All’esito di questa lunga disanima, può affermarsi che nel distretto abruzzese, nell’insieme, i diversi presìdi di legalità hanno svolto la loro funzione di control-lo e repressione dei fenomeni criminali emersi, mentre cominciano ad essere operativi alcuni degli strumenti di sostegno alla legalità, operanti nel campo della prevenzione, che da tempo vengono invocati. Mi riferisco, in particolare, per questo distretto, al controllo preventivo finalizzato, nel territorio aquilano, ad intercettare possibili infiltrazioni di criminalità organizzata negli appalti per la ricostruzione, auspicando che possa efficacemente prevenire la commissione di reati tanto in ambito pubblico che privato. E tuttavia non sono abbastanza effi-caci altre agenzie di controllo preventivo, per esempio sul piano fiscale, ambien-tale, sanitario e, soprattutto, politico-amministrativo, che intervengano prima del giudice penale, la cui funzione è, e non può che essere, quella, ex post, di accertare quanto già accaduto ed, eventualmente, di applicare sanzioni che aggrediscono l’onore e la libertà delle persone.
Il processo penale è uno strumento complesso e costoso, assistito, com’è giu-sto che sia, da molteplici garanzie e dovrebbe essere usato come ultima istanza a fronte di condotte personali che la collettività senta come inaccettabili, solo dopo il fallimento di altri presìdi di prevenzione. Questo richiede però un siste-ma legislativo che appresti incentivi a condotte rispettose della legge, non già sa-natorie e condoni che, a loro volta, impegnano non poco gli uffici giudiziari che li devono applicare, magari su vicende processuali già concluse, con uno spreco di risorse che è facile comprendere.
Anche il processo civile è strumento complesso e costoso e non è accettabile che possa essere utilizzato allo scopo non già di tutela dei diritti, ma di agevolazione di condotte dilatorie o opportunistiche; è ormai noto, infatti, che il disservizio nel settore civile inibisce la nascita di nuove imprese “sane”, rende poco attratti-vi gli investimenti esteri, influenza la qualità del credito ed i suoi costi, influisce sulla prevenzione degli illeciti in campo economico (come ci hanno dimostrato gravi vicende del passato e del presente, che hanno visto il coinvolgimento di grandi aziende e di banche, con dolorose ricadute sui piccoli risparmiatori); in una parola, compromette la crescita del Paese e frustra il futuro delle giovani generazioni.
Proprio nell’anno appena trascorso il rapporto Doing Business, che verifica, tra gli altri, il parametro dei “tempi e costi delle controversie civili”, ha collocato l’Italia al 111° posto in una graduatoria di 189, ben dopo la maggior parte dei grandi paesi europei, dato negativo appena compensato dal riconoscimento della qualità della giustizia civile italiana, indicata come la migliore dopo il Regno Unito.
Occorre dire con chiarezza, allora, che la giurisdizione non può essere l’approdo di qualunque patologia del sistema, l’unica sede di soluzione dei sempre nuovi
conflitti che sorgono dalla complessità della società moderna; è risorsa limitata da utilizzare con razionalità, nel rispetto del principio costituzionale di ragione-vole durata dei processi, pena la sua progressiva irrilevanza sul piano della effet-tività e della stessa consapevolezza collettiva.
La Corte d’Appello di L’Aquila si è impegnata nel mantenere la promessa di fare la sua parte con professionalità e incisività: può vantare, infatti, un bilancio deci-samente positivo in ordine ai tempi di trattazione delle controversie in materia di lavoro, e, sia pure con minore enfasi, in materia penale (pur con le precisazioni fatte in tema di numero ancora troppo ampio delle sentenze di prescrizione).
Ne consegue che l’impegno che ora la Corte deve assumere, nella costante inter-locuzione con l’avvocatura e i dirigenti e i magistrati tutti del distretto, è quello di utilizzare al meglio le risorse per abbreviare i tempi di definizione, tuttora troppo lunghi, delle controversie civili, eventualmente individuando prassi migliori che consentano di coniugare efficacia ed efficienza del sistema.
L’efficacia, in realtà, può certamente dirsi già assicurata dai magistrati della Cor-te, per la più che soddisfacente qualità del lavoro da essi svolto, meritevole di apprezzamento da parte di tutti gli utenti del servizio giustizia per l’accuratezza dello studio e la complessiva stabilità delle decisioni (pur se i sistemi informatici in uso non consentono ancora di monitorare con esattezza i rapporti di confer-ma - riforconfer-ma - riforconfer-ma parziale tra sentenze di primo e secondo grado e la stabi-lità in cassazione delle nostre sentenze; anche sotto questo profilo mi impegno a fare in modo che ciò sia possibile più facilmente).
Quel che preoccupa, invece, è la ancora insoddisfacente efficienza, essendo tut-tora troppe, come si è visto, le controversie definite in un tempo ben superiore al biennio, individuato dalla Corte EDU come tempo accettabile per la durata del giudizio d’appello; inefficienza che, a sua volta, genera contenzioso (i risarcimen-ti ex legge Pinto) e sottrae, come si è detto, risorse importanrisarcimen-ti.
Ho fiducia che la situazione possa migliorare già da quest’anno, anche solo per il fatto che finalmente la Sezione civile vede il suo organico interamente coperto, anzi aumentato in ragione dell’applicazione continuativa di un consigliere della Sez. lavoro, e che, cessata la fase di avvio dell’applicazione dei Giudici Ausiliari, questi possano dare per intero il loro contributo alla sezione, quantomeno nella misura minima imposta dalla legge (90 sentenze annue per ciascuno).
Un elemento di difficoltà può sorgere, nell’immediato, dall’applicazione della legge 229/16, il cui art.49 ha stabilito, nonostante l’agibilità dei tribunali interessati, non solo la sospensione dei processi civili e penali pendenti nei comuni indicati (Tera-mo per il nostro distretto), ma in genere il rinvio d’ufficio a data successiva delle udienze per i processi, anche pendenti presso la Corte o altri uffici giudiziari, nei quali una parte o un difensore siano residenti nei comuni elencati (oltre a Teramo, numerosi comuni delle provincie di Teramo e L’Aquila), con una previsione gene-ralizzata, forse eccessivamente ampia, che prescinde dalle istanze di parte.
Chiariti tali dati di stretta attualità, ritengo, tuttavia, che la sfida sia più ampia e che, in generale, sia quella di riuscire a coniugare il diritto di ognuno di vedere esaminata la sua vicenda processuale con la massima attenzione e professionalità (nella consapevolezza che nei nostri fascicoli sono coinvolti la vita e gli affetti, l’onore e il patrimonio della gente), con quello, non solo della certezza del dirit-to, ovvero della tendenziale prevedibilità e uniformità delle decisioni, ma anche dell’efficienza complessiva della giurisdizione, tema non più eludibile da parte nostra.
Sappiamo, infatti, che il rispetto del principio costituzionale del giusto processo passa anche attraverso le scelte organizzative dei dirigenti degli uffici giudiziari, dovendo la razionalità delle regole di funzionamento essere tarata sia sulla con-sistenza dell’arretrato (che non è una variabile indipendente, ma il dato sul quale impostare le modalità di lavoro) che sulla corretta individuazione degli obiettivi da perseguire, derivante da un’analisi attenta dei flussi e delle risorse disponibili.
Tendiamo spesso a lamentarci della scarsità delle risorse - personali e materiali - e lo abbiamo fatto anche in questa sede.
Per noi magistrati, però, non è più il tempo delle mere recriminazioni, non è più il tempo di chiedere che altri si facciano carico del corretto funzionamento del sistema-giustizia, perché così si accetta di perdere parte dell’autonomia e dell’in-dipendenza che la Costituzione ci garantisce, con il rischio di trasformarci in (o di tornare ad essere) funzionari che difendono il proprio status, disinteressandosi del resto, cedendo pericolosamente a quello che Calamandrei definiva il morbo peggiore che può affliggere un magistrato: la pigrizia morale che sfocia nella sostanziale indifferenza del burocrate.
D’altra parte, cedendo alle ragioni dei numeri, e limitandoci a vedere il problema solo dal lato della “produttività”, come talvolta ci capita di fare, sollecitati da più parti, rischiamo una sorta di deriva aziendalista (che qualcuno ha definito “fordi-smo giudiziario”), che è e deve rimanere estranea al nostro ruolo.
L’equilibrio da perseguire è allora quello tra garanzia della qualità dei provvedi-menti decisori - connotati dalla trasparente giustificazione delle ragioni su cui si fondano e dalla effettività delle soluzioni adottate -, e l’adeguata misurazione dei tempi di adozione degli stessi, perché la qualità del servizio si misura anche sotto questo profilo e perché una giustizia ritardata, come diceva già Montesquieu e come sappiamo bene, è una giustizia negata.
La strada per un approccio innovativo al profilo della organizzazione (tema sul quale si è tenuto un bel convegno a Teramo, nel maggio scorso, su iniziativa del Procuratore della Repubblica), che la Corte sta affrontando e gestendo - bene, a mio avviso - sul piano dello “spoglio” preventivo e della conoscenza appro-fondita della “domanda” che perviene sui nostri tavoli, oltre che su quello del miglior utilizzo degli strumenti informatici, può trovare nuova linfa in un tema
di cui si parla da tempo in termini per lo più astratti: quello della semplificazione, o della sinteticità, degli atti processuali, già declinato in numerose norme del co-dice di procedura civile con riferimento ai provvedimenti giudiziari.
Com’è noto la giurisdizione amministrativa da tempo riflette sulla questione, sottolineando l’esigenza di un contenimento anche “fisico” delle argomentazioni utilizzabili a sostegno degli assunti difensivi, pur evidenziando che la sinteticità è canone ben diverso dalla categoria “quantitativa” della brevità.
Anche la giurisprudenza europea, che da poco abbiamo imparato a studiare, è orientata su modelli argomentativi semplificati e uniformi, che rispondono me-glio alla necessità di evidenziare i sillogismi logici che costituiscono il nucleo di ogni decisione. Lo stesso può dirsi, almeno per quella che è l’esperienza di questa Corte nella materia dei Mandati di Arresto Europei e delle estradizioni, quando si ha modo di leggere sentenze dei giudici di merito di altri paesi europei, in ge-nere improntate a grande essenzialità espositiva.
D’altronde solo poche settimane fa la Commissione ministeriale sulla sinteticità degli atti processuali ha depositato il suo importante lavoro di studio e proposta (anche normativa), richiamando, nell’incipit il rapporto 26.4.2016 del Consiglio d’Europa in tema di indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici, che raccomanda espressamente che le sentenze siano scritte in modo chiaro e age-volmente comprensibile anche dal pubblico.
La Cassazione, infine, nell’ultimo anno e a seguito delle importanti modifiche in-trodotte dalla legge 25.10.2016, n.197, ha portato a maturazione la riflessione già avviata sottoscrivendo protocolli d’intesa con la Procura Generale e il Consiglio Nazionale Forense, in cui è affrontato anche il tema delle tecniche di redazione degli atti difensivi e delle impugnazioni.
La questione è, com’è evidente, di natura culturale, non potendo essere conce-pita solo in termini di finalizzazione ad una maggiore produttività, mera perfor-mance che si consuma mentre si compie, priva di prospettiva. Essa coinvolge necessariamente tutti gli attori del processo, le parti pubbliche e private - gli avvocati in primo luogo -, dalla cui iniziativa nasce ogni procedimento. In questa ottica il giudice, co-protagonista di questo cambiamento, diventa responsabile non solo della correttezza della soluzione adottata nel caso concreto, ma anche della qualità delle motivazioni e della loro comprensibilità, perché rientra nel suo profilo professionale - la capacità, essenziale parametro di valutazione - dotarsi di un linguaggio che, attraverso una tecnica argomentativa improntata all’essen-zialità e alla chiarezza del ragionamento giuridico, oltre che alla coerenza interna, non preveda troppi filtri tecnicistici alla comprensione della decisione da parte dell’utente medio della giustizia, anche non professionale.
Tanto più la sentenza potrà essere chiara ed essenziale, sintetica, articolata per punti di immediata comprensibilità logica, quanto più anche gli atti processuali di parte rivestano le medesime qualità, il che nulla toglie alla libertà e ampiezza del diritto di difesa; lo stesso, in fase di impugnazione, potrà dirsi per gli atti di
gravame, che dovrebbero essere articolati per punti, funzionali a individuare la diversa soluzione prospettata in relazione a ciascun tema difensivo; il giudice dell’impugnazione, infine, seguendo il medesimo schema logico-retorico, potrà con minor dispendio di energie cogliere i punti deboli e i punti di forza del provvedimento impugnato, valutando la resistenza dello stesso al venir meno dei primi e confrontando i secondi con le prospettazioni di chi impugna.
Proprio per queste ragioni ritengo che la fase di appello costituisca il campo mi-gliore, sia in sede civile che penale, per sperimentare nuovi modelli di redazione dei provvedimenti, nella piena consapevolezza che ciò richiede disponibilità al cambiamento e quindi tempo, intelligenza, riflessione, capacità di ascolto, con-divisione. La base di tutto è, ancora una volta, il dialogo tra i magistrati e le parti processuali, l’avvocatura innanzitutto, interlocutore indispensabile di ogni cam-biamento culturale che concerne il sistema-giustizia. Dialogo che, per il settore civile, dovrà spaziare, come anticipato, anche sul tema degli strumenti deflattivi individuati dal legislatore negli ultimi anni, indispensabile per incidere sulla quan-tità della domanda di giustizia, cercando insieme di comprendere le ragioni del loro scarso successo e individuare i modi per rivitalizzare nel distretto istituti che sembravano risolutivi e che altrove hanno dato frutti senz’altro migliori. Su questi temi, oltre che su quelli consueti della organizzazione delle udienze e degli uffici, propongo all’avvocatura del distretto, coinvolgendo le nostre validissime strutture formative e il mondo accademico, tavoli di lavoro che possano con-durre ad una nuova stagione di “protocolli” d’intesa, strumenti rivelatisi utili e proficui in campo penale, non ancora abbastanza valorizzati in sede civile.
Uno sforzo di questo genere contribuisce, a mio parere, a confermare la legitti-mazione dei giudici nella società moderna, che non può derivare, una volta per tutte, dal superamento di un concorso pubblico, per quanto serio e selettivo esso sia, ma va conquistata ogni giorno sul campo, anche sul piano dell’autorganizza-zione, con serietà, professionalità e capacità di rimettersi in gioco, perché, come diceva Martin Luther King, può darsi che noi non siamo responsabili della situa-zione in cui ci troviamo, ma lo diventeremo se non faremo nulla per cambiarla.