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La casa in collina: un’Iliade dei nostri temp

Pavese e l’Iliade: solo una traduzione?

4.1. La casa in collina: un’Iliade dei nostri temp

L’indizio più rilevante di un effettivo contatto tra Pavese studioso dell’antichità e Pavese scrittore deriva dall’accostamento che egli propone tra il suo romanzo La casa in collina e l’Iliade. Il riferimento più esteso si trova nella lettera del primo marzo 1950 a Rino Dal Sasso. Il destinatario aveva recensito La bella estate per l’“Unità” del 25 febbraio, partendo da un confronto con La casa in collina, uno degli ultimi racconti pubblicati. Dal Sasso, pur definendo il romanzo sulla Resistenza come «uno dei volumi di narrativa più interessanti del secondo dopoguerra», criticava l’atteggiamento di Pavese rispetto allo scontro ideologico tra partigiani e fascisti. Scrive infatti:

Il tema stesso, la reale e psicologica “carcerazione” dell’intellettuale, che non riesce per invincibile “viltà” a partecipare alla vita degli altri uomini e soprattutto a partecipare alla lotta di liberazione, che pure intellettualmente accetta, aveva un significato molto vasto. Narrava la storia di molta parte della generazione di intellettuali a cui Pavese stesso appartiene: la grande assente dalla storia del paese. Si trattava certo, ancora, come è più evidente nel secondo di quei racconti, “La casa in collina”, di un atto di sincerità, quasi di una confessione e quindi di una narrativa stretta in limiti romantici, autobiografici. La vita degli operai, delle donne e dei vecchi di umile origine che sulle colline torinesi, d’istinto, dopo l’8 settembre, organizzano la lotta clandestina, era narrata di riflesso: aveva bisogno, per esistere, di quello schermo autobiografico “negativo”, aveva rilievo in rapporto alla confessata viltà del protagonista. Sì che la loro medesima lotta, il senso della loro vita, nella “morale” di Corrado a un certo punto stavano alla pari con la lotta dei fascisti. La viltà di Corrado diventava viltà in assoluto. Per lui il sangue di entrambi, partigiani e fascisti, ha il medesimo valore di accusa. Il volume si chiudeva dunque su questo fondamentale equivoco, e con una romantica lamentela della propria solitudine.

La critica di Dal Sasso era quindi centrata sull’aspetto autobiografico del romanzo, e rilevava il valore generazionale del personaggio di Corrado: è chiaro quindi che in una chiave di lettura puramente storica l’equivalenza del «sangue» di partigiani e fascisti risultava

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CAVALLINI 2010, pp. 114 s.

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Pavese considerava i suoi ultimi quattro romanzi (La casa in collina, Il diavolo sulle colline, Tra donne sole,

La luna e i falò) come il risultato dell’avvenuta sintesi tra “naturalismo” e “simbolismo”: nella pagina del 26

novembre 1949 del Mestiere di vivere classifica infatti la sua intera produzione sotto diverse categorie, e mentre per i romanzi del ’47 (Dialoghi con Leucò e Il Compagno) usa l’espressione «gli estremi, naturalismo e simbolo staccati», per i quattro successivi scrive semplicemente «realtà simbolica».

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inaccettabile175. Pavese, nella lettera con cui replica alla recensione, rileva come in realtà la lettura storica e sociale portata avanti da Dal Sasso non sia sufficiente:

Dunque è esatto che l’assunto dei tre racconti (Casa in coll., Diavolo sulle coll., Tra donne) sia una particolare situazione borghese d’impasse. Il tuo giudizio sulla maggiore o minore nettezza di condanna morale (o storica addirittura) con cui è visto questo mondo, è legittimo. Ma la grossa questione è che questo tuo giudizio tende a escludere dall’arte ogni tema tragico. Devi ammettere che, se si rappresentano posizioni di disagio entro la realtà, a queste posizioni va fatta piena giustizia - vanno ciò viste in tutta la loro positività di ragioni umane.

Il discorso è particolarmente sentito da Pavese per le riflessioni di Corrado nel finale de La

casa in collina:

Quanto alla giovane suicida [scil. Rosetta di Tra donne sole] e ai fascisti giustiziati, qui il caso è diverso [scil. rispetto ai temi simboleggiati in Clelia di Tra donne sole e nei tre giovani di Il diavolo sulle colline]. O scriviamo tragedia o non la scriviamo. Se sì dobbiamo pure consentire al villain (o vittima, secondo i casi) la pienezza della sua sofferenza, la positività di questa, e inoltre non dimenticare che, come ci insegna l’Iliade, la guerra è triste cosa, anche e soprattutto perché bisogna uccidere i nemici. Che ciò non deva indebolire il nostro braccio è sacrosanto, ma in genere i migliori combattenti sono proprio quelli che si rendono conto di questa tragica necessità.

Pavese quindi inserisce la vicenda e i giudizi di Corrado in una dimensione “tragica”, che trascende la particolare situazione storica e, per avvalorare la sua posizione, si rifà proprio all’Iliade, dalla quale trae una lezione universale sulla sofferenza causata dalla guerra. Su questa riflessione si tornerà in seguito, ma in generale l’affermazione di Pavese ci permette di accostare il romanzo La casa in collina al poema omerico, soprattutto se si pensa che, sulla copia donata a Rosa Calzecchi Onesti, Pavese scrisse la dedica «La mia piccolissima

175Dal Sasso non fu l’unico a leggere il romanzo in termini strettamente autobiografici e politici. Molte delle

recensioni dell’epoca andarono in questa direzione; si vedano per esempio Bigiaretti per “Mondo operaio” del 27 gennaio 1949, Ferrata per l’“Unità” del 9 Febbraio 1949, Bonfantini per la “Gazzetta del Popolo” di Torino del 26 aprile 1949. Una panoramica delle recensioni è offerta da MESIANO 2007, pp. 299-305, dove si trovano anche riassunti gli interventi più significativi. Pavese mostrò di non gradire affatto la reazione esclusivamente politica al suo romanzo. A Emilio Cecchi, che aveva recensito il volume sull’“Europeo” (16 gennaio 1949), concentrandosi proprio sulla capacità di Pavese di scrivere di eventi recenti senza farsi trascinare dalla vicinanza e dall’attualità delle vicende narrate, Pavese scrisse il giorno successivo: «L’inevitabile piano politico su cui la discussione del mio libro sta precipitando, mi fa rilevare la sua discrezione. Vorrei che tutti avessero la sua mano, e non accadesse di vedermi adoperato per dimostrare che ormai tra fascisti e patrioti c’è parità morale. Quest’è un po’ forte. Ma la perenne, quotidiana scoperta che si fa qui in Italia è ‘Quanto sono stato ingenuo!’». La critica non ha rinunciato a questa chiave di lettura neanche negli anni successivi: GUIDUCCI 1956-1957, p. 994, afferma: «Al di sopra dell’autobiografismo [...] usciva, con fermezza e con dolore pacato, il dramma di una generazione che sulla propria solitudine ripiegò contemplativamente osservando accadere cose più grandi di sé». Lajolo, ne Il vizio assurdo (p. 285) scrive: «Qui l’uomo è tutt’uno con lo scrittore...». PROSIO 1995 sottolinea tutte le analogie tra i fatti narrati nel romanzo e le reali vicissitudini dell’autore. Infine, ancora più recentemente, LIUCCI intitola il suo saggio del 1999, dedicato alla mancata partecipazione degli intellettuali alla Resistenza, La

tentazione della “casa in collina”: il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana (1943-1945). Nel

capitolo dedicato a Pavese afferma (pp. 26-27): «La casa in collina è pensata, nasce e prende forma in questa particolare condizione ambientale: quella di un intellettuale passato attraverso il fascismo senza sviluppare quel progressivo senso di distacco critico che porterà molti suoi compagni di strada ad un più rapido ripudio dell’iniziale consenso [...]. Il romanzo in questione è la presa d’atto, mediata dalla finzione letteraria, della tragica impotenza di un intellettuale che recisamente rifiuta la storicità della condizione umana, e volontariamente si sottrae ad un ruolo, uno “statuto storico”, imposto dall’esterno e non accettato sua sponte».

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Iliade176». È quindi lecito supporre che il modello epico fosse in qualche modo in grado di influenzare la scrittura narrativa di Pavese; oltre alle dichiarazioni dell’autore e all’evidente contiguità dei temi, lo si può dedurre anche dal fatto che, come si è già accennato, per il manoscritto del romanzo (la cui stesura andò dal settembre 1947 al febbraio 1948) era stato utilizzato il retro delle bozze del saggio Dai romantici a Hitler. Sul retro di queste stesse bozze venne scritta la traduzione del libro XV dell’Iliade: la contiguità cronologica dei due lavori è quindi abbastanza sicura, e rende plausibile la suggestione esercitata dallo studio dei poemi omerici sulla narrazione. Si possono individuare tracce di questa influenza, a mio avviso, a due diversi livelli: da un punto di vista strettamente stilistico, in alcune novità della scrittura e, da un punto di vista tematico, nel messaggio conclusivo dell’opera.

4.1.1. Una sintassi e uno stile “omerici”?

La peculiarità e la novità dello stile de La casa in collina sono state rilevate da diversi studiosi. Ad esempio Luisa Palpacelli, concentrandosi sull’analisi sintattica e stilistica del romanzo, rileva come l’esigenza di descrivere una realtà «immediata, quotidiana, rugosa» porti a una «rappresentazione oggettiva dell’opera, la quale si sostanzia di un linguaggio antiretorico, antiletterario, vivo, che del parlato vuole rendere l’espressività, la concretezza, la concisione177». Il termine di paragone per il linguaggio pavesiano diventa dunque la dizione orale e, a questo proposito, la studiosa cita proprio «le canzoni di gesta» perché caratterizzate da una serie di elementi comuni anche allo stile de La casa in collina178. Così il periodare

breve, la rinuncia a costruzioni sintattiche auliche, l’ampio uso della paratassi, che però non implicano l’assenza di raffinati accorgimenti letterari, sono la cifra dello stile di questo romanzo. Anche Elisabetta Soletti179, attraverso lo studio delle varianti nel manoscritto de La

casa in collina, ha rilevato come gli interventi di Pavese muovano sempre «dal ricco al

disadorno, dal letterariamente marcato, dal prezioso e ricercato, allo scarno, al sobrio, all’essenziale180

». Così Pavese tende a eliminare l’«alone» di commento o di giudizio intorno ai fatti, e a lasciare la nuda enunciazione dell’evento. Vengono poi sfoltiti i riferimenti personali e, a livello sintattico, i costrutti ipotattici tendono a diventare paratattici (in generale prevalgono i «raccordi subordinativi deboli») e al polisindeto viene preferita la giustapposizione di frasi181. Soletti rileva poi come questo non comporti un abbassamento del livello dell’opera, ma che, al contrario:

La scommessa di Pavese di esprimere contenuti concettuali e simbolici molto densi con mezzi espressivi ‘poveri’, ma per ciò stesso più duttili e più disponibili ad essere vettori di grande pregnanza stilistica, raggiunge il risultato di offrire un esempio di prosa di raffinata letterarietà e nel contempo eccezionalmente composita e varia.[...] Anche questo comportamento [scil. la riduzione di tutti i verbi fatici al semplice “dire”] va sotto il segno della ‘monotonia’ e dell’essenzialità del discorso narrativo pavesiano.

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Così afferma la traduttrice nella lettera a Calvino del 6 maggio 1964, riportata daNERI 2007, p. 444.

177

PALPACELLI 1990, p. 220.

178 P

ALPACELLI 1990, p. 223.

179

Elisabetta Soletti ha curato la Nota linguistica all’interno di PAVESE 2000, pp. 1148-1176.

180

PAVESE 2000, p. 1159.

181 P

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Lo sforzo di Pavese va quindi nella direzione di una narrazione sobria, impreziosita tuttavia dal’uso consapevole di alcune tecniche letterarie, e che non rinuncia a convogliare significati che vadano oltre la semplice descrizione della vicenda. Queste caratteristiche sono tipiche, come sottolinea Palpacelli, della narrazione orale e delle «canzoni di gesta»: se è vero in generale che la canzoni di gesta assorbono molte caratteristiche del dettato orale, ciò sarà vero, a maggior ragione, nel caso dell’epica omerica, in virtù della sua peculiare origine rapsodica. Del resto si è visto come lo stesso Pavese riscontrasse tratti caratterizzanti non dissimili all’interno del dettato omerico (da una parte l’obiettività, quasi «neorealista», della composizione, ma dall’altra la sua natura profondamente letteraria) e come tentasse di metterli in risalto nelle sue traduzioni, insistendo poi perché Rosa Calzecchi Onesti vi prestasse a sua volta attenzione. È possibile quindi che, in una certa misura, Pavese avesse assorbito la “lezione stilistica” dell’epica e che, per la sua personale narrazione di guerra, avesse cercato di applicarla all’interno di un genere completamente diverso, cioè il romanzo moderno italiano182.

La parte forse più interessante, a questo proposito, è il finale dell’opera (i capitoli XXII e XXIII) dove, come si vedrà, anche dal punto di vista tematico il “filtro” dei classici è stato rilevato come più evidente. È possibile infatti che il particolare gusto di Omero per la descrizione dettagliata e realistica delle ferite di guerra abbia ispirato una delle pagine più cruente del racconto e della produzione pavesiana nel suo insieme. La narrazione è a un punto di svolta, perché l’incontro del protagonista Corrado con la guerra avviene qui per la prima volta; alla fine del capitolo XXI, infatti, Corrado si trova, suo malgrado, nei pressi di uno scontro tra un camion pieno di fascisti e una pattuglia di partigiani. All’inizio del capitolo successivo, uscito dal suo nascondiglio, Corrado arriva sul luogo dell’assalto e constata la disfatta totale dei repubblichini. La narrazione procede così:

Quando giunsi cautamente alla svolta, vidi il grosso autocarro. Lo vidi fermo, vuoto, per traverso. Una colata di benzina anneriva la strada, ma non era soltanto benzina. Lungo le

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A questo si aggiunga che è stata rilevata, all’interno del testo, la significativa presenza di unità metriche dissimulate, che comportano un effetto di prosa ritmata: anche questo ricorda, in un certo senso, le osservazioni di Pavese sulla cadenza omerica. Cfr. GHIO 1972. Già Untersteiner, nella recensione ai Dialoghi con Leucò, aveva osservato il ritmo poetico della prosa di Pavese, che rivelava «quel brivido trasformatosi in limpido fluire lirico» (UNTERSTEINER 1947, p. 345). Nello stesso periodo in cui Pavese scriveva La casa in collina si trovano, del resto, diverse riflessioni sullo stile all’interno del Mestiere di vivere che confermano l’esigenza di “obiettività” dell’autore. Nell’intervento del 10 gennaio 1948 (che prende spunto dalla lettura di L. Rusu, Essai

sur la création artistique, Alcan 1935) scrive: «La tua esigenza di conservare alla parola la sua linea parlata, la

sua legittimità espressiva, la sua materialità. Giacché l’arte non è altro che sfruttare la materialità dei mezzi (suoni, marmi, colori ecc.) per cavarne espressione, senza violare le leggi di questa materialità». Pochi giorni dopo Pavese individua proprio nella letteratura greca la massima vicinanza al parlato, e lamenta l’impossibilità per le opere contemporanee di riprodurre questo modus scribendi (16 gennaio 1948): «I Greci hanno creato la

recitazione, i Latini la letteratura (Cfr. Bérard e Snell) [...]. Narratori greci sono stati soltanto gli storici

(Erodoto, Tucidide), e anche Erodoto componeva per leggere alle Olimpiadi. Omero veniva declamato, i lirici cantati, i tragici recitati, gli oratori pronunciati, la filosofia discussa. Sempre la voce e il gesto. Il narrare, che è un dilungarsi sulla pagina in mezzo alle cose e agli eventi, lo inventarono i Latini coi poemi, i romanzi, le storie, benché anche in loro durasse la concezione oratoria, per esempio, della storia. La celebre naturalezza dei Greci nasce dall’uso di un linguaggio parlato, in senso proprio. Non si può parlare in modo non naturale; si sentirebbe subito la stonatura con l’attore, il parlatore in carne e ossa. Il linguaggio letterario, composito, si ha soltanto quando il discorso viene filtrato e disumanato, spersonalizzato, sulla pagina scritta. La tendenza contemporanea a narrare in prima persona è un inconscio conato verso la naturalezza che però vuole restare pagina, racconto, non gesto. È un modo di rimbarbarirsi, il solo consentito ora giacché il teatro sa, da noi, troppo di schema accademico».

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ruote, davanti alla macchina, erano stesi corpi umani, e via via che mi avvicinavo la benzina arrossava. Qualcuno in piedi, donne e prete, s’aggirava lì intorno. Vidi sangue sui corpi.

Uno - divisa grigioverde tigrata - era piombato sulla faccia, ma i piedi li aveva ancora sul camion. Gli usciva il sangue col cervello da sotto la guancia. Un altro, piccolo, le mani sul ventre, guardava in su, giallo, imbrattato. Poi altri contorti, accasciati, bocconi, d’un livido sporco. Quelli distesi erano corti, un fagotto di cenci. Uno ce n’era in disparte sull’erba, ch’era saltato dalla strada per difendersi sparando: irrigidito ginocchioni contro il fildiferro, pareva vivo, colava sangue dalla bocca e dagli occhi, ragazzo di cera coronato di spine.

È notevole la coincidenza per cui proprio uno dei canti tradotti da Pavese (il quinto) contenga alcune fra le descrizioni più vivide di ferite mortali, ferite che riducono i corpi in condizioni non troppo diverse da quelle dei cadaveri dei repubblichini (al di là delle ovvie differenze dovute alla diversità delle armi usate). Così, ad esempio, il primo cadavere descritto da Pavese, ferito al cranio183

, ricorda la descrizione della morte di Pèdeo (vv. 72-75):

τὸν μὲν Φυλεΐδης δουρικλυτὸς ἐγγύθεν ἐλθὼν βεβλήκει κεφαλῆς κατὰ ἰνίον ὀξέϊ δουρί· ἀντικρὺ δ’ ἀν’ ὀδόντας ὑπὸ γλῶσσαν τάμε

χαλκός· ἤριπε δ’ ἐν κονίῃ, ψυχρὸν δ’ ἕλε χαλκὸν ὀδοῦσιν.

Lui il Fileide celebre lancia vicino venuto

ebbe colpito del capo alla nuca con l’acuta lancia: di contro attraverso i denti sotto la lingua tagliò il bronzo: precipitò nella polvere, il freddo prese bronzo coi denti184.

Anche la posizione del militare repubblichino (con i piedi ancora sul camion ma il volto a terra) ricorda la posizione di una delle vittime del canto, Midone, lo scudiero di Pilemene (vv. 584-587):

Ἀντίλοχος δ’ ἄρ’ ἐπαΐξας ξίφει ἤλασε κόρσην· αὐτὰρ ὅ γ’ ἀσθμαίνων εὐεργέος ἔκπεσε δίφρου κύμβαχος ἐν κονίῃσιν ἐπὶ βρεχμόν τε καὶ ὤμους. δηθὰ μάλ’ ἑστήκει· τύχε γάρ ῥ’ ἀμάθοιο βαθείης..

Antiloco assalendo con spada trafisse la tempia ed egli ansimando dal ben costrutto cadde carro prono nella polvere sulla fronte e le spalle. A lungo molto stette, trovò infatti polvere

profonda185... Il particolare del cervello, poi, ricorda diversi passi omerici in cui vengono descritte ferite che hanno come esito la fuoriuscita di materia cerebrale con formule ricorrenti: Il. XI 96-98, Il. XII 183-186, Il. XX 397-400. A Il. XVII 294-298 viene descritto il cervello che fuoriesce

183

A proposito del punto dal quale il morto sanguina, nel manoscritto troviamo le varianti «dalla testa» e «da sotto la faccia». Cfr. PAVESE 2000, p. 997.

184 Le traduzioni sono quelle di Pavese. Le carte sulle quali è tradotto il canto V sono contrassegnate sul portale

“Hyperpavese” come AP VI.5. Si tratta di fogli sciolti scritti sul recto e sul verso e numerati da Pavese sul recto. I vv. 72-75 si trovano sul foglio 2v.

185 Il testo greco descrive una posizione in realtà diversa da quella resa nella traduzione pavesiana. Il termine

κύμβαχος descrive un corpo che rimane incastrato «a testa in giù», come traduce Calzecchi Onesti, nella sabbia profonda. La traduzione «prono» non è dunque particolarmente appropriata, e il fraintendimento dell’immagine suggerisce l’accostamenteo alla situazione del repubblichino. La traduzione si trova al foglio 15r del faldone AP VI.5.

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dalla ferita insieme al sangue (in modo analogo a quanto avviene nel brano di Pavese): πλῆξ’ αὐτοσχεδίην κυνέης διὰ χαλκοπαρῄου·/ ἤρικε δ’ ἱπποδάσεια κόρυς περὶ δουρὸς ἀκωκῇ/ πληγεῖσ’ ἔγχεΐ τε μεγάλῳ καὶ χειρὶ παχείῃ,/ ἐγκέφαλος δὲ παρ’ αὐλὸν ἀνέδραμεν ἐξ ὠτειλῆς/ αἱματόεις.

Per quanto riguarda il cadavere con le mani sul ventre (quindi, probabilmente, ferito in quel punto), nel canto V si riscontrano diversi casi di guerrieri trafitti al ventre o al basso ventre e che, di conseguenza, precipitano dal carro morendo:

Il. V 537-540: τόν ῥα κατ’ ἀσπίδα δουρὶ βάλε κρείων Ἀγαμέμνων· ἣ δ’ οὐκ ἔγχος ἔρυτο, διὰ πρὸ δὲ εἴσατο χαλκός, νειαίρῃ δ’ ἐν γαστρὶ διὰ ζωστῆρος ἔλασσε· δούπησεν δὲ πεσών186 ....

Lui nello scudo con la lancia prese il dominante Agamennone: esso non la lancia trattenne e fuor fuora andò

il bronzo nel profondo addome traverso il cinto cacciò; rimbombò cadendo187...

Il. V 615-617:

τόν ῥα κατὰ ζωστῆρα βάλεν Τελαμώνιος Αἴας, νειαίρῃ δ’ ἐν γαστρὶ πάγη δολιχόσκιον ἔγχος, δούπησεν δὲ πεσών..

Lui alla cintura prese il Tel. Aiace,

e nell’intimo ventre s’infisse la lungombra lancia, rimbombò cadendo188...

La particolare posizione dell’ultimo combattente ricorda, infine, una scena piuttosto nota del canto, cioè il momento in cui Enea viene colpito da Diomede e si salva solo grazie all’immediato intervento di Afrodite. Il Tidide scaglia infatti un masso contro l’eroe troiano e ai vv. 307-310 leggiamo: θλάσσε δέ οἱ κοτύλην, πρὸς δ’ ἄμφω ῥῆξε τένοντε· ὦσε δ’ ἀπὸ ῥινὸν τρηχὺς λίθος· αὐτὰρ ὅ γ’ ἥρως ἔστη γνὺξ ἐριπὼν καὶ ἐρείσατο χειρὶ παχείῃ γαίης· ἀμφὶ δὲ ὄσσε κελαινὴ νὺξ ἐκάλυψεν.

fracassò a lui il condilo, e inoltre ambo lacerò i tendini; portò via la pelle lo scabro sasso. Autem l’eroe stette ginocchioni caduto e s’appoggiò con

mano robusta alla terra; intorno gli occhi nera notte nascose189. L’immagine descritta è senz’altro molto simile (si noti per altro il ricorrere dell’avverbio «ginocchioni» tanto nella traduzione quanto nel romanzo, termine non molto frequente, come si è detto, nella narrativa del ’900): in entrambi i casi si tratta di una posizione innaturale per un cadavere (Enea, del resto, è ancora vivo, mentre il repubblichino è sorretto dal fildiferro) e

186 Il v. 540 viene espunto da W

EST 1998.

187

Faldone AP VI.5, foglio 14r.

188

Faldone AP VI.5, foglio 16r.

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tanto la caduta del troiano che quella del fascista hanno una grande forza evocativa190. In conclusione il passo, che non trova corrispettivi nella produzione di Pavese quanto a realismo e durezza della descrizione, potrebbe aver risentito in una certa misura dello stile, delle immagini e dei toni dei brani omerici che Pavese riprendeva a tradurre proprio in quei mesi. Peraltro è stato notato come le descrizioni omeriche, apparentemente distaccate e oggettive, avessero in realtà una forte carica patetica. Così per esempio Mirto, a proposito di Il. V 72-75, sottolinea come la descrizione non miri tanto a una precisa rappresentazione dell’anatomia umana, quanto a «la ricerca di effetti estetici e di particolari cruenti che suscitino coinvolgimento emotivo191». Allo stesso modo Griffin192 vuole dimostrare che:

the dispassionate manner in which these slayings are recorded, and above all the short obituaries which many of them are given, are important and striking because they do in

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