Capitolo 1
Gli anni Settanta in Italia e la linea politica del Pci
Lo scopo di questo primo capitolo è fornire alcune indicazioni generali – con riferimento particolare alla storia politica – per una rapida ricostruzione della situazione italiana e della linea politica del Pci negli anni ’70, nell’ottica di consentire una più agevole e rapida contestualizzazione degli oggetti di analisi che saranno di volta in volta evidenziati nel prosieguo.
L'esigenza di trattare in modo relativamente sintetico la materia comporta giocoforza qualche semplificazione ed anche qualche esclusione. Questa lacune – che è bene denunciare fin da subito – sono però, per così dire, fisiologiche. Sia perché non è evidentemente tra gli scopi della presente ricerca ricostruire in modo sistematico la storia degli anni Settanta, già ampiamente rappresentata da un'ampia letteratura fiorita negli ultimi vent’anni.1
Sia perché una ricostruzione eccessivamente dettagliata
1 Tra le opere di sintesi per una ricostruzione generale della storia dell’Italia repubblicana si possono
segnalare almeno: Donald Sassoon, L’Italia contemporanea. I partiti le politiche la società dal 1945 ad oggi, Editori Riuniti, Roma, 1988; Paul Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, 2 voll., Einaudi, Torino, 1989; Silvio Lanaro, Storia dell’Italia repubblicana. L’economia, la politica, la cultura, la società dal dopoguerra agli anni ’90, Marsilio, Venezia, 1992; Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1943 al 2003, Il Mulino, Bologna, 2004 (ed. originale: Aurelio Lepre, Storia della prima Repubblica. L’Italia dal 1942 al 1992, Il Mulino, Bologna, 1993); Francesco Barbagallo (a cura di) Storia dell’Italia Repubblicana, 3 voll., Einaudi, Torino, 1994-1997; Piero Craveri, La Repubblica dal 1958 al 1992, UTET, Torino, 1995; Giovanni Sabbatucci e Vittorio Vidotto (a cura di), Storia d’Italia, 6 voll., Laterza, Roma–Bari, 1995-1999; Guido Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Donzelli, Roma, 2005, (ed. originale 1996); Simona Colarizi, Biografia della prima repubblica, Laterza, Roma-Bari,1996; Enzo Santarelli, Storia critica della Repubblica. L’Italia dal 1945 al 1994, Feltrinelli, Milano, 1996; Pietro Scoppola, La Repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico.1945-1996, Il Mulino, Bologna, 1997; Giuseppe Mammarella, L’Italia contemporanea 1943-1998, Il Mulino, Bologna, 2000; Valerio Castronovo, Renzo
appesantirebbe oltremisura la trattazione; tra l'altro, con un contributo scarsamente originale.
Prima del compromesso storico
Come noto, dopo la fine della seconda guerra mondiale – che segna una cesura storica di portata planetaria – in Italia si apre una stagione di grande cambiamento. Crollato il regime fascista, riprende la vita democratica; nel volgere di pochi anni, l’Italia diviene una Repubblica e si dà una nuova Costituzione. I protagonisti assoluti di questa nuova stagione sono i partiti politici, che avevano partecipato alla Resistenza riunendosi nel Comitato di Liberazione Nazionale (Cln). Dopo i primi anni – durante i quali, nei governi che si susseguono alla guida del paese, sono rappresentati tutti i partiti del Cln – l’unità del fronte antifascista si spezza. Nel 1947 i comunisti e i socialisti sono estromessi dal governo e, a seguito delle elezioni politiche del 1948, inizia la stagione del cosiddetto centrismo, cioè una fase politica caratterizzata dalla solida egemonia della Democrazia cristiana, la quale si pone – appunto – al centro dello schieramento politico e guida il paese unitamente al Partito Liberale, al Partito Socialdemocratico e al Partito Repubblicano.
De Felice e Pietro Scoppola, L' Italia del Novecento, UTET, Torino, 2004; Salvatore Lupo, Partito e antipartito. Una storia politica della prima Repubblica (1946-78), Donzelli, Roma, 2004; Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma, 2005; Simona Colarizi, Storia politica della repubblica. 1943-2006, Laterza, Roma-Bari, 2007; Francesco Barbagallo, L' Italia repubblicana. Dallo sviluppo alle riforme mancate, 1945-2008, Carocci, Roma, 2009; Maurizio Ridolfi, Storia politica dell'Italia repubblicana, Bruno Mondadori, Milano, 2010; Guido Crainz, Il paese reale. Dall'assassinio di Moro all'Italia di oggi, Donzelli, Roma, 2012.
Sugli anni Settanta in particolare: AA.VV., L’Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta, Atti del ciclo di convegni, Roma, novembre e dicembre 2001, 4 voll., Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003; Alberto De Bernardi, Valerio Romitelli e Chiara Cretella (a cura di), Gli anni Settanta. Tra crisi mondiale e movimenti collettivi, Archetipo libri, Bologna, 2009.
A partire dalla seconda legislatura, che inizia nel 1953, la formula politica centrista va incontro ad un progressivo logoramento, originato dall’indebolimento della forza elettorale del partito cattolico e dalla conseguente dilatazione dello spazio politico all’interno della maggioranza, dove la Dc non riesce più ad esercitare, come in precedenza, la propria
leadership incontrastata. Con la terza legislatura, che inizia nel 1958, si apre
così una stagione nella quale, attraverso una lenta ed avversata transizione, si realizza – auspici il segretario democristiano Aldo Moro e il segretario socialista Pietro Nenni – un accordo tra Dc e Psi per una nuova formula di governo. Prende così vita a un’altra maggioranza, nella quale – oltre a Dc, Psdi e Pri – trova posto il Partito Socialista a scapito del Partito liberale. Ma il processo è molto lento e difficoltoso: il primo governo di centro-sinistra vede infatti la luce solo nel dicembre del 1963. Lasciata la segreteria del partito, Aldo Moro, architetto e garante dell’operazione politica, è posto alla guida del nuovo esecutivo.
Nel frattempo, durante questa lunga transizione politica, la vita del paese è contrassegnata da una crescente espansione economica, che, iniziata al principio degli anni Cinquanta, raggiunge nel quinquennio ’58-’63 proporzioni decisamente ragguardevoli. Questa galoppante espansione, subito definita boom economico, porta con sé, inevitabilmente, una serie di importanti cambiamenti anche sul piano economico, culturale e sociale.
La nuova formula politica del centro-sinistra nasce proprio con l’intento di dare una risposta, mettendo mano alle riforme necessarie, ai crescenti bisogni del paese in trasformazione. Ma – al di là delle dichiarazioni di intenti – diverse sono le sfumature possibili del riformismo da attuare, e molto differenziate sono le posizioni all’interno della nuova maggioranza. Così, la formula del centro-sinistra si avvia ad una esistenza faticosa, segnata da momenti anche piuttosto difficili, uno dei quali è sicuramente la lunga crisi di governo del giugno-luglio 1964, pesantemente condizionata dal rischio che un piano segreto di colpo di Stato – il piano Solo, progettato dal comandante dei carabinieri, generale De Lorenzo – sia posto in atto. Quali che fossero le reali possibilità di attuazione del piano Solo, è ormai
maturata tra gli studiosi la convinzione che la minaccia abbia agito come strumento di pressione per frenare lo slancio riformatore che la coalizione di centro-sinistra aveva sin lì espresso. L’obiettivo viene sostanzialmente raggiunto. Complice la sfavorevole congiuntura economica, che fornisce argomentazioni alla parte moderata della compagine di governo per giustificare il rinvio delle riforme più incisive, il secondo governo Moro, che riesce a formarsi verso la fine di luglio dopo estenuanti mediazioni, scongiura di fatto il pericolo di golpe ma dà pure inizio ad una nuova fase della vita politica italiana, contrassegnata da un drastico ridimensionamento dei propositi rinnovatori della coalizione di centro-sinistra. Ciononostante, sempre sotto la guida di Moro, la nuova formula politica conduce il paese, in una sostanziale inerzia, fino al termine della IV legislatura, e cioè al 1968.
Si giunge così ad un passaggio molto importante per la storia d’Italia. Il biennio 1968-69, infatti, origina una serie di fenomeni che avranno effetti anche negli anni successivi.
Innanzitutto esplode la cosiddetta contestazione giovanile, che assume vastissime proporzioni e dà luogo ad un collegamento generazionale e transnazionale di indubbia rilevanza, aprendo una fase di aspre rivendicazioni. Le richieste di riforme e di cambiamento divengono tutt’uno con la polemica contro la società – considerata rigida, non inclusiva, ingiusta – mentre le istanze dei movimenti di «azione collettiva» si scontrano con un «sistema politico–istituzionale inadeguato ed incapace di rispondere alle pressanti domande poste dal protagonismo sociale».2 In effetti però, il Sessantotto, pur tra i contrasti che porta con sé, avvia anche una stagione di ottimismo: i giovani, infatti, nonostante l’aspra critica verso la società contemporanea sono sostanzialmente fiduciosi nel futuro e nutrono concrete speranze di realizzare un mondo migliore.
Parallelamente, si acuiscono le tensioni sociali. In tutta Europa il periodo ‘68-‘70 è segnato da violente conflittualità sindacali che sono, in generale, un riflesso delle politiche deflazionistiche praticate dalle autorità
2 Le radici della crisi. L’Italia tra gli anni Sessanta e Settanta, a cura di Luca Baldissara, Carocci, Roma,
monetarie e dai governi negli anni precedenti. In Italia i conflitti sindacali sono particolarmente intensi e la tensione sociale cresce soprattutto nell’autunno «caldo» del 1969. Il 19 novembre 1969, durante le manifestazioni organizzate in occasione di uno sciopero generale per le riforme, avvengono degli incidenti nel corso dei quali muore, a Milano, l'agente di polizia Antonio Annarumma. La tensione sale alle stelle quando alcuni giorni dopo, il 12 dicembre, in Piazza Fontana, sempre a Milano, un attentato alla Banca nazionale dell’agricoltura causa la morte di 17 persone. Dopo la strage, in una situazione drammatica, il 21 dicembre viene firmato l'accordo per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, ponendo fine ad una lunga vertenza sindacale. Il movimento operaio nel suo insieme accresce progressivamente la propria importanza ed il proprio peso, ottenendo, nel 1970, l’approvazione dello Statuto dei lavoratori, una legge di regolamentazione dei rapporti di lavoro considerata una conquista della «classe lavoratrice».
La vicenda sindacale dell'autunno ‘69 dà impulso al processo di formazione dei movimenti collettivi. Dalle ceneri del Sessantotto nascono nuove formazioni politiche, molte delle quali (definite «extraparlamentari») sprovviste di rappresentanza istituzionale e contrassegnate da una accentuata radicalità ideologica. Tra di esse si origina la convinzione che i sindacati siano sostanzialmente orientati al contenimento dei conflitti: per questo motivo tali formazioni cominciano ad agire, al contrario, per mantenere vivi i focolai di scontro sociale. Vi è l’idea, di derivazione leninista, che senza la guida di un'avanguardia rivoluzionaria la «classe operaia» sia destinata a confluire verso la socialdemocrazia. Anche per questo, i gruppi, riuscendo ad avere sul movimento operaio una influenza solo marginale attraverso i normali canali organizzativi, si indirizzano verso l’uso della violenza politica, puntando a intercettare anche altri segmenti sociali emarginati (studenti, disoccupati, senza casa e così via).
A cavallo dei due decenni, la società italiana si presenta sempre più complessa e articolata. Nel paese sono in atto mutamenti rilevanti soprattutto sul piano della cultura e del costume, dove l’onda lunga della
grande trasformazione indotta dall’espansione economica del decennio precedente comincia a far sentire i suoi effetti. Il 1° dicembre 1970 viene approvata la legge n. 898 che introduce la possibilità del divorzio; le famiglie hanno un numero sempre minore di figli e il miglioramento della sopravvivenza determina un tendenziale invecchiamento della popolazione; tra le donne aumenta la scolarizzazione e l’impegno nel mondo del lavoro, mentre si costruisce una nuova identità di genere; prende parallelamente corpo il movimento femminista, che rivendica per le donne parità di diritti e di opportunità rispetto agli uomini, anche se – nel contempo – tende pure a presentarsi come corpo separato rispetto a una società nella quale non si riconosce.
In campo internazionale, mentre prosegue la guerra del Vietnam, nel 1968 accade un avvenimento di risonanza mondiale: l’Unione sovietica invade la Cecoslovacchia. Il fatto ha una ricaduta significativa sui rapporti tra Pci e Urss. All’inizio dell’anno, infatti, il Partito comunista cecoslovacco di Alexander Dubcek aveva inaugurato una stagione di riforme mirante a costruire rapporti più democratici all'interno del paese. Il Pci – guidato da Luigi Longo, che dal 1964 era alla segreteria del partito dopo la scomparsa di Togliatti – aveva manifestato fin da subito la propria simpatia per il «nuovo corso» del Pcc. L’esperimento di Dubcek, invece, aveva suscitato motivi di apprensione a Mosca, dove si temeva che il processo sfuggisse al controllo dei riformatori. Le crescenti tensioni tra Mosca e Praga sfociano, in agosto, nella decisione sovietica di invadere la Cecoslovacchia per interrompere il processo in atto e ripristinare nel paese una guida a rigida ortodossia sovietica. Il Pci, pur senza rompere le relazioni con il Pcus, manifesta subito la propria riprovazione per l'intervento, mantenendo tale posizione anche nei mesi seguenti.
Nel giugno 1969, a Mosca, alla Conferenza internazionale dei partiti
comunisti e operai, il vice-segretario del Pci Enrico Berlinguer3 sostiene la
3 Nell'ottobre del 1968 il segretario comunista Longo era stato colpito da un'ischemia, peraltro lieve. Si era
posto così il problema di individuare un vice-segretario, che potesse coadiuvare Longo alla guida del partito. Su Berlinguer convergono consensi pressoché unanimi. La sua scelta è il classico esempio di «rinnovamento nella continuità»: Berlinguer, infatti, nel gruppo dirigente è in una posizione centrista; ma
necessità di rispettare l'indipendenza e la sovranità di ogni partito e di ogni Stato, manifesta apertamente il dissenso del Pci verso l'invasione della Cecoslovacchia e inaugura la linea di presa di distanza dall'Unione sovietica che avrebbe caratterizzato in seguito la politica del partito.
Mentre tutto ciò accade, il quadro politico nazionale si complica.
Alle elezioni politiche del 19 maggio 1968, alla Camera dei Deputati la Dc aveva guadagnato quasi un punto percentuale (+0,8%) e il Pci più di un punto (+1,6). Il Psu (Partito socialista unificato, nato nel 1966 nato dalla fusione tra Partito socialista e Partito socialdemocratico) aveva raggiunto invece solo il 14,5%, vedendosi sottrarre circa un quarto dell’elettorato che lo aveva sostenuto nelle precedenti votazioni (quando Psi e Psdi, separati tra loro, avevano ricevuto, rispettivamente, il 13,8% e il 6,1% dei suffragi). L’elettorato aveva dunque privilegiato i due maggiori partiti e complessivamente la coalizione di centro-sinistra non era stata premiata dalle urne.
Nel Partito socialista unificato la sconfitta elettorale dà vita alle vecchie contrapposizioni interne. Uno degli elementi di discussione è proprio il rapporto col Pci, al quale la tradizione socialista italiana rimane piuttosto legata, a differenza dell'area socialdemocratica, caratterizzata invece da un marcato anticomunismo. Nel 1969 i socialdemocratici escono dal partito, fondando il Partito socialista unitario, che due anni dopo assumerà nuovamente l'originario nome di Partito socialdemocratico italiano (Psdi).
Ciononostante, la formula politica di centro-sinistra sopravvive. Sul piano generale, i socialisti non abbandonano una delle idee forti della stagione del centro-sinistra, e cioè l'idea della programmazione economica (strumento che consente al potere centrale dello Stato di fornire un indirizzo allo sviluppo dell’economia nazionale). La prassi di governo instauratasi negli anni precedenti, e fondata su articolati processi di formazione delle decisioni, si mantiene in essere, canalizzando l'attività riformatrice verso
nel contempo è pure aperto a sinistra, e sembra quindi adatto a interpretare la nuova fase di sviluppo dei movimenti, che si pone in quegli anni come uno dei nodi principali della situazione italiana.
provvedimenti di redistribuzione del reddito o verso compensazioni corporative e mediazioni particolaristiche di sottogoverno.
All'interno della Dc si apre intanto un dibattito incentrato sostanzialmente sul rapporto da instaurare col Partito comunista. Le posizioni dei vari leader democristiani sono molto diverse ma comune è la preoccupazione per la fragilità del quadro politico dopo le elezioni del maggio 1968. Aldo Moro è il primo a individuare prospettive politiche nuove e invita il partito ad un «atto di coraggio»: considerare in modo nuovo il rapporto col Pci, dando corso ad una «strategia dell'attenzione» verso i comunisti. Moro, seguendo un tratto caratteristico di tutta la sua azione politica, ancora una volta dimostra una grande sensibilità per la salvaguardia e l'applicazione del metodo democratico, cui subordina qualsiasi altro obiettivo. La prospettiva da lui delineata, peraltro, provoca un certo allarme nell'area moderata; tuttavia all'interno della Dc finirà poi per imporsi.
D'altra parte, la situazione di diffusa tensione sociale in cui versa il paese dà vigore alle componenti del mondo cattolico più sensibili alle istanze provenienti dall’ambito sindacale e dalla società in genere. Ciò, di fatto, gioca a favore di un certo avvicinamento tra Dc e Pci, che a livello parlamentare consente il varo di provvedimenti significativi, anche se non sempre pienamente riusciti. È in questo contesto, infatti, che, oltre alla già citata legge sul divorzio (varata, però, con il voto contrario della Dc e l’aggregazione di una coalizione ben diversa da quella di governo) e allo Statuto dei lavoratori, vengono adottati nuovi regolamenti parlamentari e importanti leggi riguardanti le pensioni, la casa, gli asili nido, i fondi rustici, il diritto di famiglia e l'istituzione delle regioni.
Nel frattempo, però, la debolezza della coalizione di centro-sinistra porta alla formazione di governi sostanzialmente deboli e di breve durata. Nella quinta legislatura si succedono ben cinque governi: tre di centro- sinistra e due monocolori Dc, variamente appoggiati dall’esterno. Il governo più duraturo è quello presieduto da Emilio Colombo, che dura poco più di un anno (dall'agosto 1970 al gennaio 1972) e si trova ad affrontare problemi di vario tipo in campo sociale e in ambito economico; ma anche in materia
di ordine pubblico, perché importanti avvenimenti come la rivolta di Reggio Calabria4 e il tentato golpe Borghese5 del 7-8 dicembre 1970 aggiungono elementi di preoccupazione circa la tenuta dell'assetto istituzionale e civile del paese.
Intanto prende corpo la questione del divorzio, che condiziona l’esistenza stessa dei governi perché i partiti del centro-sinistra si trovano, su tale questione, su posizioni opposte. Contestualmente all’approvazione della legge sul divorzio, con un’altra legge, la numero 352 del 25 maggio 1970, viene istituito il referendum abrogativo, previsto dalla Costituzione ma mai utilizzato in precedenza. L’intento è quello di impedire una rottura insanabile fra le forze politiche e rendere possibile alla Dc di tentare il ribaltamento del voto parlamentare attraverso l’appello diretto ai cittadini.
Nello stesso anno, poi, sono finalmente istituite le regioni (già previste da una legge del 1968) per dare attuazione, anche in questo caso, alla Costituzione. L'istituzione delle regioni va indubbiamente incontro all'obiettivo di allentare, attraverso un quadro istituzionale più articolato, le molteplici tensioni che si sono accumulate nella società italiana.6 La possibilità di svolgere una funzione di mediazione sociale, infatti, diviene l'occasione per un rapporto diverso tra Democrazia cristiana e Partito comunista, fornendo a quest’ultimo la possibilità di dare uno sbocco politico ai movimenti sindacali e di massa cresciuti in quegli anni. In realtà, però, le regioni nascono con una impronta consociativa ed inoltre all'insegna di un certo «minimalismo» dovuto al disaccordo tra le forze politiche. Le competenze e i poteri delle regioni sono all’inizio fortemente delimitati, soprattutto ad opera della Dc (e contro il desiderio del Pci, il quale in alcune
4 Nel 1970, la scelta di Cosenza come sede della università regionale e di Catanzaro come capoluogo
regionale fecero esplodere la rivolta di Reggio guidata prima dal sindaco democristiano Pietro battaglia poi dal segretario della Cisnal locale, Ciccio Franco. I rivoltosi diedero fuoco a uffici pubblici e sedi di partito, occuparono due quartieri, si scontrarono quasi ogni giorno con le forze dell'ordine, fecero esplodere ordigni esplosivi sia in città sui binari della ferrovia. La crisi esplose nel luglio 1970 e fu domata solo nel febbraio 1971.
5 Nella notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970 gruppi di golpisti guidati da Junio Valerio Borghese si
concentrano in alcuni punti della città di Roma, pronti ad entrare in azione. Il misterioso golpe viene in seguito bloccato, e non accade nulla. Nell’oscura vicenda risulteranno implicati, oltre ai gruppi neofascisti responsabili dell’azione, anche i servizi segreti italiani e la massoneria.
6 Paolo Farneti, I partiti politici e il sistema di potere, in Valerio Castronovo (a cura di), L’Italia
regioni, tra cui l’Emilia-Romagna, si trova in una posizione di forza ed ha tutto l’interesse ad una espansione delle competenze regionali). Così, in una prima fase, le regioni saranno semplicemente delle grandi province e solo dopo qualche anno si passerà ad una fase «massimalista».7 Sul finire della sesta legislatura (che va dal 1972 al 1976) la materia delle deleghe regionali sarà nuovamente negoziata dalle forze politiche, portando al varo della legge n. 382 del 22 luglio 1975, cui sarebbe stato dato perfezionamento solo nel 1977. Anche la nuova fase «massimalista», tuttavia, non sarebbe stata contrassegnata da una parallela riforma dell'amministrazione pubblica e degli enti locali, lasciando in essere un assetto sostanzialmente disorganico