• Non ci sono risultati.

congresso nazionale del Pci (Milano, 13-17 marzo 1972)

In vista del congresso nazionale del partito, previsto per il 1972, si tiene, dall’11 al 13 novembre 1971, il comitato centrale del Pci. A presentare la relazione è il vice-segretario Berlinguer, che già nel 1969 aveva svolto le conclusioni del precedente congresso. Nel momento in cui presenta la relazione in comitato centrale egli è – di fatto – il nuovo segretario in pectore.

È lo stesso Berlinguer a precisare che il metodo di preparazione del XIII congresso nazionale del 1972 è diverso da quello utilizzato negli anni immediatamente precedenti, pur non essendo nuovo in assoluto perché già adottato in passato. Anziché prevedere la redazione di un progetto politico articolato per tesi (cioè brevi testi di carattere assertivo sui diversi punti di

interesse) il metodo prescelto pone come base per la discussione congressuale proprio la relazione che Berlinguer presenta al comitato centrale del partito. L’ottica generale è quella di favorire «un dibattito libero, democratico e in pari tempo unitario» ma anche di promuovere attorno all’intera campagna congressuale un largo interesse esterno, «dei lavoratori, dei giovani, di militanti e quadri di altri partiti, dei sindacati, di altre organizzazioni di massa e della stampa.»9

La relazione che Berlinguer presenta come piattaforma congressuale è un documento di ampio respiro, che tocca, come è logico, tutti i principali temi politici dell’agenda comunista negli incipienti anni Settanta.

Il primo passaggio è sulla situazione internazionale e sulla politica estera italiana. In questo contesto si trattano i problemi del movimento operaio e dei movimenti di liberazione in atto nel mondo, affermando che da una analisi storica scaturisce l’esigenza di colmare lo squilibrio apertosi con la sconfitta dei movimenti operai dell'Europa occidentale dopo la Prima guerra mondiale. L’azione del Pci nel movimento operaio e comunista internazionale è comunque ispirata alla linea politica riassunta, già nel 1969, nella formula «dell'unità nella diversità e nell'autonomia» e sulla base della quale il Pci ha espresso il proprio dissenso sull’intervento militare in Cecoslovacchia.

Il secondo passaggio è sulla situazione italiana. Constatato che, dopo le conquiste politiche e sociali della fine degli anni Sessanta, esiste il rischio di una involuzione autoritaria posta in essere da tutte le forze conservatrici che si oppongono al cambiamento, si sottolinea che a controbilanciare tale rischio stanno una serie di fattori positivi, indicatori di uno sviluppo progressista della società italiana. Fatta questa constatazione, Berlinguer pone il problema di fondo da sottoporre all’analisi congressuale: come sia possibile proseguire nella direzione delle conquiste degli anni precedenti senza scatenare una risposta repressiva da parte delle forze reazionarie.

9 Enrico Berlinguer, Per rinnovare l’Italia, per la pace, per la liberazione di tutti i popoli oppressi

dall’imperialismo. Relazione e conclusioni alla riunione del Comitato centrale e della Commissione centrale di controllo per la preparazione del XIII Congresso nazionale, 11-13 novembre 1971, s.e., s.l., s.d., pp. 6-7.

Seguono una serie di indicazioni per lo sviluppo della politica del partito. Esse, sebbene raccolgano il frutto di un dibattito sviluppatosi nei mesi e negli anni precedenti, rappresentano la parte non solo propositiva ma anche innovativa dell’analisi politica di Berlinguer.

Innanzitutto, la classe operaia, deve essere la vera protagonista del momento storico e svolgere una azione trainante all’interno di una politica di alleanze sociali da sviluppare superando ogni manifestazione di «settarismo» da parte della base comunista. In tale prospettiva, bisogna dare ai cosiddetti «ceti medi» la certezza che il partito non intende soffocare le iniziative dei singoli ma al contrario «esaltarle nell'ambito di una politica di programmazione».

Esiste poi un obiettivo ancora più avanzato: quello del rinnovamento del regime politico, da attuarsi attraverso una riforma delle strutture economiche e sociali e un generale risanamento dello Stato e degli stessi partiti. Anche su questo terreno, Berlinguer è consapevole della necessità di vincere alcuni pregiudizi diffusi nel corpo del partito circa presunta ostilità della pubblica amministrazione verso i comunisti.

C’è anche un altro punto sul quale chiamare il partito all’azione. Contro la polemica verso «la cosiddetta partitocrazia» bisogna rispondere con una progettualità di ampio respiro e sviluppare un'azione verso le altre forze politiche. Il dialogo dovrà coinvolgere, però, non solo le altre forze della sinistra ma anche la Democrazia Cristiana. Se è vero che bisogna approfondire la crisi interna al partito democristiano, obbligandolo a compiere delle scelte, è anche vero che è necessario raggiungere con esso delle intese caso per caso su specifici argomenti.

L’ultimo passaggio del rapporto Berlinguer è dedicato ai problemi del partito. Ribadita la difesa della linea assunta dal Pci verso il movimento del Sessantotto – nell’ambito della quale è stato necessario distinguere e isolare le «confuse teorizzazioni del “movimento per il movimento”», cioè non è stato possibile tollerare il dissenso del gruppo del Manifesto, che è stato espulso dal partito – si individuano in rapida successione i problemi che ancora permangono. I principali sono i seguenti: la presenza operaia nelle

file del partito é ancora inadeguata; la federazione giovanile (Fgci), nonostante i segni di ripresa, non è ridiventata una grande organizzazione di massa; manca un lavoro continuo verso le donne e le forze intellettuali; serve una maggiore attenzione nei confronti dei problemi particolari e verso gli strati popolari più miseri; occorre imparare a utilizzare un linguaggio più semplice e più comprensibile; necessita maggiore reattività nella instaurazione di un contatto con i movimenti rivendicativi e di riforma, così come verso le tensioni sociali che maturano nelle varie situazioni; deve esistere sempre – e talvolta manca – un intreccio tra l’azione quotidiana e l’ampia prospettiva politica del partito; non bisogna mai rifuggire dal confronto critico con le altre posizioni e le altre forze politiche di qualunque natura; è importante infine, in campo culturale, sviluppare il rapporto tra la politica e la ricerca teorica.

La piattaforma congressuale presentata da Berlinguer ha una portata innovativa. Oltre al dato acquisito degli anni precedenti, e cioè la politica «dell’unità nella diversità e nell’autonomia» rispetto all’Urss, la relazione presenta una sottolineatura della politica delle alleanze, sia sociali che politiche, che chiama la «classe operaia» ad uno sforzo di leadership non indifferente. Già sul finire del ’71, prima ancora di diventare segretario del partito, Berlinguer comincia a chiedere alla base degli iscritti un impegno a trecentosessanta gradi, fatto di nuove sfide, di non comune sforzo intellettuale e perfino di un non trascurabile investimento emotivo.

La relazione di Berlinguer è letta e analizzata in tutte le federazioni del paese. Mentre è in corso la campagna congressuale nelle sezioni e nelle federazioni, si accavallano gli avvenimenti politici già ricordati, cioè l’elezione del Presidente Leone e la crisi del governo Colombo. L’urgenza degli avvenimenti ha naturalmente un riflesso sull’andamento dei congressi e la campagna congressuale del Pci si svolge così all’insegna di un indubbio dinamismo, sia interno che esterno al partito, caratterizzandosi come un importante momento di passaggio.

In una Milano toccata pochi giorni prima da episodi di guerriglia urbana, il 13 marzo 1972 si apre, in un clima da campagna elettorale, il XIII

congresso nazionale. Berlinguer tocca nuovamente i temi principali della piattaforma congressuale, rimarcando tra l’altro la richiesta di una nuova guida per il paese, la necessità di una effettiva direzione pubblica della vita economica e le prospettive negative del capitalismo, cui contrappone il progetto di una società socialista. Al termine del congresso, non ancora cinquantenne, Berlinguer viene eletto nuovo segretario del Pci.

L’inizio della VI legislatura e la proposta del compromesso storico

La sterzata a destra della Dc sembra dare i suoi frutti alle elezioni politiche del 7 maggio 1972. Nonostante un lieve calo rispetto alle elezioni del ’68, la centralità della Dc esce confermata dal voto, peraltro caratterizzato da un’avanzata del Msi (che, unendosi ai monarchici sotto la sigla Msi-Dn, raggiunge l’8,7% dei consensi alla Camera dei Deputati) Per formare la coalizione di maggioranza alla Dc si presentano, come al solito, due alternative: o guardare ai liberali o guardare ai socialisti. Andreotti, che riceve l'incarico di formare il nuovo governo, valutata la propensione destrorsa della maggioranza della Dc dà vita ad un governo sostenuto da Dc, Psdi, Pli e Pri (al quale i repubblicani non partecipano con propri ministri). Si tratta, però, di un esecutivo dotato di una ristretta base parlamentare e politica, debole anche rispetto alla situazione sociale ed economica che dovrebbe fronteggiare. Il governo (soprannominato «Andreotti-Malagodi» per enfatizzare l’importanza della partnership tra il Presidente del Consiglio e il leader liberale) si caratterizza per una politica sostanzialmente clientelare, indirizzata a concedere una serie di benefici a singoli settori – la cosiddetta «politica delle mance». Nel frattempo una serie di fattori anche di ordine internazionale favoriscono l'insorgenza di una fase di recessione economica. Il governo risponde dilatando la spesa pubblica e adottando

provvedimenti sostanzialmente inefficaci (come accade nel campo della politica monetaria, dove la decisione di svalutare la lira, che dovrebbe rilanciare l’economia, innesca una spirale inflazionistica destinata a vanificare gli effetti positivi cercati). A tutto ciò si aggiunge una recrudescenza del fenomeno terroristico, che comincia ad essere non più solo di estrema destra ma anche di estrema sinistra. Dinanzi a alla gravità della situazione, da più parti, anche all’interno della Dc, si cominciano a muovere critiche alla formula neocentrista e lo schieramento entra in crisi.

Ad approfittare dello spiraglio offerto dalle circostanze è Aldo Moro. In vista del XII congresso nazionale della Dc (programmato per il luglio 1973), Moro – consapevole della necessità di dare stabilità al gruppo dirigente della Dc, in presenza anche di una certa frantumazione della sinistra democristiana – stringe un accordo con Amintore Fanfani che prenderà il nome di «patto di palazzo Giustiniani».10 Si tratta di un documento politico – che è in realtà la bozza, sottoscritta dai maggiori leader democristiani, della mozione conclusiva del congresso ancora da celebrare – in cui si stabilisce che Fanfani assuma la segreteria del partito, Mariano Rumor divenga capo del governo e Moro mantenga un ruolo discreto, di «garante» dell’accordo. Al successivo congresso il patto è rispettato: Andreotti e Forlani escono di scena mentre, nello stesso mese di luglio, si forma il quarto governo Rumor, sostenuto da una maggioranza quadripartita di centro-sinistra e soprattutto da una Dc con rinnovati equilibri interni.

La seconda parte del 1973 riserva però altre novità non positive per il paese, sul quale si abbattono gli effetti di una crisi di portata mondiale. Con la guerra del Kippur tra Egitto e Israele, la conseguente chiusura del canale di Suez ed il blocco petrolifero imposto dai paesi arabi, il mondo occidentale entra in una fase difficile sul piano economico ed energetico. Il sogno di un futuro migliore svanisce; la stagflazione economica mondiale, che comincia proprio nel 1973 e si innesta su una situazione già non favorevole, è

10 Palazzo Giustiniani era la sede di rappresentanza della presidenza del Senato, occupata, in quel

destinata a durare a lungo, con effetti particolarmente rilevanti in Italia, dove alla fine del decennio l’inflazione veleggerà attorno al 20%.

In questo contesto irrompe sulla scena la proposta politica di compromesso storico formulata da Berlinguer.

La linea politica del compromesso storico era stata evocata da Berlinguer già nel marzo del 1971, quando, partecipando a una riunione della direzione comunista allargata ai segretari regionali, il futuro segretario, dopo avere ricordato i passi avanti compiuti dal movimento dei lavoratori negli anni precedenti, si era chiesto: «come si può andare avanti effettivamente in un Paese come l'Italia senza scatenare una reazione stronchi questa spinta in avanti?».11

Il tema, come si è già accennato, era stato ampiamente argomentato dalla piattaforma del XIII congresso nazionale e ripreso dallo stesso Berlinguer all’assise finale di Milano. Nei mesi seguenti altri dirigenti comunisti erano intervenuti nel dibattito politico, prefigurando l’ipotesi di un accordo fra i tre grandi partiti italiani e constatando l’impossibilità per il Pci di fare affidamento solamente sul numero di seggi in Parlamento per ipotizzare un accesso al governo del paese. La presenza di forti condizionamenti internazionali e il progredire della «strategia della tensione»12 rendeva infatti consigliabile l’adozione di una prospettiva diversa.

Nel 1973, subito dopo il golpe che in Cile porta al potere Pinochet, compaiono su Rinascita, tra settembre e ottobre, tre articoli nei quali Berlinguer presenta definitivamente la proposta politica che egli definisce di «compromesso storico».13

11 La citazione è tratta da: Guido Crainz, Autobiografia di una Repubblica. Le radici dell’Italia attuale,

Donzelli, Roma, 2009, p. 118, nota 159.

12 La «strategia della tensione» nasce nel clima politico-culturale generato dal ’68 e ha lo scopo di favorire

la crescita nell'opinione pubblica di un elevato livello di consenso verso una svolta di segno conservatore nel governo del paese e nella gestione delle acute tensioni sociali del periodo.

13 Enrico Berlinguer, Imperialismo e coesistenza alla luce dei fatti cileni, «Rinascita», 28 settembre 1973;

Vita democratica e violenza rivoluzionaria, ibidem, 5 ottobre 1973; Alleanze sociali e schieramenti politici, ibidem, 12 ottobre 1973.

Quanto accaduto in Cile, secondo Berlinguer, fa svanire ogni illusione circa i caratteri dell'imperialismo, segnatamente dell'imperialismo americano. È necessario, dunque, disporsi a lottare concretamente contro l'imperialismo e contro la reazione, e, a tale scopo, occorre svolgere una riflessione attenta per trarre insegnamento dai fatti cileni. Da un lato è necessario «lottare tenacemente, sul piano internazionale, per far avanzare il processo della distensione e della coesistenza»; dall'altro bisogna proseguire in ogni paese le battaglie per l'indipendenza nazionale e per «la trasformazione in senso democratico e socialista dell'assetto economico e sociale e degli ordinamenti politici e statali».

Compito primario del Pci, secondo il segretario comunista, è dunque quello di estendere il tessuto unitario e di raccogliere una grande maggioranza del popolo italiano attorno ad un programma di rinnovamento dell'intera società e dello Stato, creando così le condizioni per costruire «una società e uno Stato socialista che garantiscano il pieno esercizio e lo sviluppo di tutte le libertà». La strategia del Pci si basa quindi su una partecipazione attiva alla vita parlamentare per portare all'affermazione dei principi democratici costituzionali ma anche sulla scelta fondamentale di «mantenere la propria lotta sul terreno della legalità democratica». Non rinunciando, comunque, ad impegnarsi per portare avanti processi di democratizzazione nella vita «della magistratura, dei corpi armati e di tutti gli apparati dello Stato», nell'intento di impedire che i processi di trasformazione democratica in atto nella società possano essere inficiati da squilibri permanenti all'interno di settori decisivi per la vita del paese.

Inoltre, prosegue Berlinguer, la trasformazione democratica del paese ha bisogno della forza – cioè della combattività e della determinazione nel difendere la libertà e diritti democratici – ma anche del consenso – cioè dell'appoggio della grande maggioranza della popolazione. Ne consegue un constatazione molto semplice. «È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per la formazione della via democratica.» La strategia delle riforme, prosegue Berlinguer, può dunque

affermarsi solo sviluppando la politica delle alleanze. Innanzitutto, alleanze sociali. Le rivendicazioni e gli obiettivi devono offrire concretamente ai ceti intermedi «una certezza di prospettive che garantiscano in forme nuove e possibilmente migliorino il loro livello di esistenza e il loro ruolo nella società, ma in un diverso sviluppo economico e in un più giusto e più moderno assetto sociale.» Secondariamente, alleanze politiche.

Se è vero che una politica di rinnovamento democratico può realizzarsi solo se è sostenuta dalla grande maggioranza della popolazione, ne consegue la necessità non soltanto di una politica di larghe alleanze sociali ma anche di un determinato sistema di rapporti politici, tale che favorisca una convergenza e una collaborazione tra tutte le forze democratiche e popolari, fino alla realizzazione fra di esse di una alleanza politica.

La contrapposizione tra partiti che hanno una base nel popolo sarebbe esiziale per la democrazia e travolgerebbe «le basi stesse della sopravvivenza dello Stato democratico». In Italia, secondo il segretario comunista, il problema è evitare che si giunga ad una stabile saldatura tra il centro e la destra, e anzi spostare le forze sociali e politiche che stanno al centro su posizioni «coerentemente democratiche». Ovviamente, l'unità e la forza delle sinistre sono la condizione indispensabile per esercitare sul paese una costante pressione per il cambiamento.

Ma sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 percento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia), questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l'opera di un governo che fosse l'espressione di tale 51 percento.

Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica», e cioè della prospettiva politica di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione comunista e socialista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.

Secondo il segretario comunista, nonostante le polemiche di cui questa proposta è fatta oggetto, la strada indicata dal Pci è l'unica valida e credibile, e ad essa non esiste alternativa. Il dialogo e il confronto con il mondo cattolico deve avvenire in questa prospettiva. Il compito del Pci, conclude Berlinguer, è quello di sconfiggere le tendenze ad una «spaccatura verticale

del paese» e alla conservazione di una «pregiudiziale preclusione ideologica anticomunista», operando, al contrario, perché prevalgano le tendenze favorevoli ad un'intesa tra tutte le forze popolari.

La gravità dei problemi del paese, le minacce sempre incombenti di avventure reazionarie e la necessità di aprire finalmente alla nazione una sicura via di sviluppo economico, di rinnovamento sociale e di progresso democratico rendono sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande «compromesso storico» tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano.

Nell’autunno del 1973, dunque, la proposta di Berlinguer, puntando alla stabilità, cerca di rimediare al rapporto teso instauratosi in quel torno d’anni tra il sistema politico e la società; d’altra parte, l’ipotesi del compromesso storico tende a indebolire il governo, togliendo implicitamente ragion d'essere alla formula di centro-sinistra, che è stata appena rilanciata ma che già appare troppo limitata.

Il quarto governo Rumor, dal canto suo, nei primi mesi di attività aveva operato con decisione, soprattutto in quattro direzioni: politica monetaria, politica creditizia, controllo dei prezzi e dinamica salariale (mirando, negli ultimi due settori, al contenimento degli aumenti).

Col rincaro del prezzo del petrolio che si verifica nell'autunno 1973 la condizione economica generale peggiora però nuovamente. Per fronteggiare la situazione viene messo a punto un «codice di austerità» articolato in 16 punti, avente l'obiettivo di contenere i consumi energetici. I provvedimenti, oltre a instillare nella coscienza dei cittadini la consapevolezza della crisi, aprono un dibattito sui metodi da utilizzare in politica economica che provoca dissapori interni al governo tra i ministri Giolitti (Psi) e La Malfa (Pri). Quest’ultimo si dimette, provocando la crisi del governo e rendendo necessaria la formazione di un nuovo governo Rumor, il quinto, costituito da Dc, Psi, Psdi e sorretto dall’appoggio esterno dei repubblicani. La fragilità degli esecutivi è ormai all’ordine del giorno.

Nel frattempo, si aggrava un processo già in atto di progressivo indebolimento della fiducia degli italiani nei confronti della propria classe dirigente politica. La sensibilità di un intellettuale come Pier Paolo Pasolini interpreta il momento coniando la metafora del «palazzo», cioè il luogo del potere – contrassegnato da una prassi sostanzialmente illegale – verso il quale i cittadini si mostrano sempre più disaffezionati. In quegli anni si susseguirono infatti una serie di scandali che coinvolgono esponenti politici anche di alto livello (il cosiddetto scandalo dei petroli e la scandalo delle tangenti Enel) da cui nasce una iniziativa di autodifesa del sistema dei