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Indice
Introduzione
1. «Una lingua divina e terribile»: Pavese e la traduzione dal greco
1.1. Gli anni del confino
1.1.1. L’«unità» dei poemi omerici e Lavorare Stanca 1.2. Le ultime traduzioni
2. Caratteristiche delle traduzioni pavesiane
2.1. Interlinearità e particolarità sintattico-grammaticali 2.2. Il lessico
2.3. La formularità
2.4. Il caso particolare di Iliade I
3. Pavese e la teoria della traduzione
3.1. La collaborazione con Rosa Calzecchi Onesti 3.1.1. Iliade o Odissea: una scelta culturale 3.1.2. La polemica su Monti, Pascoli, Romagnoli 3.1.3. Tradurre in versi liberi
3.1.4. La fedeltà al testo
3.1.5. L’attenzione per il dettaglio
3.1.6. La necessità di una traduzione filologica 3.2. Pavese e le traduzioni dall’inglese
3.3. Il confronto con la Fedra di Sanguineti
4. Pavese e l’Iliade: solo una traduzione?
4.1. La casa in collina: un’Iliade dei nostri tempi 4.1.1. Una sintassi e uno stile “omerici”?
4.1.2. L’orrore della guerra e la morte del nemico 4.1.3 Un finale dagli echi classici
Conclusioni Bibliografia 2 5 6 11 15 18 19 26 34 36 40 40 41 42 48 49 51 55 57 64 69 70 72 77 81 84 87
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Introduzione
Cesare Pavese, dopo una prima fase di produzione letteraria «tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone1», negli ultimi anni della sua vita concentrò i suoi interessi nello studio del mondo antico. Questa nuova fase coinvolse tutti gli aspetti della sua attività intellettuale: nell’ambito della produzione creativa, si concretizzò nella stesura dei
Dialoghi con Leucò; come direttore editoriale dell’Einaudi, gli suggerì alcune scelte per
impostare la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” in collaborazione con Ernesto de Martino; infine lo vide impegnato nella ripresa di un intenso lavoro di traduzione di testi greci. Nel mio lavoro ho scelto di analizzare alcune di queste ultime versioni, con l’intento di chiarire ulteriormente la natura e le modalità della riscoperta del mondo greco da parte di Pavese.
Le traduzioni appartengono molto probabilmente al periodo tra il 1947 e il 19502 e sono ad oggi conservate nel Fondo Sini dell’archivio “Cesare Pavese”3: si tratta della traduzione di Il. I, V, X, XV, Od. XI, di tre inni omerici (Ad Afrodite V, Ad Afrodite VI, A Dioniso), della
Teogonia; tra le carte si trovano anche due glossari, uno in preparazione alla traduzione di Il.
XI, e l’altro per Le opere e i giorni. La traduzione della Teogonia e quella degli inni omerici sono state pubblicate da Dughera nel 1981, mentre le traduzioni dai poemi sono ancora inedite (dopo che, nel 1963, Italo Calvino e Fausto Codino decisero che non fosse opportuno pubblicarle), e sono custodite presso il “Centro Studi Gozzano-Pavese” dell’Università di Torino; da maggio 2012 è possibile visionarle online dal portale Hyperpavese, diretto, come il “Centro Studi”, dalla prof.ssa Mariarosa Masoero. Per la mia analisi ho preso in considerazione soltanto le traduzioni omeriche inedite. Nello stesso faldone sono conservati anche quattro quaderni che contengono traduzioni da diversi autori greci e che risalgono al periodo del confino a Brancaleone Calabro; i quaderni testimoniano l’intenso esercizio con cui Pavese riuscì a consolidare la propria conoscenza del greco, che aveva studiato da autodidatta negli anni immediatamente successivi al liceo.
A partire dall’analisi di queste primissime prove, il lavoro si propone di individuare le caratteristiche principali del modus vertendi dello scrittore piemontese: esse trovano piena realizzazione nelle ultime traduzioni (scevre ormai di ogni residuo “scolastico”), caratterizzate da una rigorosa corrispondenza interlineare con gli esametri omerici, tanto da risultare di difficile comprensione per il lettore italiano, che si trova costretto a tenere presente il testo greco per individuare la struttura della frase. L’assoluta mancanza di cura nei confronti della sintassi, dello stile e delle convenzioni della lingua italiana è il motivo fondamentale che ne ha impedito la pubblicazione. È proprio questo aspetto che rende difficile inquadrare con sicurezza la sua versione italiana di interi libri dei poemi omerici come risultato di un complesso laboratorio di traduzione, e non solo come sforzo di apprendimento linguistico. Così l’analisi degli effetti più marcati di questo tipo di traduzione e delle poche deroghe
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Lettera a Untersteiner del 20 novembre 1947.
2 La datazione è quella proposta da D
UGHERA 1980.
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all’interlinearità assoluta ha lo scopo di delineare le modalità con cui Pavese intraprendeva il suo lavoro e quali fossero le caratteristiche del testo omerico che egli non intendeva assolutamente perdere nel trasferimento a un altro sistema linguistico.
Pavese non lasciò alcun tipo di elaborazione teorica sistematica sulla sua idea di traduzione, e pertanto ricostruire le ragioni sottese a uno stile così particolare richiede un’indagine e una valutazione delle sue annotazioni e riflessioni sparse. Fondamentale a tal proposito è l’ampia mole di materiale che deriva dalla collaborazione con Rosa Calzecchi Onesti cui Einaudi aveva richiesto una nuova traduzione dell’Iliade: il lavoro di revisione impegnò Pavese dal 1948 fino alla morte, e produsse un intenso scambio epistolare in cui egli dispensò costantemente all’allieva di Untersteiner opinioni, consigli minuti e direttive generali per orientarne il lavoro sia nelle grandi linee, sia nei dettagli. La perfetta coincidenza temporale rende evidente la stretta connessione tra quanto Pavese teorizzò a proposito della traduzione commissionata da Einaudi e la propria prassi di traduzione. Egli espose in sintesi gli aspetti fondamentali del lavoro di Rosa Calzecchi Onesti nella Presentazione4 alla prima edizione
dell’Iliade (1950). In questa occasione Pavese additò, in serrata polemica con la tradizione letteraria italiana, i criteri che ispiravano la nuova traduzione, definita come un’operazione culturale di ampio respiro. Tali affermazioni trovano tutte un riscontro abbastanza diretto nei principi guida delle sue traduzioni, e aiutano a chiarirne gli aspetti più ostici: si delinea in tal modo una personalissima visione della funzione di Omero nella cultura contemporanea, da cui deriva la determinazione a non smarrire alcune peculiarità della sua dizione anche in un codice linguistico così distante da quello dell’epica arcaica.
Ho cercato poi di appurare se nel rapporto di Pavese con il testo greco si possano rintracciare elementi che chiariscano la sua idea generale del ruolo del traduttore. In particolare l’analisi dei documenti relativi alla sua attività di traduttore di romanzi angloamericani ha evidenziato, nonostante le ovvie differenze dovute alla natura dei testi tradotti e alla maggiore prossimità culturale, un coerente atteggiamento di fondo nel rapporto con il testo originale.
Infine, per svelare le ragioni profonde che spinsero Pavese a questo tipo di traduzione, si è tentato un confronto con l’opera di traduttore di Sanguineti, il quale, specialmente negli ultimi lavori, elaborò un modus vertendi del tutto simile a quello di Pavese. Il confronto tra le diverse matrici culturali dei due traduttori aiuta a comprendere come anche lo scrittore piemontese avesse associato il proprio modello di traduzione a una particolare visione del mondo arcaico.
Le versioni prese in analisi, quindi, sono una preziosa testimonianza che può aiutare a delineare la concezione teorica da cui sono nati i diversi lavori di traduzione di Pavese. Nonostante la mancanza di un’espressione sistematica, tale concezione si lascia scorgere nel modo in cui Pavese si misurò sia con il greco antico, sia con l’angloamericano.
Infine si è tentato di capire se un confronto così stretto con i testi omerici sia rimasto confinato a un interesse di studio o, in qualche modo, abbia influito sulla produzione creativa coeva, in virtù della capacità di Pavese di cogliere i motivi profondi della cultura classica e di adattarli ai problemi dell’attualità.
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Per elaborare questo lavoro ho dovuto consultare, presso il “Centro Gozzano-Pavese”, le carte relative alle traduzioni inedite; ringrazio la prof.ssa Mariarosa Masoero, e le dott.sse Silvia Savioli e Gabriella Olivero per la loro disponibilità. La consultazione è stata autorizzata dalla casa editrice Einaudi, nella persona del suo presidente Roberto Cerati, al quale vanno i miei più sentiti ringraziamenti. Uno stimolo prezioso è venuto dal recente articolo della prof.ssa Eleonora Cavallini5, che ringrazio per la gentile sollecitudine con la quale ha risposto alle mie richieste.
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Parte Prima
«Una lingua divina e terribile»: Pavese e la traduzione dal greco
In una lettera dell’agosto 1926 ad Augusto Monti, suo professore di liceo, Cesare Pavese scrive:
Studio il greco per poter un giorno ben conoscere anche la civiltà omerica, il secolo di Pericle e il mondo ellenista. Leggo Orazio alternato a Ovidio: è tutta la Roma imperiale che si scopre6.
Pavese infatti stava trascorrendo l’estate successiva alla maturità presso Reaglie (località sulla collina torinese dove possedeva una casa) e, come si legge nella stessa lettera, ne approfittò per dedicarsi agli studi letterari cui era maggiormente interessato. Tra questi figurano la lettura e la traduzione di testi classici, e, in particolare, l’apprendimento del greco: egli infatti aveva frequentato la sezione “Moderna” del liceo torinese D’Azeglio, nella quale era previsto l’insegnamento di una lingua straniera (nel suo caso l’inglese)7
, mentre non veniva contemplato lo studio del greco antico. La sperimentazione8 prevedeva in alternativa alcune ore di “cultura greca”, il che permise a Pavese, sin dagli ultimi anni di liceo, di accostarsi alla civiltà ellenica con una precisa consapevolezza. Al termine della stessa estate scrive infatti all’amico Tullio Pinelli (12 ottobre 1926):
Il Greco lo sto assaggiando per dovere professionale e per il semplice motivo che la radice di tutte le civiltà pare che sia là dentro. Voglio studiarlo a fondo quel popolo.
Come si vede già in questa prima fase di avvicinamento allo studio del greco, l’interesse dell’autore è squisitamente culturale: l’apprendimento della lingua e della letteratura greca sono un mezzo per arrivare al cuore del «popolo» greco. E certamente fondamentale per la scoperta della civiltà classica negli anni del liceo fu l’insegnamento dello stesso Augusto Monti, professore che rappresentò poi per Pavese un punto di riferimento culturale per tutta la vita. Il docente, nell’opera in cui riflette sulla sua attività scolastica, I miei conti con la scuola, scrive infatti:
E i miei conti tout court sono questi: io ai miei scolari, a quelli di Torino, a quelli più miei - Pavese li rappresenta tutti - ho dato una cosa che potevano benissimo trovare da sé: la lettura dei classici; e una cosa di cui avrebbero benissimo fatto a meno, la politica, l’antifascismo.9
Lo stesso Pavese, nella lettera già citata al suo professore, riconosce a Monti il ruolo di iniziatore ai grandi classici della letteratura, e, nel fare questo, sottolinea ancora come la
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Tutte le lettere scritte da Pavese fino al 1944 cui si farà riferimento sono contenute in PAVESE 1956.
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AJOLO 1960, p. 41.
8 Istituita nel 1911, questa sperimentazione fu soppressa nel 1923 dalla riforma Gentile. 9 M
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spinta ad accostarsi ai testi non gli derivi tanto da un desiderio di erudizione quanto da quello di vedersi «dischiusa la vita»:
Ma alla fin fine, se lo debbo dire, io penso che a dischiudermi la vita sono stati in gran parte i libri. Non le grammatiche o i vocabolari ma tutte le opere in cui vive qualche sentimento. Dapprima, abbagliato dai grandi nomi, mi fermai sui poemi omerici, sulla Commedia, su Shakespeare, su Hugo. Quattro anni fa, io cominciavo ad aver per le mani le loro opere e mi esaltavo confusamente senza capirne il perché. Ora dopo quattro anni di fatiche e dopo che lei ci ha insegnato a leggere, a poco a poco, credo di esser giunto a capire qual è la loro magia.
1.1. Gli anni del confino
Negli anni successivi, pur dando la precedenza, nel suo curriculum universitario, alla letteratura anglosassone, non rinunciò a cimentarsi anche in esami relativi al mondo classico10. Tuttavia la prima testimonianza diretta di un alacre lavoro di traduzione arriva dalle carte dell’anno di confino trascorso a Brancaleone Calabro (agosto 1935-marzo 1936). Nel Fondo Sini dell’archivio “Cesare Pavese” sono contenuti infatti quattro quaderni risalenti senza dubbio a quel periodo e contenenti traduzioni da Esopo, Luciano, Omero, Lisia, Senofonte, diversi lirici, Sofocle, Eschilo, Platone11. Che si tratti di un vero e proprio ripasso della grammatica e della lingua greca lo confermano non solo la natura delle prime traduzioni elencate (la scelta dei brani di Esopo e Luciano sembra richiamare l’esercitazione prettamente scolastica delle versioni), ma anche le direttive che lui stesso impartiva nelle lettere alla sorella, la quale aveva il compito di far recapitare a Pavese i volumi che le venivano indicati. Nella lettere del 9 agosto 1935 (la prima scritta dall’arrivo a Brancaleone), Pavese chiede che gli vengano mandati, tra le altre cose: «tra le grammatiche, i due voll. del Rocci, Grammatica
Greca e Esercizi Greci. Poi un volume Nozari (?) il dialetto omerico. E finalmente, il Vocabolario italiano-greco, verde, rilegato. Ancora: Forme verbali greche del Pechenino12». Il 2 ottobre chiederà «i volumetti miei dell’Iliade e Odissea (verdi, o bruni con Minerva sopra) in greco13» e, a ribadire quali fossero i suoi intenti, scriverà sempre alla sorella il 20
10 D
UGHERA 1980, p. 39.
11 Precisamente si tratta del faldone AP VI. In particolare il primo quaderno contiene: esercitazioni di traduzioni
su brani di Esopo e la traduzione di tredici dialoghi di Luciano, Iliade 1-461, Odissea X 1-375, cinque liriche di Anacreonte, Lisia, Intorno al non esser concesso all’invalido la moneta, quattro capitoli dell’Anabasi di Senofonte, cinque liriche di Meleagro, tre di Bacchilide, una di Ibico, due epigrammi di Leonida.
Nel secondo quaderno invece si leggono le traduzioni di: Odissea X 376-574, Odissea VIII 1-586 Iliade XXIII 1-256, sei liriche di Mimnermo, Iliade XXIII 256-611, due elegie di Solone, Iliade XXIII 612-897, una lirica di Simonide, una di Saffo, la traduzione del Filottete di Sofocle, Iliade II 368, Odissea V 493, e le Coefore 1-582.
Il terzo quaderno è invece composto da Iliade XXIV Coefore 583-725, Iliade II 369-877, Odissea XI 1-203. Infine il quarto quaderno contiene: Odissea VI 1-331, Odissea XXIII 1-372, un’ode di Pindaro, Iliade I 1-601, l’Edipo Re, Il Fedone (capp. I-XIX). Per una descrizione più precisa si veda DUGHERA 1980, o l’Archivio online di Cesare Pavese, all’indirizzo: http://www.hyperpavese.it/.
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Si tratta del volume Grammatica Greca. Morfologia – sintassi e dialetti, L. Rocci, Roma-Milano-Napoli 1923 e, probabilmente, del volume Nuovi esercizi Greci per la IV e V Ginnasiale secondo gli ultimi programmi con
vocabolario e copiosa antologia, L. Rocci, Roma-Milano-Napoli 1925; O. Nazari, Il dialetto Omerico. Grammatica e vocabolario con 26 figure, Torino 1922; M. Pechenino, Verbi e forme verbali difficili o irregolari della lingua greca, Torino 1915.
13
Dalla descrizione sembrerebbe trattarsi delle edizioni dei classici latini e greci della casa editrice livornese Giusti a cura di Salvatore Rossi, i cui volumi furono pubblicati nel corso dei primi due decenni del ‘900 per
7
novembre: «Omero ve lo chiedevo in greco, in tanti volumetti separati, che sono nel mio scaffale. Quei due libracci bleu sono inutili». Anche nella corrispondenza col suo professore del liceo Pavese dà conto di diversi testi greci ricevuti (lettera del 12 dicembre 1935). A più di un destinatario, poi, scrive esplicitamente di aver ripreso a studiare il greco (ad Adolfo Ruata, 5 novembre 1935: «Esercito il più squallido dei passatempi: acchiappo mosche, traduco il greco..»; ad Alberto Carocci, 27 dicembre 1935: «Io mi annoio molto e ritorno al greco, traducendo tutto il giorno Omero e Platone»), e in una lettera alla sorella spiega anche con quale spirito si sia disposto alla ripresa della traduzione; il 27 dicembre scrive infatti, non senza una punta di ironia:
La gente di questi paesi è di un tatto e di una cortesia che hanno una sola spiegazione: qui una volta la civiltà era greca. Persino le donne che, a vedermi disteso in un campo come un morto, dicono “Este u’ confinatu”, lo fanno con una tale cadenza ellenica che io mi immagino di essere Ibico e sono bell’e contento.
Ibico, se vi interessa, è un lirico corale del VI secolo a. C., nato proprio qui nel Reggino, ammazzato sulla strada maestra e autore di questo opportuno frammento:
“..e in primavera le mele cotogne, irrigate dalle correnti dei fiumi, dov’è delle ninfe
il giardino intatto, e le gemme delle viti, cresciute sotto i polloni ombrosi
dei pampini, fioriscono: a me invece l’amore
in nessun tempo sopito, a quel modo che tra i fulmini avvampa la tracia tramontana, avventandosi da parte di Venere con aride smanie tenebroso sfegatato,
vigorosamente dalle fondamenta mi scuote la ragione…”
Non bisogna dimenticare che costui girava, come un’anima persa, Magna Grecia e isole, per amore della pagnotta, che allora si chiamava ospitalità. Ebbene, ancora adesso questa gente è tale e quale e, se non il giardino delle ninfe, l’ospitalità è intatta.
Fa piacere leggere la poesia greca in terre dove, a parte le infiltrazioni medioevali, tutto ricorda i tempi che le ragazze uJdreuouvsai si piantavano l’anfora in testa e tornavano a casa a passo di cratère14. E dato che il passato greco si presenta attualmente come rovina sterile - una colonna spezzata, un frammento di poesia, un appellativo senza significato - niente è più greco di queste regioni abbandonate. I colori della campagna sono greci […]. Persino la cornamusa - il nefando strumento natalizio - ripete la voce tra di organo e di arpa che accompagnava gli ozi di Paride qeoeidh;ς, quando sui pascoli dell’Ida mangiava il formaggio delle sue pecore e sognava gli amori di JElevnhς leukelevnou15
essere utilizzati nelle scuole. Effettivamente la copertina era rosso scuro e vi era rappresentata una Minerva di grosse dimensioni.
14 Probabilmente l’immagine è ripresa dalla scena di Odissea X (canto che sappiamo Pavese aveva appena
tradotto) dell’incontro con la figlia di Antifate presso i Lestrigoni (vv. 105-106): κούρῃ δὲ ξύμβληντο πρὸ ἄστεος ὑδρευούσῃ/ θυγατέρ’ ἰφθίμῃ Λαιστρυγόνος Ἀντιφάταο.
15 I due nessi Ἀλέξανδρος θεοειδὴς e Ἑλένῃ λευκωλένῳ si trovano entrambi nel III libro dell’ Iliade
(ovviamente anche in altri passi, ma di libri che Pavese non tradusse a Brancaleone): Odissea X e Iliade III, secondo la cronologia di Dughera, furono effettivamente i primi due canti tradotti da Pavese. Il termine è riportato in questo modo nell’edizione della lettera in PAVESE 1956, p. 490, invece dell’effettivamente omerico λευκωλέν
8 “…ejn kranavhj nh/sw/ migeisaς”16
(congiunto seco lui su un’isola sassosa)
[...] Insomma, credo nella metempsicosi e sono convinto di reincarnare Ibico, quello delle mele cotogne.
Diceva Saffo:
“Tramontata è la luna e le Pleiadi, è mezza notte, è passata l’ora: giaccio sola nel letto”.
La lettera è una testimonianza preziosa per diversi aspetti: da un lato contiene alcune delle traduzioni eseguite in quel periodo da Pavese e, d’altro canto, ci mostra come l’interesse per la lingua greca sia, ancora una volta, spinto dalla molla di una curiosità culturale nei confronti della civiltà che ha prodotto questi testi.
Il confronto con il testo greco dell’ode di Ibico è senz’altro indicativo del procedimento di traduzione di Pavese: Ibycus fr. 5 (Page): ἦρι μὲν αἵ τε Κυδώνιαι μηλίδες ἀρδόμεναι ῥοᾶν ἐκ ποταμῶν, ἵνα Παρθένων κῆπος ἀκήρατος, αἵ τ’ οἰνανθίδες αὐξόμεναι σκιεροῖσιν ὑφ’ ἕρνεσιν οἰναρέοις θαλέθοισιν· ἐμοὶ δ’ ἔρος οὐδεμίαν κατάκοιτος ὥραν. †τε† ὑπὸ στεροπᾶς φλέγων Θρηίκιος Βορέας ἀίσσων παρὰ Κύπριδος ἀζαλέ- αις μανίαισιν ἐρεμνὸς ἀθαμβὴς ἐγκρατέως πεδόθεν †φυλάσσει† ἡμετέρας φρένας
...e in primavera le mele cotogne17, irrigate dalle correnti dei fiumi, dov’è delle ninfe
il giardino intatto, e le gemme delle viti, cresciute sotto i polloni ombrosi
dei pampini, fioriscono: a me invece l’amore
in nessun tempo sopito, a quel modo che tra i fulmini avvampa la tracia tramontana, avventandosi da parte di Venere
con aride smanie tenebroso sfegatato,
vigorosamente dalle fondamenta mi scuote la ragione…
La traduzione è condotta in modo estremamente letterale, l’ordine delle parole e la divisione in versi non vengono praticamente alterati: fanno eccezione l’inversione tra «mele» e «cotogne», tra «ombrosi» e «polloni», la scelta di lasciare vicini «nessun» e «tempo». Dunque già si scorge l’esigenza di rimanere estremamente vicino alla costruzione greca, anche se qui Pavese si preoccupa comunque di rendere un testo fruibile in italiano, alterando, se pur minimamente, l’ordine dei termini, o scegliendo, ad
16
Riprende Iliade III 445: νήσῳ δ’ ἐν Κραναῇ ἐμίγην φιλότητι καὶ εὐνῇ. Il verso è riportato con questa grafia nell’edizione della lettera in PAVESE 1956, p. 490; più correttamente Pavese (o l’editore) avrebbe dovuto scrivere: ἐν Κραναῇ νήσῳ migeisaς.
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In realtà il termine Κυδώνιαι μηλίδες indica gli alberi di mele cotogne, e non il frutto (che è indicato invece
9
esempio, di discostarsi leggermente dal greco nella traduzione dell’ultimo verso (invece di «scuote la mia ragione», «mi scuote la ragione»). Dal momento che, come vedremo, accorgimenti del genere non vengono usati nella traduzione omerica, si può pensare che Pavese applicasse criteri leggermente diversi ai due tipi di testi e che, per la lirica, fosse leggermente meno preoccupato della fedeltà del traduttore, a vantaggio di una godibilità in italiano. Con lo stesso criterio pare comportarsi rispetto alla traduzione della lirica di Saffo: essa risulta non eccessivamente letterale, almeno nella resa dell’ultimo verso. Del resto la traduzione di questa poesia non si trova all’interno dei quadernini e la minuta della lettera18 in questione mostra un certo livello di “rielaborazione” da parte dell’autore nella resa di questa lirica. Pavese quindi aveva intrapreso la traduzione di questi versi esclusivamente con lo scopo di “pubblicarli” (nel senso che erano stati scritti esclusivamente perché qualcun altro li leggesse) e a questo potrebbe essere dovuta la cura stilistica. Sia per Ibico che per Saffo, poi, la maggiore libertà si potrebbe spiegare anche con la consultazione di qualche altra traduzione, data l’evidente difficoltà e frammentarietà dei testi affrontati.19
Per quanto riguarda le considerazioni di Pavese sulle tracce dello “spirito greco” ancora visibili nella popolazione di Brancaleone Calabro, e la sua identificazione con Ibico, si può osservare come l’interesse di Pavese si appuntasse sulle caratteristiche più profonde e radicate della cultura greca. Proprio perché tanto “fondamentali”, questi erano anche gli elementi che, in qualche modo, avevano lasciato traccia di sé. Il fatto che a interessare Pavese sia, in un certo senso, ciò che nella cultura classica si trova di “assoluto” e pertanto ancora valido per il presente, sarà poi fondamentale per la comprensione della sua produzione “mitica” successiva. Anche l’identificazione di Pavese con il poeta di Reggio è una spia di quanto, al contrario di ciò che lui stesso
18
La minuta della lettera, contenuta nel faldone AP IX è stata pubblicata in MASOERO 2010, p. 134.
19 Sappiamo che Pavese ricevette il 12 dicembre 1935 un pacco da parte del prof. Augusto Monti contenente
alcuni testi greci da lui richiesti al docente. Tra gli altri Pavese nomina (nella lettera scritta il giorno stesso per ringraziare il professore), l’Antologia greca di G. Cammelli (edita nel 1926), che contiene entrambi i testi citati nella lettera alla sorella. Tuttavia è probabile che, almeno in un primo tempo, Pavese non si fosse servito di questa raccolta per tradurre Ibico (la cui traduzione è contenuta nel primo dei quadernini, risalente probabilmente a qualche mese prima della lettera a Monti. Nel quadernino sono contenute peraltro alcune liriche anacreontee che non sono presenti nell’Antologia: Pavese utilizzava quindi sicuramente, in quel momento, un altro testo). Questo si evince anche dall’errore di traduzione già notato («mele» invece che «meli»), perché Cammelli (che affiancava il testo greco con una traduzione latina) traduce invece correttamente (p. 185) «Cydoniae/ mali», e in nota specifica: «malivdeς (= melivdeς) i meli; melivς è la pianta, mh'lon è il frutto, come in latino “malus” e “malum”». Ciononostante è possibile che Pavese avesse a disposizione una traduzione o un commento anche nel momento in cui affrontava questo brano: la sua resa riflette infatti delle scelte testuali che comportano alcune congetture. Al v. 8 ad esempio, invece del corrotto te uJpo;, Pavese sembra tradurre secondo la congettura di Hermann a{q’ uJpo; (a quel modo che); al v. 12, invece della lezione tradita fulavssei, la traduzione si basa sulla congettura di Naeke tinavssei oppure su quella di Mueller, accettata anche dal Cammelli, salavssei (entrambi i verbi significano scuotere).
Invece per Saffo è probabile che Pavese si fosse servito proprio dell’Antologia in questione. In questo caso è interessante notare come la traduzione del Cammelli si mostri più fedele al testo greco di quanto non sia quella di Pavese. Leggiamo infatti (p. 155): «Occidit quidem luna/ et (occiderunt) Pleiades, media autem (est)/ nox, praeteriitque hora:/ ego autem sola cubo».
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afferma nella lettera, la civiltà greca sia in realtà viva e feconda nella mente dell’autore.20
Per quanto riguarda ancora le caratteristiche delle traduzioni di questo periodo, si può citare come esempio la traduzione che Pavese fece del I libro dell’Iliade. I primi versi basteranno a dare un’idea di quanto il traduttore tenesse a rispettare la struttura sintattica del greco, così come a rendere esattamente in italiano la grafia degli epiteti21.
Hom. A 1-7 (ed. West)
Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος οὐλομένην, ἣ μυρί’ Ἀχαιοῖς ἄλγε’ ἔθηκε, πολλὰς δ’ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν οἰωνοῖσί τε πᾶσι, Διὸς δ’ ἐτελείετο βουλή, ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς.
L’ira canta, o dea, del Peleiade Achille rovinosa, che miriadi agli Achei mali pose, e molte generose anime all’Ade inviò di eroi, ed essi preda fece ai cani
e agli uccelli pasto22, e di Giove si compiva il volere da quando app. prima s’inimicarono altercati l’Atride re di uomini e il divo Achille. La prima esigenza di Pavese sembra quella di rimanere il più possibile “invisibile” rispetto al testo omerico, nel senso che tenta di ricalcare la morfologia del greco fin dove la lingua italiana lo permette. Questo lo porta a non modificare nessun aspetto della sintassi e a rendere l’epiteto Πηληϊάδεω, non con il tradizionale «Pelide» (già canonizzato, per esempio, da Foscolo, Monti, Pascoli, e ripreso dal latino), ma con «Peleiade», più rispettoso della forma greca originaria.
Il confronto di ulteriori passi aiuta a capire come l’aderenza di Pavese al testo sia assoluta. Nei versi 11-12 per esempio leggiamo:
οὕνεκα †τὸν Χρύσην ἠτίμασεν ἀρητῆρα Ἀτρεΐδης..
Poiché il Crise disprezzò sacerdote l’Atride…
Vediamo dunque che la traduzione non cambia l’ordine degli elementi del discorso, con il risultato che il senso non sempre è del tutto perspicuo23. Anche la resa dei composti omerici è
20
L’idea della reincarnazione di Ibico nell’autore poteva esser stata suggerita a Pavese anche dalla conoscenza di alcuni aneddoti antichi: in Diogene Laerzio VIII 1, 4 s., si narra che Pitagora raccontava che la sua anima fosse stata un tempo quella di Etalide (figlio di Ermes), per poi passare all’eroe omerico Euforbo, alla morte del quale passò a Ermotimo (che, per provarlo, riconobbe lo scudo di Euforbo nel santuario di Apollo dei Branchidi), poi a Pirro, pescatore di Delo, ed infine a Pitagora. Si pensi anche al primo libro degli Annales nel quale Ennio afferma di essere la reincarnazione di Omero. È possibile quindi che Pavese avesse in mente questo genere di tradizioni, e che le particolarità del luogo lo avessero suggestionato al punto da fargli immaginare l’immedesimazione con Ibico.
21
La traduzione è contenuta nel quarto quaderno.
22
Qui Pavese sembra tradurre il testo oijwnoi'siv te dai'ta, variante attribuita a Zenodoto da Ateneo (I 21, ed. Kaibel), che venne accolta in alcune edizioni (per esempio in quella di Nauck del 1877); anche E. Romagnoli, nella sua traduzione dell’Iliade per le scuole del 1932 (Zanichelli) traduceva: «preda ai cani, banchetto agli uccelli».
23
Come ulteriori esempi si possono citare i vv. 18-19 «a voi gli dei diano le case Olimpiche abitanti/ distruggere di Priamo la città», vv. 26-28 «Non te, o vecchio, presso le cave io navi trovi/ o adesso indugiante o poi di nuovo andante,/ affinché non davvero a te non giovi lo scettro e la benda del dio», vv. 59-61 «Atride, ora noi di nuovo
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quanto più possibile vicina alla struttura originaria, rivelando anche l’intento di non scindere in due parole italiane quello che in greco è un termine solo: eju>knhvmideς diventa «bengambierati» (v. 17), ajrgurovtoxe «arcargento» (v. 37), la ajmfhrefeva farevtrhn viene resa come «la doppiocoperta faretra», Criseide viene detta «belliguancia» (da kallipavrh/on, v. 143) e Ftia «nutriuomini» (bwtianeivrh/, v. 155)24. Anche espressioni peculiari di Omero, o strutture particolari del greco che non trovano un corrispettivo diretto nell’italiano d’uso, sono da Pavese rese con la massima adesione possibile all’originale: così i participi futuri vengono resi sfruttando la forma latina (deu'ro machsovmenoς, v. 153, «qui combattituro»), l’espressione tav t’ejovnta tav t’ejssovmena prov t’ejovnta diventa «le essenti e le future e le prima essenti». Infine curioso è l’uso di Pavese di termini inglesi che dovevano sembrargli più adatti dei corrispettivi italiani per la traduzione (forse anche perché gli permettevano di tradurre con una sola parola per lo più avverbi che in italiano ne avrebbero richieste di più): ai[ ke;n pwς (v. 66) viene reso con «se someway», oujdev tiv pou (v. 124) «né affatto somewhere» e ouj gavr pwv pote (v. 154) «non infatti sometime mai».
Le traduzioni di Pavese sono dunque, sin dalle prime prove, caratterizzate all’estremo dall’esigenza di rispettare il testo greco originario. In realtà questo atteggiamento porta al contrario alla “visibilità” del traduttore, giacché la resa italiana non è affatto neutra, ma costringe il traduttore a delle “acrobazie” linguistiche piuttosto evidenti. Si potrebbe pensare che Pavese intendesse questa fase come una fase intermedia: la scelta di lasciare ben chiare la posizione dei termini greci e le strutture sintattiche e grammaticali preluderebbe a un successivo “scioglimento” delle espressioni più difficoltose in italiano, permettendo però all’autore di avere sempre presente la forma originale dei versi omerici, così da non allontanarsene eccessivamente nell’ultimo stadio di rielaborazione. In ogni caso, si trovano già in nuce elementi che poi diventeranno caratteristici delle traduzioni dell’ultimo periodo della vita di Pavese, e che verranno dall’autore ricondotti a criteri guida per una traduzione efficace.
1.1.1. L’«unità» dei poemi omerici e Lavorare Stanca
Dalle riflessioni coeve, poi, emerge che la conoscenza e l’analisi della produzione classica non rimasero circoscritte a un semplice interesse “erudito”, ma arricchirono la consapevolezza di Pavese sulla propria produzione creativa (si tratta di un fenomeno che riemergerà anche a proposito delle traduzioni più tarde). In data 17 febbraio 1936 leggiamo infatti ne Il Mestiere
di vivere:
È bene rifarsi a Omero. Qual è l’unità dei suoi poemi? Ogni libro ha una sua unità sentimentale, di posizione, per cui armonicamente e fisicamente anche, lo si legge come un insieme. Libro VIII dell’Odissea: il conforto della poesia, della danza, della gara; il canto, il mito aureo, scherzoso; la rivincita della nobiltà di vita, in un’oasi di godimento e di lacrime ideali. Libro X dell’Odissea: l’avventura, il susseguirsi di ostacoli, il pianto umano e l’indurirsi. Libro III dell’Iliade: la bella donna e la guerra per la donna, e l’amore snervante. E via. Pensava a queste definizioni Omero o chi per esso? Non credo, sbattuti credo/ esser per ritornare indietro, se pure la morte fuggiamo,/ se appunto insieme la guerra domerà e la peste gli Achei».
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A questi si aggiungano Apollo che, oltre che «lungisaettante » è anche «lungioperante» (eJkavergon, v. 147), e Achille «piedeveloce».
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ma è rivelatore che il libro dove vive tutta la Grecia sia fatto in questo modo o, che è lo stesso, sia possibile interpretarlo così. Ma stiamo attenti. Il grande fascino dei due poemi è l’unità materiale dei loro personaggi, che a volta a volta si accende in queste conflagrazioni di poesia. Abbiamo cioè, fin dal primo esempio di grande poesia intenzionale, questo doppio gioco: naturale svolgersi di casi (che potrebbero anche essere il doppio o la metà, senza danno) e successive ed organiche illuminazioni poetiche. Il racconto cioè, e la poesia. L’unione dei due elementi non è più che abilità. Ora si apre il problema se, in poesie separate, non sia possibile rifare il miracolo [...].
Altro punto interessante in Omero sono gli appellativi e i versi ritornanti: tutto ciò insomma che costituisce in ciascun caso un nervo lirico di indiscutibile valore, e ogni volta viene trascritto, uguale o press’a poco, senza darsi pena di rivedere la primitiva intuizione. (Anche qui, non vale la verità che si tratti di lingua poetica, di gergo consacrato, di frasi diventate nell’uso un vocabolo solo, di cristallizzazioni ieratiche di un sentimento. Sarà, anzi è; ma a me fanno un altro effetto ed ho ogni diritto di ragionarci come fossero una scelta deliberata di Omero. Non conta l’intenzione sua, conta quello che ci vedo io, lettore).
Credo, perciò, si tratti di un modo tecnico molto importante, da cui ottenere parte dell’unità dei singoli libri. Non so se ogni lettore abbia notato come ciascun libro ha la caratteristica di un certo gruppo di appellativi e di versi ritornanti a lui riservati. Parrebbe che la materialità di certi gesti, di certe figure, di certi ritorni si colori, in questo modo, di poesia - sia pure mnemonica e cristallizzata - per nascondere la obbligata povertà inventiva. Che insomma il primo Greco abbia senz’altro sentita l’opposizione tra racconto e poesia, e si sforzi così - per il nostro gusto, ingenuamente - di colmarla. Va da sé che mutando libro muta pure - ma non sempre, si capisce - il tono dei ritorni, data la singolare colorazione o se vogliamo, fissazione di ciascun libro.
Concludendo, un modo per ottenere l’unità, è la ricorrenza di certe formule liriche che ricreino il vocabolario, trasformando un appellativo o frase in semplice parola. Di tutti i modi di inventare la lingua (l’opera del poeta) questo è il più convincente e, a pensarci, il solo reale. E spiega come in tutta quella parte dell’opera, dove ricorrano le formule uguali, circoli un’aria di unità: è lo stess’uomo - inventore - che parla.
I canti di Omero citati (Odissea VIII e X, Iliade III) sono effettivamente quelli che Pavese tradusse per primi (e sono contenuti nel primo e nel secondo quaderno di traduzioni, secondo la cronologia di Dughera), quindi le riflessioni scaturivano sicuramente da un approccio diretto al testo greco. Il problema che qui affronta Pavese, quello dell’unità di un’opera d’arte, è un problema che ricorre anche in altri passi dello stesso periodo del Mestiere di vivere. Pavese infatti si trova a riflettere sulla questione dell’unità poetica di un’opera relativamente alla raccolta di poesie che poi pubblicherà con il nome di Lavorare Stanca, sempre nel 1936, con la casa editrice Solaria di Firenze. Il problema del rapporto di una singola poesia con l’insieme dell’opera, del legame tra le singole poesie e della necessità che ogni poesia sia comunque fruibile singolarmente lo portano a confrontarsi, ad esempio, con la struttura dei
Fiori del male, della Divina Commedia, e della produzione shakespeariana.
Tuttavia la riflessione più ampia è senz’altro questa dedicata ai poemi omerici, riflessione a partire dalla quale sembra giungere a una conclusione provvisoria: fondamentali per la compiutezza di un’opera sono l’alternanza tra «racconto e poesia» e l’abilità nel fondere
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insieme questi due elementi. Vediamo dunque che Pavese, pur mostrando allusivamente di essere a conoscenza della problematica legata alla composizione e alla natura dei poemi omerici, considera Omero come una “personalità” poetica a tutti gli effetti, e le tecniche tipiche della composizione epica, derivate probabilmente dalla sua natura orale (come lo stesso Pavese nota), diventano accorgimenti tecnici per un preciso scopo compositivo. Lo stesso autore del resto afferma che «Non conta l’intenzione sua, conta quello che ci vedo io, lettore», ribadendo quindi chiaramente che la sua lettura di Omero era influenzata da quello che lui stesso vi cercava, ma non per questo perdeva validità. Applicando quanto aveva notato in Omero alla sua produzione, egli afferma che la difficoltà sta nel realizzare questa unione in poesie separate e per questo è necessario «rintracciare in un gruppo di poesie le sottili, e quasi sempre segrete, corrispondenze di argomento (materiale unità) e di illuminazione (unità spirituale)25». Queste corrispondenze di argomento sono quelle che elenca, all’inizio della pagina di diario, a proposito delle diverse parti dei poemi da lui tradotte. Nei poemi omerici, poi, Pavese trova anche degli accorgimenti “tecnici” che permettano di raggiungere questa unità, che sono effettivamente le formule, gli epiteti omerici: e in un certo senso si può pensare che queste considerazioni abbiano, in qualche modo, influenzato la produzione di quei mesi.
Infatti sappiamo che nell’ottobre 1935 Pavese scrisse a Monti di aver già tradotto Iliade III (lettera del 29 ottobre 1935) e alcune altre opere contenute soprattutto nel primo quaderno, grazie a dei libri trovati a Brancaleone, mentre Omero gli doveva essere ancora inviato dai parenti: presumibilmente gli arrivò poco dopo, dato che il secondo, terzo e quarto quaderno sono costellati di traduzioni dai poemi. Pertanto particolarmente interessante risulta il gruppo di poesie tradotto da Pavese tra l’ottobre del 1935 e la fine del confino (l’ultima è Lo
steddazzu, gennaio del ’3626). Il fatto che Pavese le concepì come un insieme unitario è confermato dal loro destino editoriale: Pavese infatti fece aggiungere alla fine dell’edizione Solaria di Lavorare stanca (uscita il 14 gennaio 1936) alcune poesie scritte a Brancaleone fino al settembre del 1935. Dopodiché scrisse Parole del politico (settembre 1935) che inserì nell’edizione Einaudi del 1943 all’interno della sezione “Legna verde”; compose poi alcune poesie che scelse di non pubblicare, e infine il gruppo abbastanza compatto di liriche già citato, che inserì, sempre per l’edizione del 1943, nella sezione “Paternità”, che di fatto era costituita solo dalle poesie del confino con l’aggiunta di Mediterranea (scritta nel 1934) e de
Il Paradiso sui tetti (1940). In questa sezione si trova poi anche una poesia del settembre
1935, Paesaggio VI. Le poesie in questione sono (nell’ordine di composizione): Mito (ottobre 1935), Semplicità (ottobre 1935), Paternità (ottobre 1935), L’istinto (novembre 1935), Lo
steddazzu (gennaio 1936)27. Il periodo di stesura di queste poesie coincide quindi con il periodo di traduzione dei libri dell’Odissea e dell’Iliade che poi andranno a stimolare la riflessione già menzionata del febbraio 1936; e si potrebbe pensare, in un certo senso, che le caratteristiche stilistiche e compositive che lui stesso individua come fondamentali nella produzione omerica, lo abbiamo influenzato nella concezione di questa parte della raccolta di
25 Sono parole di Pavese scritte nella pagina di diario appena citata. 26
Per la datazione delle poesie si fa riferimento a quanto contenuto in PAVESE 1977.
27
Nello stesso periodo Pavese scrive anche Un ricordo (ottobre 1935), inserita nell’edizione del 1943 ma nella sezione “Maternità”, Alter ego (ottobre 1935), che però Pavese non pubblicò mai, e Tolleranza (dicembre 1935), inserita nell’edizione del ’43 ma nella sezione “Dopo”.
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poesie. Infatti in queste liriche, come lo stesso Calvino nota, «la battuta d’inizio “L’uomo solo” è una chiave musicale che si ripete per alcune di esse»28
: colpisce effettivamente come in tutte le poesie citate (in alcune più marcatamente che in altre) si presenti un verso, un gruppo nominale, che ricorre in quasi tutte le strofe, non producendo solo un effetto “sonoro”, come dice Calvino, ma anche dando “unità” alla lirica, nel senso in cui Pavese intendeva il concetto di “unità” nella sua pagina di diario. Particolarmente evidente è appunto la ripetizione del sintagma «l’uomo solo»: in Semplicità esso apre la lirica e viene poi ripetuto altre due volte; in Paternità è posto nuovamente come incipit, e poi viene richiamato dalla ripetizione de «l’uomo» ricorrente in tutte le strofe; nella poesia che la segue, nell’edizione ’43, che è anche l’ultima della raccolta, Lo steddazzu, l’intera espressione «l’uomo solo» non solo dà avvio alla prima strofa, ma verrà poi ripresa altre due volte. Altrettanto evidente è come nella lirica che da Pavese viene posta tra Semplicità e Paternità, cioè L’istinto, il nesso è modificato da «l’uomo vecchio»: esso apre la lirica e poi viene ripetuto altre tre volte. Rimane la poesia Il mito: prima del gruppo per composizione e per posizione nella sezione, presenta il ripetersi dell’espressione «il giovane dio» anche se forse con un effetto meno marcato. Le altre poesie della sezione non risultano caratterizzate da questi tratti stilistici, appartenendo a momenti compositivi diversi29. In ognuna di queste poesie inoltre si rintracciano alcune parole che si ripetono numerose volte e che creano quindi una determinata «coloritura» che contraddistingue ogni lirica30. Una formularità così accentuata non si ritrova nelle poesie composte in precedenza e si limita a questa sezione dell’opera: considerando anche che esse sono in un certo senso legate da «una loro unità sentimentale» (il senso di solitudine dell’uomo non più giovane e, in modi diversi, “confinato”), si può pensare che in un certo senso Pavese avesse voluto applicare qui la “lezione” dei poemi omerici (sia sul piano tematico, che lo spinse a concepire in questo modo la sezione della raccolta, che stilistico, tramite gli accorgimenti appena descritti). Per l’assimilazione di queste tecniche, l’esercizio della traduzione doveva esser stato fondamentale (del resto anche nella resa degli epiteti omerici è molto attento a non cambiare mai espressione) e solo la conoscenza approfondita dei poemi che raggiunse in quei mesi gli permise la teorizzazione del febbraio del ’36. Il fatto poi che lo studio cui si applicava in quel periodo si incrociasse con la sua produzione è confermato da una nota scritta nello stesso periodo ne Il mestiere di vivere (29 dicembre): «Dei due, poetare e studiare, trovo maggiore e più costante conforto nel secondo. Non dimentico però che mi piace studiare in vista sempre del poetare [...]31». Ciò induce a ipotizzare che non sia avventato scorgere una sottile influenza tematica dei testi omerici in alcune delle poesie scritte in quei mesi: per esempio nella figura dell’«uomo solo» di
Paternità (oltre ovviamente alla situazione di sofferenza di Pavese) si potrebbe vedere un
28 P
AVESE 1977, p. 219.
29
Lo stesso Calvino, in PAVESE 1977, p. 219, mostra qualche difficoltà a spiegarne la collocazione in questa sede. Scrive infatti «Nel gruppo sono entrate a far parte anche una poesia di data anteriore (Mediterranea) e una più tarda (Il paradiso sui tetti): non è facile capire la ragione della collocazione, per la prima forse il motivo dell’estraneità [...] e per la seconda il senso di attesa».
30
Per esempio ne Lo Steddazzu si ripetono termini e immagini che ruotano intorno ai due poli del «mare» e del «fuoco», in Semplicità i termini «vino», «pane», «lepre» si ripetono in ogni strofa, e così per ognuna delle poesie elencate.
31 L’interesse che in lui aveva suscitato la struttura dei poemi omerici è ribadito nella pagina di diario del 23
febbraio: «Più ci penso e più mi appare notevole il fare omerico del libro unità. A uno stadio, che tutto dovrebbe far supporre incline all’uniformità, si rivela invece il gusto dell’arazzo circoscritto e variegato, lo studio dell’unità differenziata [...]».
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richiamo alla figura di Odisseo, soprattutto per come viene presentato nel libro X. Pavese, abbiamo visto, descrive questo libro, tra le altre cose, come il libro del «pianto umano» e dell’«indurirsi»: la particolare conoscenza del mare e il forte legame con esso, il pensiero di una donna lontana e quella che sembra la nostalgia per la casa sono senz’altro descrizioni di stati d’animo dell’autore, non del tutto esenti, però, da qualche reminiscenza odissiaca32
. Così dietro alla donna di Un ricordo33, che doveva senz’altro riferirsi a «la donna dalla voce rauca» (per amore della quale Pavese si trovava al confino), si può indovinare la figura di Elena evocata nel libro III dell’Iliade, per il quale Pavese individua come temi «la bella donna e la guerra per la donna, e l’amore snervante».
1.2. Le ultime traduzioni
Negli anni successivi al periodo di confino, Pavese non ha lasciato testimonianza di una attività sistematica di traduzione dal greco. La prima evidenza in tal senso risale al 1947; in una lettera a Mario Untersteiner34 (20 novembre 1947) scrive infatti:
Il mio libro [scil. Dialoghi con Leucò]35 è nato da un interesse per il problema del mito e delle cose etnologiche che mi ha indotto e mi induce a molte strane letture - ma poche mi hanno dato la soddisfazione e lo stimolo della sua Fisiologia36. Pensi che le sue pagine hanno anche avuto questo effetto, che ho ripreso grammatiche e dizionari (dopo una giovinezza tutta impegnata in problemi di narrativa nordamericana e anglosassone) di venti anni fa e vado, quando posso, rosicchiandomi Omero, col solo rimpianto di non poter procedere speditamente come vorrei. È una lingua terribile - divina e terribile, come la terra secondo Endimione37.
Anche in quest’occasione, dunque, Pavese riprende a tradurre il greco spinto da un interesse culturale, che in quest’ultima fase della sua vita si precisa come prettamente etnologico e antropologico. Ne sono testimonianza le sue numerose letture (i nomi di Vico, Frazer, Kerényi, Lévy-Bruhl ricorrono spesso nelle pagine del Mestiere di vivere di quegli anni) e quanto egli stesso dichiara a proposito delle “fonti” dei Dialoghi con Leucò (qui cita la
32 L’assimilazione del mare che circondava Pavese con quello solcato da Ulisse è suggerita dall’autore stesso,
con tono decisamente ironico, in una lettera a Mario Sturani (27 novembre 1935): «Il mare già così antipatico d’estate, d’inverno è poi innominabile: alla riva, tutto giallo di sabbia smossa; al largo, un verde tenerello che fa rabbia. E pensare che è quello di Ulisse: figurarsi gli altri». Ancora più vicini allo spirito della poesia sono alcuni passi del canto V dell’Odissea, la cui traduzione si trova nello stesso quadernino: si pensi per esempio ai vv. 81-84 e 215-220, dove vengono espressi, da un lato, il legame tra il dolore dell’uomo e la distesa marina, dall’altro la nostalgia per la donna lontana.
33
Poesia inserita nell’edizione del ’43 nella sezione “Maternità”.
34 La lettera è la prima di un lungo carteggio che porterà al progetto di traduzione dell’Iliade (e poi anche
dell’Odissea) affidata a R. Calzecchi Onesti, un’allieva di Untersteiner.
35
Untersteiner espresse il suo apprezzamento ai Dialoghi sia privatamente (inviando a Pavese una copia del suo
Il concetto di in Omero con la dedica «a Cesare Pavese l’artista interprete della religione ellenica», v.
lettera a Tullio Pinelli del 3 dicembre 1947) sia pubblicamente, nella recensione ai Dialoghi con Leucò che redasse per la rivista “Educazione politica” nel numero del novembre-dicembre 1947.
36
M. Untersteiner, La fisiologia del mito, Milano 1946.
37 Le difficoltà che Pavese lamenta nel tradurre il greco sembrano riecheggiare quelle del periodo di Brancaleone
Calabro, espresse con la consueta ironia al suo professore, Augusto Monti. Leggiamo ad esempio: «Inutile dire che detesto il greco e chi l’ha inventato, trovo che è lingua morta, illogica e artificiosa, che specialmente l’Edipo è una menata da ammazzare un bue, ma tant’è: la nostra sorte è da affrontarsi con animo gagliardo e risoluto» (lettera del 19 ottobre 1935).
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Fisiologia del mito di Mario Untersteiner, più tardi in una lettera inviata proprio a lui38 citerà la Thessalische Mythologie di Paula Philippson). Sempre nel Mestiere di vivere sono poi ricorrenti le riflessioni sullo “spirito” e sul “mito” greco39
: i Dialoghi sono poi il frutto più evidente della rielaborazione e interiorizzazione di questo filone di interesse, ma tutte le opere e i saggi dell’ultimo periodo sono influenzate dalla tematica del mito. Le sue inclinazioni si riflettono anche nell’attività di direttore editoriale dell’Einaudi, per cui a partire dalla seconda metà del 1945 si trova attivamente impegnato a fianco di Ernesto de Martino nella preparazione della “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” (nota come “Collana viola”) che cominciò ad uscire nel 1948. Nella collana furono pubblicate, tra le altre, opere dei già citati Kerényi, Lévy-Bruhl, Philippson, Frazer, e poi Jung, Durkheim, Aldrich, Malinowski, Frobenius e altri autori impegnati negli ambiti dell’antropologia, dell’etnologia e della “psicologia religiosa”. Nel 1948, infine, propose prima a Untersteiner e poi, dietro suggerimento di quest’ultimo, a Rosa Calzecchi Onesti, un progetto di traduzione dei poemi omerici. La traduzione dell’Iliade uscì effettivamente nel 1950, e durante tutto il periodo di preparazione fu Pavese ad occuparsi di correzioni, revisioni di bozze, e, fondamentalmente, a decidere l’impostazione e lo stile della traduzione. La presentazione che Pavese fece dell’opera è testimonianza dell’attenzione dedicata dallo scrittore alle problematiche della traduzione in generale, e in particolare a quella di Omero. Dei criteri adottati in quest’occasione si discuterà ampiamente in seguito.
Le traduzioni cui Pavese fa riferimento nella lettera a Untersteiner, sono conservate in un gruppo di carte sciolte e sul retro di bozze, catalogate nel Fondo Sini dell’archivio “Cesare Pavese”40
. I testi tradotti sono: Iliade I, Iliade V, Iliade X, Iliade XV, Odissea XI, la
Teogonia, e gli inni omerici Ad Afrodite V, Ad Afrodite VI, A Dioniso. Si trovano poi un
glossario per Iliade XI e per Le opere e i giorni, testi che però Pavese non tradusse (ma che, evidentemente, aveva in programma di affrontare). Come si vede, dunque, la scelta dei testi corrisponde all’interesse mitologico e antropologico di Pavese, interesse che coinvolgeva gli aspetti più “arcaici” della civiltà greca. La datazione proposta da Dughera41
inserisce queste traduzioni in un arco temporale che va dal 1947 alla morte dell’autore. Gli indizi su cui si basa Dughera sono la lettera a Untersteiner già citata, e alcune evidenze relative sia ai supporti cartacei che alle edizioni dei testi greci di cui Pavese si servì. La traduzione di Iliade XV è infatti scritta sul retro delle bozze del libro di P. Viereck, Dai romantici a Hitler, e un termine post quem certo è rappresentato da una nota a pag. 290 delle bozze in cui si fa riferimento al 1940. La datazione viene però spostata più avanti da Dughera sulla base di due considerazioni: in primo luogo l’Einaudi pubblicò il libro nel 1948, il che fa supporre che le bozze fossero giunte a Pavese non molto tempo prima; in secondo luogo il retro delle stesse bozze fu utilizzato per la stesura del manoscritto de La casa in collina, datato 11 settembre 1947-4 febbraio 1948.
38
7 maggio 1948.
39
Cito come esempio il 26 aprile 1945 (riflessioni sul sacro a partire dall’Eneide e da Erodoto), gli interventi del gennaio 1946 sulla natura degli dei, del 21 agosto 1946 sulla sacralità dei luoghi mitici; nel 1947 le citazioni rimangono frequentissime, anche una volta pubblicati i Dialoghi; si vedano, ad esempio, i pensieri di novembre-dicembre, dove viene citato un altro dei tanti studi che Pavese lesse, cioè Themis di J. H. Harrison.
40
Il faldone è lo stesso dei quaderni del confino, AP VI.
41 D
17
La seconda evidenza è fornita dal V volume dell’edizione Oxford Homeri Opera a cura di T. W. Allen, che Pavese usò per la traduzione degli Inni omerici (risultano annotate infatti solo le pagine relative agli inni poi effettivamente tradotti). La ristampa uscì nel 1946, ma una nota autografa di Pavese certifica che fu comprato il 4 gennaio 1949.
Per quanto riguarda in generale i testi greci cui Pavese fece riferimento, Dughera riporta che per il glossario a Le Opere e i Giorni Pavese si servì dell’edizione Belles Lettres di Esiodo, uscita nel 1944, ma che, come si evince da una dedica in prima pagina, fu ricevuta nel 194842. Tuttavia sempre Dughera rileva che non essendo il testo della Teogonia chiosato, probabilmente per la traduzione di quest’ultima Pavese si servì di un’altra edizione. Secondo lo studioso (che ha pubblicato questa traduzione insieme a quella degli Inni omerici per Einaudi nel 1981) l’edizione di riferimento, per quanto irreperibile tra i volumi pavesiani, sarebbe quella Teubner (uscita nel 1913 a cura di A. Rzach). Dughera lo evince dal confronto tra il testo stabilito in questa edizione e la traduzione di Pavese, che non si discosta mai sostanzialmente dalle scelte di Rzach. A queste osservazioni si può aggiungere la considerazione che nella biblioteca di Pavese era presente l’edizione di Odissea XI a cura di M. Untersteiner, che, a quanto riportato sul portale Hyperpavese, «presenta tracce di lettura». Considerando che questo fu l’unico canto dell’Odissea tradotto da Pavese, e che l’edizione uscì nel 1948, ci sono buone ragioni di pensare che l’autore si servì proprio di questo testo43.
42
Cfr. PAVESE 1981, p. 101.
43
Nella lettera del 12 gennaio 1948, Pavese scrive ad Untersteiner: «Aspetto Odissea, XI». Nella biblioteca di Pavese non si trovano altre edizioni in greco dell’Odissea, ancorché siamo certi che ne possedesse qualcuna (sicuramente i volumi che si fece spedire all’epoca del confino e che usò per le traduzioni di allora). Comunque l’apparato di edizioni in lingua originale di Pavese non doveva essere particolarmente nutrito, se ancora il 6 dicembre del 1948 scriveva a Rosa Calzecchi Onesti: «Non ho riscontrato tutto sul testo. Anche perché mi servo di una vecchia edizione del ʾ700».
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Parte seconda
Caratteristiche delle traduzioni pavesiane
Le traduzioni dell’ultimo periodo furono quelle che suscitarono maggiore attenzione nella critica, anche se, come quelle del soggiorno a Brancaleone, furono definite per lo più “traduzioni di studio”. Pavese non mostrò infatti alcuna intenzione, finché fu in vita, di pubblicarle; pertanto la questione venne affrontata per la prima volta, dopo la morte dell’autore, da Italo Calvino, il quale nel 1963 consultò Fausto Codino (studioso di filologia classica che collaborò con l’Einaudi per la pubblicazione di diversi studi riguardanti la civiltà greca) sull’opportunità o meno di renderle pubbliche. Le traduzioni non uscirono, ed effettivamente il giudizio di Codino (testimoniato da una lettera indirizzata a Calvino) era stato fortemente negativo, in particolare a proposito delle traduzioni dei poemi omerici. Nella lettera, datata 5 febbraio 1963, si legge infatti44:
Caro Calvino,
mi affretto a scriverti nel timore di averti dato per telefono un parere incautamente favorevole alla pubblicazione delle traduzioni di Pavese; avevo esaminato solo le più vecchie, mentre alle ultime avevo dato solo un’occhiata in attesa di arrivarci seguendo l’ordine cronologico. [...] Le traduzioni del secondo gruppo sembrano vicine alle prime per ragioni interne ed esterne (analogie nella scrittura, nello stile, nella resa di certe espressioni ecc.), ma devono essere invece posteriori di parecchi anni [...]. Da questi elenchi [scil. i glossari a Iliade XI e Le opere e i giorni] si ricava che praticamente P. ricominciò a studiare il greco, ma non se ne impadronì mai. Fino alle ultime, le traduzioni sono piene di abbagli. Non pare che P. abbia mai tenuto presenti traduzioni anteriori o commenti, ma doveva affrontare il nudo testo in qualche edizione scientifica, senza note esegetiche. Doveva considerare questo lavoro come una sua esercitazione e sarà bene tenerne conto prima di pubblicarle. Fino dai primi esercizi, il suo metodo rimane sempre lo stesso: riprodurre ogni verso con la stessa struttura sintattica - secondo il suo ideale della traduzione interlineare - anche a costo di riuscire incomprensibile, e possibilmente con lo stesso numero di parole. Quindi le violenze grammaticali e le inversioni («lui rispose essa», «tra tu questi», «nella di navi folla» ecc.), i tentativi di rifare i verbi composti con preposizione, di calcare gli epiteti adornativi ecc. In questo sforzo furioso di immedesimazione P. non si cura del senso, non si accorge o non si preoccupa di far dire ai testi cose impossibili, ma non guarda neppure alla scelta del lessico italiano, al livello stilistico che oscilla paurosamente, che tende al parlato ma deve ammettere, proprio nell’illusione della fedeltà letterale, molti ritorni neoclassici e barocchi. Temo proprio che se le traduzioni usciranno così, tutti grideranno dàgli al decadente. [...] Fra le cose che mi restano c’è la Teogonia di Esiodo che a un esame non ancora approfondito mi sembra la cosa meglio riuscita. In caso di pubblicazione si potrebbe prendere in considerazione questa e i tre inni omerici già trascritti. All’Iliade è meglio non pensare: questa traduzione sfigurerebbe accanto a quella della Rosa Calzecchi Onesti, che pure guadagnò tanto in seguito alla revisione di P. Ma per mio conto, ripeto, almeno per ora non arriverei alla pubblicazione.
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Insieme alla lettera sono stati conservati alcuni appunti a mano di Calvino con osservazioni più specifiche sulle traduzioni. Tra le altre cose scrive: «Coglie qualche risultato nell’efferato, nel truce (cf. p. 3-, p. 11-); ma la perfezione compiuta di Omero è trasformata in una rozza, casuale avventatezza senza tessuto continuo»; «Il tentativo è fallito anche metodologicamente: 1) perché l’estremità dei nessi e dei vocaboli tolgono ogni qualità poetica o ne impediscono, dirottandolo, l’apprezzamento 2) perché anche tutto l’accanimento del P. non può giungere dove giunge il greco e non l’italiano: la sfumatura modale, le particelle (te, ge è ignorato, mevn... dev spesso impossibile, oJς dato per relativo, le tmesi verbali spesso non arrischiate ecc.) 3) perché si ottengono qua e là degli indovinalagrillo (cfr. p. 9-10, 22-23) [...]». Vengono notati poi alcuni meriti nelle scelte lessicali e alcuni evidenti errori di comprensione.
Degli stessi testi si occuperà poi Dughera, sia in occasione della loro catalogazione45 sia per la pubblicazione delle traduzioni della Teogonia, e degli Inni omerici46. Nell’articolo citato Dughera evidenzia con maggiore dovizia di dettagli le caratteristiche già sottolineate da Codino, salvo poi giustificarle in vista della concezione teorica della traduzione espressa da Pavese, e spiega che l’autore sembrò non considerare mai questi esercizi molto importanti alla luce del suo interesse essenzialmente mitologico per il mondo greco: la traduzione del testo sarebbe stato solo un mezzo per approfondire la conoscenza delle radici del mondo greco, e pertanto la sua forma non assumeva particolare rilevanza. Lo stesso vale per l’edizione della
Teogonia e degli Inni omerici: in proposito Dughera suggerisce possibili connessioni con i Dialoghi con Leucò e con la produzione pavesiana in generale.
Un ultimo giudizio, anch’esso piuttosto severo, fu dato da Attilio Bertolucci, che, in un articolo sulla “Repubblica” del 21 settembre 1982, recensì l’edizione appena citata della
Teogonia e degli Inni omerici: la parte più consistente dell’articolo è dedicata all’analisi delle
traduzioni dei poemi omerici che precedono le traduzioni di poesia epica arcaica in cui si cimenta Pavese; nelle ultime righe egli si occupa effettivamente dell’edizione curata da Dughera, e, fatta notare la scarsa proprietà di alcune scelte lessicali di Pavese, scrive: «Devo concludere che il miglior Pavese traduttore sta nella prosa di Moby Dick, per noi insostituibile».
Da questi interventi risulta chiaro come la traduzione di Pavese avesse in primo luogo natura di studio per l’apprendimento della lingua greca, e come l’autore fosse interessato, più che alla resa italiana, al mantenimento della forma del testo originale, in tutti i suoi aspetti. In particolare questo si riflette in alcune precise scelte tecniche da parte di Pavese, già parzialmente individuate da Codino e da Dughera.
2.1. Interlinearità e particolarità sintattico-grammaticali
In primo luogo Pavese decide di non adottare alcun metro specifico, senza tuttavia arrivare alla scelta della prosa: questa posizione (assunta in seguito anche da Rosa Calzecchi Onesti) rompeva da un lato con il filone montiano della versione in endecasillabi, ma dall’altro si
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DUGHERA 1980.
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distingueva anche dalla traduzione in prosa di Nicola Festa47, che pure Pavese mostrava di apprezzare. Nella sua presentazione della traduzione dell’Iliade di Rosa Calzecchi Onesti, Pavese scrive a questo proposito: «Alquanto diverso e meritorio [scil. rispetto alla traduzioni pubblicate precedentemente] il tentativo di Nicola Festa: peccato la scelta della prosa, che toglie al discorso omerico la sua essenzialissima cadenza e corposità di respiro». Fondamentalmente Pavese restituisce la divisione in versi, tenendo in ciascun rigo le stesse parole presenti nell’esametro omerico, senza però preoccuparsi di mantenere lo stesso numero di sillabe o una distribuzione fissa degli accenti.
L’unico criterio che guida la composizione del verso è l’interlinearità assoluta rispetto al greco: ogni parola dell’originale viene tradotta in italiano, possibilmente con un unico termine che sia della stessa classe grammaticale di quello greco. Pavese cerca anche di mantenere lo stesso numero di parole del greco e, ove questo risulti impossibile, cerchia l’espressione italiana che corrisponde a un unico termine greco, per sottolinearne l’originaria unità48
. A tal fine sarà utile riportare i primi versi del I libro dell’Iliade (come già fatto per le traduzioni di Brancaleone) allo scopo di dare un’idea dell’impostazione generale del suo lavoro, per poi analizzare le singole particolarità della resa italiana.
Il. I 1-21 Μῆνιν ἄειδε θεὰ Πηληϊάδεω Ἀχιλῆος οὐλομένην, ἣ μυρί’ Ἀχαιοῖς ἄλγε’ ἔθηκε, πολλὰς δ’ ἰφθίμους ψυχὰς Ἄϊδι προΐαψεν ἡρώων, αὐτοὺς δὲ ἑλώρια τεῦχε κύνεσσιν οἰωνοῖσί τε πᾶσι, Διὸς δ’ ἐτελείετο βουλή, ἐξ οὗ δὴ τὰ πρῶτα διαστήτην ἐρίσαντε Ἀτρεΐδης τε ἄναξ ἀνδρῶν καὶ δῖος Ἀχιλλεύς. Τίς τʾ ἄρ σφωε θεῶν ἔριδι ξυνέηκε μάχεσθαι; Λητοῦς καὶ Διὸς υἱός· ὃ γὰρ βασιλῆϊ χολωθεὶς νοῦσον ἀνὰ στρατὸν ὄρσε κακήν, ὀλέκοντο δὲ λαοί, οὕνεκα τὸν Χρύσην ἠτίμασεν ἀρητῆρα Ἀτρεΐδης· ὃ γὰρ ἦλθε θοὰς ἐπὶ νῆας Ἀχαιῶν λυσόμενός τε θύγατρα φέρων τ’ ἀπερείσι’ ἄποινα, στέμματ’ ἔχων ἐν χερσὶν ἑκηβόλου Ἀπόλλωνος χρυσέῳ ἀνὰ σκήπτρῳ, καὶ λίσσετο πάντας Ἀχαιούς, Ἀτρεΐδα δὲ μάλιστα δύω, κοσμήτορε λαῶν· Ἀτρεΐδαι τε καὶ ἄλλοι ἐϋκνήμιδες Ἀχαιοί, ὑμῖν μὲν θεοὶ δοῖεν Ὀλύμπια δώματ’ ἔχοντες ἐκπέρσαι Πριάμοιο πόλιν, εὖ δ’ οἴκαδ’ ἱκέσθαι·
L’ira canta, dea, del Peleiade Achille
mortifera, che innumerevoli agli Achei dolori cagionò
e molte forti anime all’Ade inviò di eroi, ed essi prede fece ai cani
e agli uccelli convito49, e di Zeus si compiva il consiglio, da quando primamente si separarono altercanti l’Atride re di uomini e il divo Achille.
E chi dunque essi degli dei in ira spinse a combattere? Di Leto e Zeus il figlio. Esso infatti al re adirato morìa per il campo eccitò mala, perivano i
popoli, per questo che il Crise oltraggiò sacerdote
Atride. Esso infatti venne alle veloci navi degli Achei riscattaturo la figlia e portando infiniti compensi, le bende av. nelle mani del lungisaettante Apollo sull’aureo bastone e supplicava tutti gli Achei, e specialm. i due Atridi, ordinatori di popoli: “Atridi e (voi) altri bengambierati Achei, a voi gli dèi diano le case olimpie abitanti distruggere di Priamo la città, e bene in patria
47 Nicola Festa aveva pubblicato una traduzione dell’Iliade nel 1924 e dell’Odissea nel 1926. 48
DUGHERA 1980, p. 40: «L’aspetto macroscopico e di maggior rilievo di questi due gruppi di traduzioni pavesiane è senz’altro l’estrema fedeltà al testo, la interlinearità assoluta, la trasposizione esatta senza nessun intervento esterno, dettata dal rispetto a oltranza per il testo stesso».