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La collaborazione con Rosa Calzecchi Onest

Pavese e la teoria della traduzione

3.1. La collaborazione con Rosa Calzecchi Onest

Fu proprio negli stessi anni in cui Pavese si esercitava a tradurre Omero che ebbe inizio la collaborazione di Rosa Calzecchi Onesti con l’Einaudi per la pubblicazione delle traduzioni dell’Iliade e dell’Odissea. A Pavese si deve la prima iniziativa: inizialmente propose infatti l’impresa a Untersteiner, e poi, sotto indicazione di quest’ultimo, a Calzecchi Onesti (che era allieva di Untersteiner)86. Dopo alcuni saggi di prova (sui quali torneremo in seguito), l’accordo formale venne raggiunto con una lettera di Pavese alla studiosa del 3 giugno 1948. Il ruolo di Pavese fu quello dunque di supervisore dell’intero progetto, che egli seguì con grande attenzione, discutendo con la traduttrice sia la problematica generale legata all’impostazione da dare alla traduzione, sia questioni particolari relative a singoli passi. Il documento nel quale Pavese riassunse nel modo più sistematico i criteri che avevano guidato questa impresa editoriale fu la Presentazione alla prima edizione (1950) della traduzione dell’Iliade87

. In essa si trovano in sintesi molti temi che erano stati in precedenza discusse nello scambio epistolare tra la traduttrice e lo scrittore88, con l’aggiunta di riferimenti culturali e letterari più precisi.

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Il 12 gennaio 1948 scrive infatti a Untersteiner: «[...] Adesso, una proposta. Da parte di Einaudi. È molto tempo che io sogno di veder stampata una versione quasi letterale, a verso a verso, andando a capo quando il senso è finito, dell’Iliade e dell’Odissea .Come i drammi elisabettiani tradotti da Piccoli per Laterza. Come i versetti di Spoon River di cui le mando un saggio. Ho reso l’idea? Che ne direbbe di pensarci lei e magari impegnarsi per farcela? O consigliarci, se le sue occupazioni non glielo consentono? [...]». Nella lettera successiva al professore (7 maggio 1948) Pavese commenta già il saggio di prova di Rosa Calzecchi Onesti.

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PAVESE 1950.

88 Lo scambio epistolare ci fornisce una visione esauriente dell’evoluzione del lavoro, giacché i due non

41 3.1.1. Iliade o Odissea? Una scelta culturale

La prima questione che si pose (ancora prima del modo di tradurre) fu la scelta di cosa tradurre. Nella stessa lettera in cui Pavese proponeva ufficialmente l’incarico alla grecista leggiamo infatti:

E ora la grossa questione. Iliade o Odissea? Idealmente Einaudi tenderebbe a farle entrambe, ma bisogna pur cominciare. Vige da mezzo secolo una spiccata preferenza per la seconda; e io personalmente - bastian contrario - direi perciò “Cominciamo dall’Iliade”. Con molta semplicità, lei rispondendo alla nostra lettera con la sua accettazione e controproposte, fissi quale dei due poemi intende tradurre. Einaudi le farà il regolare contratto89.

Una posizione analoga esprimerà nella Presentazione:

E di Omero non a caso riprendiamo prima di tutto l’Iliade. Noi siamo convinti che certa predilezione per l’Odissea è una scontata eredità pascoliano-crepuscolare, e mentre non siamo secondi a nessuno nell’ammirazione per l’avventura dell’“eroe navigatore”, vogliamo consapevolmente reinserirci nella tradizione millenaria che, accanto a un’Iliade fulgido sole meridiano, parla di un’Odissea, sole ancora “grande” ma già sul punto di tuffarsi nel mare.

Già in questa scelta dunque, Pavese si pone in polemica con la tradizione letteraria italiana, desiderando rifarsi piuttosto a quello che doveva essere il “gusto greco”. L’immagine del sole è senz’altro ripresa dal trattato Peri; u{youς, dove, al paragrafo I 9, 13 si legge: ὅθεν ἐν τῇ Ὀδυσσείᾳ παρεικάσαι τις ἂν καταδυομένῳ τὸν Ὅμηρον ἡλίῳ, οὗ δίχα τῆς σφοδρότητος παραμένει τὸ μέγεθος. La scontata eredità “pascoliano-crepuscolare” fa riferimento probabilmente alla fortuna di Ulisse nella Stimmung culturale del primo ’900: a partire dai

Poemi Conviviali90 la figura dell’«eroe navigatore» venne considerata il simbolo dell’uomo

naufrago alla ricerca di se stesso, privo di punti di riferimento stabili e costanti nel tempo. In questo senso le vicende di Odisseo si adattavano alle domande cui l’uomo moderno cerca di dare risposte ben più dell’epica guerriera dell’Iliade, e per questo il poema della guerra di Troia aveva avuto una fortuna minore nella cultura letteraria91. La preferenza per l’Iliade è frutto quindi, oltre che di un gusto personale, anche di una precisa posizione culturale. Probabilmente fu questa stessa predilezione a guidare Pavese nella scelta dei canti da tradurre: uno solo dall’Odissea (un canto in cui, per altro, sono frequentissimi i richiami a personaggi

89 Anche se non possediamo la risposta di R. Calzecchi Onesti, l’Iliade di fatto fu il primo dei due poemi a esser

pubblicato.

90 In particolare nei componimenti Il sonno di Odisseo e L’ultimo viaggio.

91 Emblema del valore simbolico assunto dal viaggio di Odisseo è, ad esempio, la poesia Itaca di Kavafis. La

citazione di Pavese del crepuscolarismo potrebbe anche alludere alla ripresa (pur fortemente ironica) della figura di Odisseo da parte di Gozzano, nella poesia L’ipotesi. A proposito della preferenza per l’Odissea all’interno della tradizione letteraria italiana si sono fatte diverse ipotesi: MORANI 1989, p. 262, parte dall’osservazione che le prime versioni dell’Iliade (XVII sec.) sono di un secolo successive a quelle dell’Odissea, e che il numero di traduzioni del primo dei due poemi fu sempre inferiore a quelle del secondo: responsabile di questo fu la versione del Monti che, considerata insuperabile, bloccò sul nascere i nuovi tentativi. CHIRICO 1998, p. 150, fa notare come la diversa fortuna dei due poemi fosse già intuibile in nuce nella scelta di Livio Andronico di tradurre l’Odissea piuttosto che l’Iliade. Riprende poi l’ipotesi di BOITANI 1994, secondo cui il merito del grande favore attribuito a Odisseo e alle sue vicende va attribuito all’episodio del poema dantesco di cui l’eroe è protagonista.

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ed episodi dell’Iliade, trattandosi della Nekuia e quindi dell’incontro con eroi e personaggi già morti e appartenenti alla vita di Odisseo prima del novstoς) e quattro dall’Iliade92.

3.1.2. La polemica su Monti, Pascoli, Romagnoli

Poste queste premesse, la polemica di Pavese contro la precedente tradizione (in particolare quella montiana) si rivela uno degli elementi chiave per comprendere le ragioni delle scelte particolari dell’autore. Le tracce di questa polemica sono numerosissime, tanto nelle lettere quanto nella Presentazione: a livello generale Pavese individua proprio in questo genere di traduzioni la causa della “sfortuna” di Omero. L’incipit della Presentazione lo dimostra:

Che da noi Omero sia più un nome che una lettura, è innegabile. Se ne studiano e analizzano lunghi episodi sui banchi della scuola nelle neoclassiche versioni che tutti sanno, ma non è una lettura. È magari qualcosa di più - un rito, una festa, un’investitura solenne - non è l’inizio di una consuetudine intima e civile come, qualche anno più tardi, la scoperta dei romanzi russi o francesi, o perché no? di quelli americani. Omero è letto, se possibile, anche meno dei classici italiani. Ora noi siamo convinti che questo fatto ha soprattutto due cause. L’usanza di farlo leggere ai ragazzi (che ci si divertono assai ma, finita la scuola inferiore, non ne sentono più seriamente parlare) avvezza costoro a considerarlo quasi un libro di fiabe, d’infanzia: più o meno quello che avviene per Robinson, Gulliver o Don Chisciotte. Quest’è la prima causa. La seconda è che le poetiche versioni - anche le più recenti - in cui esso viene presentato al lettore ne fanno sostanzialmente un classico italiano minore, con tutte le limitazioni e spiacevolezze che questo fatto comporta. È una scoperta quasi banale, ma la fanno tutti coloro che preparano per un esame un canto dell’Iliade o dell’Odissea sul testo greco: chi l’avrebbe detto che Omero è così oggettivo, così schietto, così immediatamente “parlato” e quasi somiglia più ai narratori neorealisti che non alle sue traduzioni correnti?

È evidente dunque come per Pavese sia indispensabile rivoluzionare il modo di tradurre Omero perché esso venga nuovamente apprezzato nel panorama letterario italiano. Anche nelle lettere a Untersteiner, a Rosa Calzecchi Onesti e ad altri ribadisce più volte questo intento di fondo. A Mario Untersteiner, dopo aver letto i primi saggi della traduzione, scrive93: «Caro professore, mi pare che il saggio di Calzecchi sia notevole. La retorica neo- classica delle passate versioni omeriche è passabilmente sfrondata. Naturalmente in queste cose non se ne ha mai abbastanza»; o alla stessa Calzecchi Onesti94: «Gentile signorina, abbiamo ricevuto e letto il nuovo saggio e io personalmente ne sono incantato. Stavolta è scomparso anche quel tanto di politezza neoclassica che ancora restava nel saggio dell’Odissea». Infine, nel corso della stesura del testo Pavese ribadirà i criteri di fondo, quando il 29 novembre 1949 scrive ad Emilio Cecchi: «Lei vedrà dal tono qual è stato il

92 In realtà Pavese intendeva anche la scelta di pubblicare una traduzione di Omero (indipendentemente dalla

preferenza per uno dei due poemi) come una rottura con la «civiltà letteraria» degli anni precedenti. Scrive infatti nella presentazione: «Non è un caso che proprio adesso, in questo dopoguerra, si riprenda Omero, dopo lo sprezzante trattamento che ai tempi dell’ermetica “civiltà letteraria” (verso il 1939) ne fecero da noi voci autorevoli di quella scuola, voci che gli andavano anteponendo non si sa quale genere “puro” di lirica e di lirici». Il riferimento è qui probabilmente a Salvatore Quasimodo che nel 1940, come è noto, pubblicò le sue traduzioni di Lirici greci. Tuttavia lo stesso Quasimodo, nel 1945, pubblicò anche la traduzione di alcuni brani dell’Odissea.

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Lettera del 7 maggio 1948.

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criterio che ha guidato l’impresa - evitare il neoclassico, montiano o pascoliano che fosse, ed evitare la vile prosa...»95. Risulta evidente che le traduzioni contro le quali si appuntava la polemica di Pavese erano quella di Monti e quella di Pascoli. Nella Presentazione del ’50 Pavese aggiunge ai suoi idoli polemici anche Ettore Romagnoli:

Com’era possibile travasare tutto ciò [scil. alcune caratteristiche dei poemi omerici] in un neoclassico linguaggio esemplato sull’imitazione di un’imitazione (dal Monti, attraverso il Caro, a Virgilio)? Ma nemmeno i tentativi fin de siècle parnassiano-decadenti (esemplati, come sono, sull’imitazione di un’altra imitazione, e questa soltanto analogica - dal Pascoli, dal Romagnoli, attraverso le Odi barbare, a Orazio) potevano uscire dall’equivoco.

Gli accenni di Pavese ai difetti delle precedenti traduzioni sono alquanto brachilogici. Rispetto a Monti (che, tra il 1807 e il 1825 lavorò assiduamente alla traduzione dell’intera

Iliade) la distanza è inequivocabole tanto nella teoria quanto nella pratica. Per quanto riguarda

le posizioni teoriche, un utile documento è costituito dal saggio di Monti Sulla difficoltà di

ben tradurre la protasi dell’Iliade, pubblicato da Foscolo nel 1807 in appendice al suo Esperimento di traduzione della Iliade di Omero. Monti infatti parte da una proposta di

traduzione piuttosto letterale del primo verso del poema («L’ira, o Dea, canta del Pelide Achille») per chiedersi: «Nel circuito di questo verso racchiudesi esattamente quello d’Omero. Ma ne conserva egli la bellezza e la dignità96

? ». La risposta è chiaramente negativa ed egli, per giustificare la preferenza accordata a «bellezza e dignità», scrive, tra le altre cose: «e quando si traduce non è più la lingua del tradotto, a cui si debbano i primi riguardi, ma quella del traduttore97». È evidente come questa posizione sia antitetica rispetto a quella di Pavese. Più avanti afferma anche:

Dal fin qui detto, ogni nostro scrittore, che ben intenda l’indole della sua lingua [...] ogni italiano, io dico, che non voglia rendersi traditore della sua lingua, sentirà l’importanza di dare al pensiero la più lucida e libera veste che sia possibile, onde corra spedito, e si apra la via nel santuario dell’anima senza farne stridere le porte; intendo dire senza lacerazione d’orecchi. La lingua italiana (e parlo precipuamente della poetica) è la Giunone d’Omero. Grandi occhi, forme maestose, incesso regale e paludamento di porpora. La degraderebbe il velo lascivo di Taide, ma la deturperebbe l’ispido sajo di Diogene; e i nostri padri ci hanno lasciata immensa ricchezza di finissime lane per ben vestirla.

In questo modo giustifica dunque la scelta di un lessico aulico allo scopo di giungere «all’anima» dei lettori senza infastidirli, e con motivazioni analoghe spiegherà la scelta di un endecasillabo dal ritmo regolare98. Anche la prassi del “gran traduttor dei traduttor d’Omero”

95

In una lettera dello stesso giorno, Pavese scrive alla Calzecchi Onesti di «evitare insomma di ricadere nel

ronron montiano».

96

MONTI 1807, p. 90.

97 M

ONTI 1807, p. 91.

98 Scrive infatti (anche per giustificare il fatto che, nella sua traduzione, ad un verso greco corrisponda più di un

verso italiano): «Ma io e per la coscienza della mia debolezza, e per quell’odio mortale che Virgilio mi ha ispirato contro il verso privo di numero e pel timore che gli orecchi italiani non mi sappiano perdonare al primo aprire di bocca un’intonazione viziosa con una lingua tutta armonia, io lascierò gridare la logica, considerando che la poesia non è tutto affar di ragione, ma di ragione e di senso nel tempo stesso, e seguendo la voluttà dell’orecchio darò bando al verso in contrasto, ricordandomi le brutte bocche di Minerva che suona la piva. Ma la natura dell’endecasillabo italiano più assai ristretto che l’esametro greco e latino non consente che ira, canta e

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era quanto di più lontano dal confronto diretto col testo greco seguito da Pavese e da Calzecchi Onesti99. Scrive a questo proposito la Balbi100:

In complesso il Monti non sentiva un’istanza filologica nella sua opera di traduttore, e se si appellava all’autorità di illustri filologi101

, lo faceva per garantire alla sua traduzione un’elementare fedeltà ed aderenza alla struttura, per così dire superficiale, del testo, raramente per penetrarne la realtà poetica. La filologia e l’informazione erudita lo soccorrevano per riprodurre le idee e i concetti dell’antico poema, ma restavano fondamentalmente estranee alla sua realizzazione artistica. Tale realizzazione è affidata ad una sensibilità e ad un gusto, del tutto svincolati da ogni freno e da ogni preoccupazione filologica. Il Monti ricanta Omero seguendo “la voluttà dell’orecchio e dell’immaginazione” [...].

Da quest’insieme di elementi appare evidente come Pavese non potesse che considerare la traduzione di Monti un modello “negativo” rispetto al quale differenziarsi: è logico quindi che egli tendesse a definire gran parte delle qualità che si attendeva dalla versione di Calzecchi Onesti come opposte a quelle montiane. Del resto già altri traduttori, prima di Pavese, avevano preso nettamente le distanze dalla traduzione neoclassica102. Uno di questi fu Pascoli, al quale tuttavia Pavese non avrebbe poi risparmiato critiche.

Dal punto di vista dell’atteggiamento rispetto al testo greco (studio diretto, rispetto delle caratteristiche anche stilistiche) la sensibilità di Pascoli fu senz’altro più vicina a quella di Pavese che a quella di Monti. Nella prolusione La mia scuola di grammatica103 tenuta all’Università di Pisa nel 1903 in occasione della sua nomina a professore ordinario di Grammatica greca e latina, Pascoli enunciò alcune posizioni teoriche relative alla traduzione dei classici. Egli sostenne che per tradurre non bastasse rendere in italiano i concetti espressi nel testo greco, ma che ci fosse bisogno di rispettare anche il tono e le caratteristiche linguistiche e stilistiche dell’originale. È quindi evidente che la preoccupazione di non tradire il testo originale avvicina Pascoli a Pavese, e sembra quasi che Pascoli sostenga che ad un livello superiore di traduzione si giunga solo col rendere verbum verbo. Leggiamo infatti:

Dea col resto del Pelide Achille si conservino dentro i confini d’un solo verso senza cadere in quella spiacente

monotonia. Parmi adunque indispensabile cosa il disgiungere queste tre idee [...]». Anche su questo punto, quindi, la posizione di Pavese è del tutto inconciliabile con quella di Monti. Curiosa, ai nostri fini, è anche la critica che muove alla traduzione di Scipione Maffei: «[...] Non comprendo poi il perché del Peliade invece del

Pelide. Forse il Maffei l’avrà messa per mutar qualche cosa al verso Salviniano copiato di netto, o piuttosto per

grecizzare. Ma Pelides dissero sempre tutti i latini, e Pelide gli eredi legittimi dei latini, i poeti italiani come Alcide, Atride, Titide da Alceo, Atreo, Tideo e via discorrendo»: una critica ante litteram ai “grecismi grafici” di Pavese.

99 Sui modelli usati da Monti per sopperire alla propria scarsa conoscenza del greco, di veda B

ALBI 1962, cap. 2.

100

BALBI 1962, p. 97.

101

Il riferimento qui è alla sua corrispondenza con Mustoxidi e Visconti, grecisti cui Monti chiese continuamente suggerimenti per la sua traduzione.

102 Anche rispetto agli epiteti, aspetto del testo omerico cui Pavese dedicava una grande attenzione, le traduzioni

sono antitetiche: scrive sempre la Balbi (op. cit., p. 99) a proposito di Il. VI 442, αἰδέομαι Τρῶας καὶ Τρῳάδας ἑλκεσιπέπλους, tradotto, dopo varie modifiche, con «Ma de’ Troiani io temo/ fortemente lo spregio, e dell’altere/ Troiane donne»: «È qui evidente e afferrabile nel suo sviluppo quel significativo spostamento, dagli epiteti omerici, che fissano uomini e cose nelle loro qualità di immediata e fantastica evidenza, all’aggettivazione montiana, frutto della tradizione letteraria latina e italiana, e più incline alle qualificazioni di natura psicologica che descrittiva».

103 P

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C’è traduzione e c’è interpretazione: l’opera di chi vuol rendere e il pensiero e l’intenzione dello scrittore, e di chi si contenta di esprimere le proposizioni soltanto; di chi vuol far gustare e di chi cerca soltanto di far capire. Quest’ultimo, il fidus interpres, non importa che renda verbum verbo: adoperi quante parole vuole, una per molte, e molte per una; basta che faccia capire ciò che lo straniero dice. [...] Ma all’interpretazione, nella scuola, deve tener dietro la traduzione: ossia il morto scrittore di cui è morta la gente e la lingua, deve venire innanzi e dire nella nostra lingua nuova, dire esso, non io o voi, il suo pensiero che già espresse nella sua lingua antica. Dire esso a modo suo, bene o men bene che dicesse già: semplice, se era semplice, e pomposo se era pomposo, e se amava le parole viete, le cerchi ora, le parole viete, nella nostra favella, e se preferiva le frasi poetiche, non scavizzoli ora i riboli del parlar della plebe. Saranno essi ben altro nelle nostre, di quel che nelle loro pagine: oh! sì, morti spesso o sempre, invece che vivi; ombre e non corpi; ma le ombre assomigliano ai corpi perfettamente; le ombre come degli eroi così dei poeti conservano nell’Elisio gli stessi gusti che avevano in terra. Se vogliamo evocarli nella nostra lingua, essi, quando obbediscano, vogliono essere e parere quel che furono; e noi non solo non dobbiamo menomarli e imbruttirli, ma nemmeno (quel che spesso ci sognamo di fare) correggerli e imbellezzirli; come a dire, togliere a Omero gli aggiunti oziosi di cantore erede di cantori [...]. Ognuno faccia indovinare, se non sentire, le predilezioni che ebbe da vivo, quanto a lingua e a stile e a numero e a ritmo.

Il desiderio di far rivivere l’autore nel modo più fedele possibile, il rispetto dello stile del testo tradotto (e si noti il riferimento all’aggettivazione omerica, aspetto che risultava piuttosto trascurato nella traduzione di Monti) erano senza dubbio atteggiamenti che coincidevano con quello che sarà l’orientamento di Pavese104

: da quanto lo stesso Pavese scrive, si evince infatti che la distanza che lo separava da Pascoli si misurava non tanto su istanze teoriche, quanto su una questione più prettamente tecnica, cioè la posizione rispetto alla resa metrica. La scelta di creare un esametro italico, sulla scorta degli esperimenti metrici nelle Odi barbare di Carducci, fu uno degli aspetti più rivoluzionari delle traduzioni di Pascoli. È lui in persona a dare a questa scelta una posizione centrale nell’elaborazione teorica sulla traduzione, quando nella Prolusione scrive:

Io non farò che tradurre. Ma che è tradurre? Così domandava poco fa il più geniale dei filologi tedeschi; e rispondeva: «Il di fuori deve divenire nuovo; il di dentro restar com’è. Ogni buona traduzione è un mutamento di veste. A dir più preciso, resta l’anima, muta il corpo; la vera traduzione è metempsicosi» [...] Il fatto è che per noi il problema del tradurre non è così semplice. E poi, quanto a metempsicosi, è giusta (almeno per questo proposito del tradurre) la distinzione di corpo e d’anima? Non è giusta. Mutando corpo, si muta anche anima. Si tratta, dunque, non di conservare all’antico la sua anima in un corpo nuovo, ma di deformargliela meno che sia possibile; si tratta di scegliere per l’antico la veste nuova, che meno lo faccia parere diverso e anche ridicolo e goffo. Dobbiamo,

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