è stato davvero tutto assorbito, senza residui142».

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Del resto ancora nel 1940 Pavese scriveva (lettera alla casa editrice Bompiani, gennaio 1940): «per tradurre bene bisogna innamorarsi della materia verbale di un’opera, e sentirsela rinascere nella propria lingua con l’urgenza di una seconda creazione».

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La Prefazione è stata ripubblicata in PAVESE 1951, pp. 64-72. In essa Pavese sottolinea che il merito maggiore della Pivano fu quello di saper selezionare le poesie da tradurre senza scempiare irrimediabilmente il messaggio dell’opera: si tratta ancora una volta dell’attenzione al contenuto della raccolta più che alla sua forma. È poi evidente da una delle poesie additate come esempio da Pavese (Blind Jack, non a caso di argomento

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D’altro canto abbiamo visto come la traduzione di Omero fosse in primo luogo un’operazione culturale: molte caratteristiche fondamentali del testo italiano si possono determinare come opposizione ad una consolidata tradizione letteraria. Pavese scrive che bisogna tradurre Omero in maniera estremamente fedele per farlo “riscoprire” alla cultura italiana, dopo che per secoli era stato “deturpato” da traduzioni neoclassiche. Il contrasto doveva poi risultare ai suoi occhi particolarmente stridente, perché la distanza tra la lingua e lo stile di Omero e la sua versione neoclassica non poteva essere più ampia: da un lato un testo «oggettivo», «schietto», «parlato», dall’altro gli abbellimenti, le cadenze oratorie, lo stile enfatico della tradizione poetica italiana. Nel caso dei romanzi americani, invece, Pavese non aveva nessuna tradizione con cui misurarsi o polemizzare, trattandosi spesso di opere che rivelava per la prima volta al pubblico italiano; e la distanza tra la prosa angloamericana e lo stile del romanzo italiano non era tanto ampia da non rendere possibile un’opera di “ricreazione” del testo senza tradirne irrimediabilmente la natura. Inoltre anche la distanza culturale tra il mondo ieratico e solenne, ma anche fresco e spontaneo «dell’uomo dell’età del Bronzo», e quello contemporaneo non era comparabile alle differenze tra la realtà statunitense e quella italiana della stessa epoca: l’unico modo allora per far capire Omero e il suo “spirito” tanto distante dal nostro era restargli il più vicino possibile, mentre «assorbire senza residui» un testo angloamericano e restituirlo con una certa felice inventiva non era affatto un progetto velleitario. In conclusione è dunque innegabile che i principi teorici cui si s’ispira la traduzione di Our Mr. Wrenn siano antitetici rispetto a quelli espressi per la traduzione di Omero: tuttavia negli anni seguenti Pavese sembrò avvicinarsi all’idea di traduzione scientifica anche per i testi angloamericani (come si vedrà, i primi passi del processo sono evidenti già nella traduzione di Melville del 1932; Pavese fece infatti riferimento anche a questo lavoro nello scambio con Calzecchi Onesti), ma il diverso atteggiamento si spiega soprattutto a partire dalle differenti esigenze culturali dietro ai due ambiti di traduzione: far conoscere e far apprezzare al pubblico la novità della letteratura americana, in un caso, e fare nell’altro “riscoprire” nella sua essenza un testo fin troppo divulgato e per questo profondamente travisato.

D’altra parte, se la teoria stabilisce una certa distanza tra i due campi di traduzione, sembra invece di poter intravedere qualche analogia nella prassi: già l’accenno al ricorso ad espressioni insolite, dure, giustificate dall’«estraneità» del testo, sembra richiamare i solecismi usati con tanta abbondanza all’interno delle traduzioni omeriche143, ma, più in “omerico”) che la traduzione, per quanto molto fedele all’originale, non era certo rigidamente interlineare, e che Fernanda Pivano si concedeva qualche legittima libertà. Il testo inglese recita infatti: «I had fiddled all day at the country fair./ But driving home ‘Butch’ Weldy and Jack McGuire,/ Who were roaring full, made me fiddle and fiddle/ to the song of Susie Skinner, while whipping the horses / till they ran away./ Blind as I was, I tried to get out/ as the carriage fell in the ditch, / and was caught in the wheels and killed./ There’s a blind man here with a brow/ as big and white as a cloud./ And all we fiddlers, from highest to lowest,/ writers of music and tellers of stories,/ sit at his feet,/ and hear him sing of the fall of Troy». La Pivano traduce: «Avevo strimpellato tutto il giorno alla fiera./ Ma ‘Butch’ Weldy e Jack McGuire nel ritorno,/ ubriachi fradici, vollero che ancora suonassi/

Susie Skinner, frustando i cavalli,/ finché questi ci presero la mano./ Cieco com’ero cercai di saltare/ mentre la

carrozza cadeva nel fosso,/ e fui schiacciato fra le ruote e ucciso./ C’è qui un cieco dalla fronte/ grande e bianca come una nuvola./ E tutti noi suonatori, dal più grande al più umile,/ scrittori di musica e narratori di storie,/ sediamo ai suoi piedi,/ e lo ascoltiamo cantare della caduta di Troia».

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In una lettera ad A. Cajumi (28 dicembre 1930) così motiva infatti tali peculiarità: «Spero che la versione sia soddisfacente pensando un momento alle difficoltà di slang che presenta questo romanzo, per superare le quali ho dovuto sovente lasciarmi andare in espressioni dialettali italiane e qualche volta in veri e proprî solecismi,

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generale, i procedimenti che stanno dietro ai due gruppi di traduzioni sono molto vicini. Innanzi tutto bisogna sottolineare che in entrambi i casi il primo interesse che spinge Pavese a studiare e quindi poi a tradurre i testi è quello culturale: abbiamo visto che nei saggi che precedono la traduzione di opere inglesi egli ricerca gli accostamenti tra la cultura dalla quale il testo prende la sua linfa e quella in cui verrà tradotto, oppure evidenzia gli elementi più caratteristici del romanzo in questione. Così le traduzioni di Omero avevano preso vita dalla curiosità scaturita dalla lettura di saggi etnologici e antropologici: l’attenzione primaria di Pavese era per il contenuto dell’opera affrontata, e per la sfida costituita dal tradurlo in un contesto del tutto diverso: la curiosità per la lingua e per la possibilità di riprodurre determinate varietà idiomatiche sopraggiunse solo in un secondo momento.

Tuttavia quando poi si accingeva al compito di tradurre, Pavese dedicava un’attenzione minuziosissima al lessico. Per quanto riguarda le versioni dal greco, lo scrupolo nel rispecchiare l’etimologia delle parole, i glossari che preparava prima di iniziare a tradurre, il rispetto dei legami tra le radici dei termini, sono indice dello studio certosino che era il lavoro preliminare alla traduzione vera e propria. Per le traduzioni dall’“americano” gli indizi più chiari di questa cura si trovano nell’epistolario: ne è una preziosa testimonianza il fitto scambio con Antonio Chiuminatto, al quale si affiancano le lettere che precedono la traduzione di Moby Dick.

Le lettere tra Pavese e Antonio Chiuminatto coprono un arco temporale di tre anni e mezzo (dal novembre del ’29 al marzo del ’33144

) e fanno seguito all’incontro a Torino tra l’autore e il musicista italo-americano, che ivi aveva soggiornato per qualche mese. Dopo il rientro di Chiuminatto in America, per iniziativa di Pavese nacque una fitta collaborazione nella quale i due si aggiornavano sulle novità delle rispettive letterature nazionali. Pavese poi si servì di Chiuminatto come di un “maestro” di slang americano, chiedendogli continuamente consigli su come tradurre particolari espressioni e facendogli anche riscontrare passi delle prime traduzioni che proprio in quegli anni andava pubblicando. Nella prima delle lettere che Pavese inviò all’amico (29 novembre 1929), leggiamo tra le altre richieste:

Meanwhile, as the most pressing thing, would you be so kind as to go fetching, whether there is in USA a book - a dictionary, a treatise, something - about modern American language, which can enable me to understand better your contemporary writers? They are full of slang, idioms, I don’t know what, and so for an half incomprehensible. I want such a book, as the air I am breathing. Can you fetch it?

Perhaps you don’t even assume what usefulness had for me your little lessons of American spoken. Yet I keep those jottings carefully, and scanty as the expressions and words are I could put down, yet as I read modern American authors, I feel more assured, bolder in understanding them, more in touch with their mood of living and thought. And all comes from your lessons of language! Would it not bother you I should like to enclose in my letters a list of words and phrases picked out from contemporary writers and unexplained by our dictionaries and you should send it back to me with your wanted so interesting explanations.

assolutamente indispensabili questi ultimi, a rendere il testo nella sua interezza». Sostituendo allo slang le particolarità della lingua omerica, si ritroverà una situazione del tutto simile.

144 Il carteggio è stato recentemente pubblicato da M. Pietralunga in P

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Chiuminatto rispose che un dizionario del genere non esisteva (tuttavia l’urgenza di Pavese ci conferma con quanta ansiosa curiosità intellettuale volesse cogliere il nucleo semantico dei testi), ma che in compenso era disponibile ad aiutarlo a risolvere i suoi dubbi lessicali: il fittissimo rapporto epistolare che si instaurò tra i due è costellato di tali indicazioni, a testimoniare lo sforzo di Pavese nel tentare di penetrare anche gli aspetti più ostici della parlata d’oltreoceano. Quando poi iniziò a tradurre Our Mr. Wrenn si spinse fino alla richiesta a Chiuminatto di una vera e propria revisione145. Pavese quindi non si limitò a tradurre

meccanicamente l’inglese degli Stati Uniti, ma mirò a comprendere le più sottili sfumature insite nelle espressioni tipiche di un «mood of living and thought» diverso da quello italiano.

Ancora più specifica fu la preparazione per la traduzione di Moby Dick, dove la particolare natura del lessico richiedeva uno studio specifico. Questa volta Pavese si rivolse a Libero Novara, un amico di Torino: a interessarlo in questo caso non è la terminologia inglese di per sé, quanto la corrispondenza con il gergo marinaro nella nostra lingua. Scrive infatti all’amico (che vantava un’esperienza di mozzo a bordo di un mercantile):

Egregio Berin,

la presente è per farti sapere che avrei bisogno di un favore, anzi due, di natura linguistica! Il primo è il più difficile, ma, se mi risponderai da ubriaco, può darsi che riesca. Avrei bisogno di un bel discorsetto, di un numero di pagine illimitato, fatto in gergo di mare (molla a babordo e imbroglia il pappafico). Bevùtomi? Non che mi importi del discorso per il contenuto, ma mi interessa la terminologia acquatica [...]. Raccontami qualunque roba, per scritto, e tieni a mente di cacciarci dentro le frasi più ricorrenti d’uso marino (non le tecniche, ma quelle di gergo) che io ne ho bisogno per tradurre un romanzo americano che è pieno di dette frasi.

La risposta dell’amico consiste sostanzialmente in un’indicazione bibliografica (invita Pavese a consultare il Dizionario marinaresco illustrato146), accolta con entusiasmo dal traduttore, il quale aggiunge di essersi procurato anche «una trattazione di Manovra a Vela del 1850» contenente indicazioni preziose. Si tratta quindi di un ulteriore indizio di come la preparazione di Pavese non dimenticasse gli aspetti più specifici del testo, e di come egli intendesse rendere con precisione tenica le espressioni della lingua originaria147. Tale puntiglio emergerà anche in una discussione con l’editore di Moby Dick (Frassinelli) il quale

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Nella lettera del 26 novembre del 1930 infatti Pavese, dopo aver riferito di aver ricevuto l’incarico di tradurre

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