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PENTEO, TIRANNO EMPIO E FURIOSO

I. Contemptor superum Pentheus

Uno dei tratti principali che, nella tradizione mitica e letteraria, distinguono l’immagine ed il ruolo di Penteo è, sicuramente, l’empietà: il re tebano è, in primo luogo, il nemico di Dioniso, l’avversario degli dèi. Nelle Baccanti il personaggio rappresenta l’archetipo del qeom£coj, dell’uomo che pretende di competere con un dio, opponendo la grandezza umana a quella divina; l’uso del verbo qeomace‹n (vv. 45-46: Öj qeomace‹ t¦ kat' ™m kaˆ spondîn ¥po / çqe‹ m' ™n eÙca‹j t' oÙdamoà mne…an œcei)143 appare funzionale a presentare la colpa di Penteo come insolente sfida ad una

divinità144, come superba pretesa di “vincere con la forza ciò che è invincibile” (v. 1001:

t¢n…katon æj krat»swn b…ai), pretesa che lascia trasparire una volontà di oltrepassare i limiti assegnati alla condizione umana, che sarà punita con un violento rovesciamento della sorte del protagonista. Una formulazione simile della colpa di Penteo ritorna ai versi 635-636, pronunciati dallo stesso Dioniso ed incentrati sul tema del conflitto tra uomo e dio: prÕj qeÕn g¦r ín ¢n¾r / ™j m£chn ™lqe‹n ™tÒlmhs'.

Un frammento del Lucurgus di Nevio sembra testimoniare come il motivo dell’empia opposizione dell’uomo ad un dio e del drammatico contrasto tra umano e divino dovesse costituire un nucleo tematico di importante rilievo nella rappresen- tazione della vicenda mitica dell’altro famoso nemico di Dioniso, Licurgo:

caue sis tuam contendas iram contra cum ira Liberi (36 R.³)

143 Il verbo ricorre anche al verso 1255, quando Agave, tornata dalla sua folle caccia, si augura

che il figlio, capace solo di combattere gli dèi, possa un giorno diventare un abile cacciatore, come la madre: e‡qe pa‹j ™mÕj / eÜqhroj e‡h ... / ... / ... ¢ll¦ qeomace‹n mÒnon / oŒÒj t' ™ke‹noj (vv. 1252 ss.).

Il verso, citato da Nonio nel quarto libro della Compendiosa doctrina per l’uso di contendere nel senso di comparare145, potrebbe appartenere ad uno scontro verbale

tra il re trace e Dioniso, che lo ammonisce di guardarsi bene dal provocare, con la sua ira, quella di un dio, sebbene non si possa escludere l’ipotesi che a pronunciare queste parole sia non Liber, ma un personaggio del seguito di Licurgo oppure un componente del corteo dionisiaco.146 In questo avvertimento a non voler competere con l’ira di un

dio, avvertimento la cui incisività è rafforzata dal ricorso ad un artificio retorico proprio della lingua arcaica quale l’allitterazione, si colgono la causa e la natura dell’empietà di Licurgo, che non è solo sacrilego disconoscimento della divinità di Bacco, ma anche arrogante pretesa di misurarsi con un dio, che si traduce in un atto di hybris, di tracotante dismisura. Ad un contesto simile di ammonimento a non opporsi alla forza di un dio, potrebbe essere ricondotto un frammento delle Baccanti di Eschilo147 (fr. 22 R.),

in cui leggiamo:

tÒ toi kakÕn podîkej œrcetai broto‹j kaˆ t¢mpl£khma tù perînti t¾n qšmin

Sebbene lo stato frammentario dei versi e le scarse informazioni in nostro possesso sulla tragedia impediscano di contestualizzare ed interpretare con precisione il frammento, l’affermazione in esso contenuta, relativa al ricadere della colpa (¢mpl£khma) su chi trasgredisce la giustizia divina, sembrerebbe adattarsi alla

145 Non. 395 L.: «Contendere significat comparare..Naevius in Lycurgo: cave …Liberi». Lattanzi

1994, p. 246, pone giustamente l’attenzione sull’espressione caue sis contendas, in cui è conservata la traccia della costruzione paratattica originaria, con il congiuntivo che segue immediatamente il verbo principale senza alcuna congiunzione. Sui possibili valori del congiuntivo in costruzioni di questo tipo (potenziale/eventuale o ottativo/volitivo), cfr. Ernout-Thomas 1972, p. 291.

146 Warmington 1957, p. 133 e Traglia 1986, p. 203 ritengono che il frammento appartenga ad un

alterco tra Licurgo e il dio, mentre l’ipotesi suggerita da Mette attribuisce il verso ad un personaggio del seguito di Licurgo, che cerca di convincere il re a non esporsi alla collera di Dioniso. Pastorino 1955, p. 38, attribuisce il verso ad un componente del corteo dionisiaco, condotto dinanzi a Licurgo. Sulla collocazione del frammento, si vedano anche Marmorale 1950², p. 195 e Lattanzi 1994, p. 264 n. 450.

147 Eschilo aveva dedicato alla leggenda tebana di Dioniso una tetralogia, la cui formazione è

purtroppo difficile da stabilire, dato lo scarso numero di frammenti a noi pervenuti. Abbiamo cinque titoli tramandati: B£kcai, X£ntriai, PenqeÚj, Semšlh ½ `UdrofÒroi, Trofo…. Molteplici sono le ipotesi di ordinamento dei titoli e di ricostruzione della tetralogia avanzate dagli studiosi: da chi vi esclude Trofo…, a chi considera B£kcai come titolo alternativo del PenqeÚj o delle Bass£rai (tragedia che appartiene all’altra trilogia eschilea dedicata ad argomenti dionisiaci, ossia la Licurgia), o ritiene che B£kcai o PenqeÚj fosse il titolo dell’intera trilogia, a chi esclude invece le X£ntriai, ritenendo che la tragedia avesse per oggetto la punizione delle figlia di Minia (sulla complessa questione, si veda TrGF III, p. 117, Dodds 1960², p. xxvi; Gantz 1980). Per quanto riguarda le Baccanti, quello sopra riportato è comunque l’unico frammento della tragedia ad esserci giunto.

condizione di Penteo, il cui errore ha origine, appunto, da un eccesso, dalla volontà di travalicare i limiti imposti all’uomo: l’atto di superare, oltrepassare e, quindi, trasgredire (per£w) l’ordine stabilito delle cose, ciò che è lecito e conforme ad una giustizia universale di origine divina (qšmij)148, sembra tradurre la colpa di Penteo, frutto di

eccessiva tracotanza149. L’efficacia del concetto espresso in questi versi appare, peraltro,

accentuata dalla formulazione gnomica, che conferisce alla riflessione un valore generalizzante, teso a far apparire la massima come una verità universalmente valida150.

Tornando alle Baccanti di Euripide, la dura condanna della Ûbrij di Penteo definita, in forte contrapposizione all’ `Os…a invocata dal coro in un contesto di accentuata solennità religiosa, oÙc Ðs…a (vv. 370-375: `Os…a pÒtna qeîn / `Os…a ... / ¢…eij oÙc Ðs…an / Ûbrin ™j tÕn BrÒmion), nonché la successiva qualificazione del personaggio come ¢seb»j (v. 502) o ¢dikîn confermano l’immagine di Penteo quale sacrilego oppositore al culto di Bacco, immagine che ritroviamo nel carme 26 di Teocrito, dedicato alla narrazione della fine di Penteo. Bšbaloi (v. 14) sono infatti definiti dal poeta gli occhi del re che, nascostosi dietro una roccia, osserva i riti segreti delle Baccanti, a cui, in qualità di non iniziato, non avrebbe potuto assistere. Dopo aver descritto lo sparagmÒj del personaggio ad opera di Ino, Autonoe ed Agave, l’ “io” del narratore interviene direttamente, invitando a non criticare l’azione delle donne tebane e a non biasimare l’opera degli dèi: “e nessun altro si preoccupi di un nemico di Dioniso, neppure se dovesse soffrire pene più dure di queste. … Per me voglio essere puro e gradito a chi è puro. … Salute all’avvenente Semele ed alle sue sorelle ... che per impulso di Dioniso compirono quest’opera non criticabile. Nessuno biasimi le azioni degli dei”151, afferma Teocrito, commentando la morte del protagonista ai versi 27 ss. La

tradizionale rappresentazione di Penteo quale re empio ed ingiusto sarà ripresa ed accentuata da Nonno nella sezione delle Dionisiache contenente la Penteide (canti 44-

148 Sul concetto di qšmij, cfr. Bosco 1967, Corsano 1988 e Lo Schiavo 1997.

149 Può essere interessante osservare come il verbo per£w compaia più volte nei Persiani di

Eschilo per indicare il superamento del mare di Elle, che costituisce la colpa di Serse: l’azione di oltrepassare le rive dell’Ellesponto attraverso la costruzione di un ponte di barche coincide con un atto di superamento dei limiti assegnati all’uomo, poiché aggiogare il mare significa disconoscere la sacralità e la divinità che è nella natura, ed imporre una volontà di dominio, che sfocia nel campo della hybris, della trasgressione: “Mio figlio, senza comprendere, realizzò questi piani con audacia giovanile, lui che ha sperato di trattenere in catene-come uno schiavo- la corrente del sacro Ellesponto, il Bosforo corrente divina … pur essendo mortale, credeva stoltamente che gli dèi tutti, anzi Posidone avrebbe dominato” (trad. Belloni), esclama Dario ai versi 744 ss. Sui concetti di colpa e responsabilità in Eschilo, si veda Newiger 1986, pp. 485 ss.

150 Sull’uso di gnomai in Eschilo, cfr. Zanichelli 1990.

46), in cui il personaggio appare come “archetipo dell’operatore di ogni male e di ogni empia teomachia”152: la definizione di ¢qšmistoj ¥nax (44, 17) si accorda

perfettamente con la successiva descrizione che lo rappresenta nell’atto di preparare un’armata per combattere il dio (v. 18: kaˆ strati¾n ™kÒrusse mac»mona), e può essere avvicinata all’epiteto ¢t£sqaloj, attribuitogli in una sequenza di versi emblematici per la caratterizzazione del Penteo di Nonno che, interessato a ricondurre il personaggio alla tipologia del tiranno, lo rappresenta secondo tratti propri di altri teomachi o re ingiusti: zÁlon œcwn Øpšroplon, ¥nax kuma…neto PenqeÚj. / kaˆ keneÁj procšwn Øper»nora kÒmpon ¢peilÁj / to‹on œpoj dmèessin ¢t£sqaloj ‡ace PenqeÚj (vv. 131-135). Se la smisuratezza (Øpšroplon) lo avvicina all’altro avversario di Dioniso, Licurgo (cfr. Dion. 20, 404: dusseb…hn Øpšroplon ÑpipeÚwn LukoÒrgou), gli aggettivi Øper»nwr e ¢t£sqaloj compaiono entrambi nella

Teogonia di Esiodo per qualificare il tiranno Pelia (vv. 995-996: basileÝj Øper»nwr /

Øbrist¾j Pel…hj kaˆ ¢t£sqaloj ÑbrimoergÒj), mentre la superbia (kÒmpoj) caratterizza la figura dell’empio Capaneo nei Sette contro Tebe di Eschilo (v. 425: Ð kÒmpoj d' oÙ kat' ¥nqrwpon frone‹); l’espressione zÁlon œcwn ritorna invece in

Paraphr. S 66 (zÁlon œcwn Cristo‹o qehm£con ‡ace fwn»n), istituendo così un

interessante accostamento fra l’empio Penteo ed i sacerdoti del tempio ebraico, avversari di Cristo.153 Si può, infine, ricordare un componimento dell’Antologia Pala- tina (3, 1) che, dedicato alla glorificazione di Semele, portata in cielo dopo la morte dal

figlio Dioniso, parla dell’ “empio oltraggio di Penteo” (v. 4: t¦n ¥qeon Penqeàj Ûbrin).

Dopo aver cercato di mostrare come l’empietà costituisca un tratto distintivo della figura di Penteo dalla tragedia greca sino alla tarda antichità154, torniamo al testo

delle Metamorfosi, allo scopo di comprendere come Ovidio abbia rappresentato questo aspetto tradizionale del personaggio. Le osservazioni proposte nel precedente paragrafo sulla struttura del segmento incipitario dell’episodio ovidiano, basata sulla ripresa e

152 Tissoni 1998, p. 68.

153 Per questi raffronti linguistici, si veda l’ampio commento di Tissoni 1998 (pp. 122-125), utile

per comprendere l’uso, da parte di Nonno, di molteplici fonti letterarie per la rappresentazione del personaggio di Penteo.

154 Per quanto riguarda la produzione letteraria latina, oltre all’episodio ovidiano di Penteo, si può

ricordare come lo stesso Ovidio definisca impia l’ombra di Penteo in trist. 5, 3, 40, e come in Stazio

Theb. 7, 209 s., Giove alluda al rifiuto di Penteo di accettare il culto bacchico per esemplificare l’abituale

sulla contemporanea variazione di topoi tragici, hanno permesso di evidenziare come motivo centrale del racconto l’empietà del re, che fin dai primi versi, appare caratterizzato secondo i tratti tipici del tiranno empio e furioso. La narrazione, incentrata sul tema della hybris punita dal dio, si conclude con il completo rovesciamento del destino dell’empio: chi, all’inizio, accusava i riti bacchici di mistificazione e depravazione, considerandoli solo magicae fraudes (v. 534), si troverà non solo a riconoscere il proprio errore, ma a dover fornire, con la propria morte, un exemplum che inviti al rispetto del culto dionisiaco: talibus exemplis monitae noua sacra frequentant /

turaque dant sanctasque colunt Ismenides aras (732-733), versi che appaiono in linea

con il commento di Cadmo alla terribile morte del re nelle Baccanti di Euripide: e„ d' œstin Óstij daimÒnwn Øperfrone‹ / ™j toàd' ¢qr»saj q£naton ¹ge…sqw qeoÚj (vv. 1325-1326). Un’analisi delle scelte lessicali operate dal poeta, unita ad un’indagine sull’intertestualità155, oltre a confermare la rilevanza attribuita al tema dell’empietà,

rivelano come nel creare il personaggio di Penteo, Ovidio si sia avvalso non solo del modello euripideo, ma anche dell’implicito raffronto con altri re o tiranni empi ed ingiusti. L’emblematica definizione di contemptor superum (v. 514), oltre a conferire all’empietà del personaggio una valenza più totalizzante e, quindi, più radicale di quanto non faccia Euripide che, nelle Baccanti, introduce un’importante restrizione del comportamento sacrilego del re, rivolto unicamente a Dioniso156, richiama da vicino

l’espressione contemptor diuum157, con cui Virgilio qualifica il personaggio di Mezenzio

al momento della sua prima apparizione nel poema (7, 648), espressione che troviamo ripetuta all’inizio del libro ottavo (contemptor deum, v. 7), quasi a voler consacrare l’epiteto come formula propria dell’eroe etrusco158. L’immagine che il poeta dell’Eneide

ci consegna di questo personaggio è quella di un tiranno sanguinario, caratterizzato da immane ferocia ed empietà. La crudeltà è evidenziata soprattutto nel fosco ritratto delineato da Evandro che, in Aen. 8, 478-495, ricorda le ripugnanti torture e i mostruosi crimini di cui il tiranno si era macchiato durante il dominio della città di Agilla, da cui

155 Su questo concetto, cfr. Conte-Barchiesi 1989.

156 Dioniso, parlando dell’opposizione mostrata da Penteo nei confronti del suo culto, esclama:

“(Penteo) empiamente mi combatte (qeomace‹ t¦ kat' ™m), solo me fra tutti gli dèi, mi esclude dalle libagioni e nelle preghiere di me mai si ricorda” (vv. 45-46).

157 Cfr. Bömer, ad loc.; Galasso 2000, p. 900; Barchiesi 2007, ad loc.

158 Sulla figura di Mezenzio, si veda l’importante contributo di La Penna 1980, che individua

come probabile innovazione introdotta da Virgilio nella caratterizzazione del personaggio, il “legame essenziale … di empietà e tirannia” (p. 4).

era stato cacciato con una rivolta dei cittadini, stanchi dei suoi orribili delitti159; il

quadro della disumana efferatezza del tiranno è confermato dalla similitudine in cui Mezenzio è paragonato ad un leone affamato, che si avventa sulla preda, spalancando le enormi fauci e divorandone le viscere, con il muso nero di sangue160. Nella costruzione

del personaggio virgiliano, alla spietatezza si unisce strettamente l’empietà, per la quale il poeta poteva appoggiarsi ad una solida tradizione, nota già a Catone: per spiegare la qualificazione di Mezenzio come “spregiatore degli dèi”, Macrobio (Sat. 3, 5, 10-11) ricorre infatti ad una tradizione risalente alle Origines di Catone, secondo cui il re etrusco avrebbe preteso di ricevere, in cambio dell’alleanza coi Rutili, le primizie del raccolto generalmente offerte agli dèi: sed ueram huius contumacissimi nominis causam

in primo libro Originum Catonis diligens lector inueniet. Ait enim Mezentium Rutulis imperasse ut sibi offerrent quas dis primitias offerebant, et Latinos omnes similis imperii metu ita uouisse: «Iuppiter, si tibi magis cordi est nos ea tibi dare potius quam Mezentio, uti nos uictores facias». L’arrogante richiesta di onori divini e la prete- sa di

sostituirsi agli dèi pongono le basi per un’accusa di empietà al tiranno: ergo quod

diuinos honores sibi exegerat, merito dictus a Vergilio contemptor deorum (Sat. 3, 5,

11). Nella presentazione del suo personaggio, Virgilio ha evidentemente ritenuto di poter tralasciare questo episodio perché, spiega La Penna161, per l’autore dell’Eneide il

re etrusco è già un terribile tiranno, scacciato dalla sua città per l’odio suscitato nel popolo, e proprio in quanto tiranno, che ha violato i giusti rapporti con la comunità, disprezzando gli dèi e le leggi che da essi emanano, non può che essere empio. L’essenza dell’empietà di Mezenzio non consiste quindi nella negazione dell’esistenza degli dèi ma, piuttosto, nella violazione del sistema morale da essi garantito e nella tracotante affermazione della propria forza, che si pretende in grado di competere con la potenza divina162. Emblematici, al riguardo, i versi in cui il re, in procinto di scagliare

l’asta contro Enea, rivolge una preghiera alla sua mano e alla sua arma, piuttosto che ad una divinità: Dextra mihi deus et telum, quod missile libro, / nunc adsint (10, 773-774),

159 Verg. Aen. 8, 481 ss.: Hanc multos florentem annos rex deinde superbo / imperio et saeuis tenuit Mezentius armis. / Quid memorem infandas caedes, quid facta tyranni / effera? di capiti ipsius generique reseruent ! / mortua quin etiam iungebat corpora uiuis / componens manibusque manus atque oribus ora, / tormenti genus, et sanie taboque fluentis / complexu in misero longa sic morte necabat.

160 Verg. Aen. 10, 723 ss.: impastus stabula alta leo ceu saepe peragrans / (suadet enim uesana fames), si forte fugacem / conspexit capream aut surgentem in cornua ceruum, / gaudet, hians immane, comasque arrexit et haeret / uisceribus super incumbens, lauit improba taeter / ora cruor, / sic ruit in densos alacer Mezentius hostis.

161 La Penna 1980, p. 9. 162 La Penna, 1980, p. 14.

versi in cui emerge lo smisurato orgoglio del personaggio, l’eccessiva fiducia nelle proprie forze.163 La ripresa, da parte di Ovidio, del sintagma attribuito a Mezenzio

sembra avere la funzione di guidare e condizionare il lettore nell’interpretazione del personaggio di Penteo, individuandone come caratteristica saliente l’atteggiamento sacrilego verso il divino, che in questo caso si traduce in una combinazione di ateismo (Penteo nega la natura divina di Bacco) e di sprezzante derisione di ciò che è sacro164;

l’immediato richiamo alla figura del tiranno etrusco mi sembra contribuire a qualificare l’empietà di Penteo non solo in termini di disconoscimento della divinità di Bacco, di cui egli nega la discendenza da Zeus (v. 558: adsumptumque patrem commentaque

sacra; vv. 559-560: uanum numen), ma anche come arrogante affronto alla superiorità

ed alla sacralità di ciò che appartiene alla sfera divina, nonché come violazione della moralità dei rapporti tra gli uomini, come testimonia il disprezzo per le profezie e la cecità di Tiresia. Coerente con questo quadro, appare l’uso di contemptor: l’empietà che, nell’ambito del linguaggio religioso, esprime il verbo contemnere non è solo negligenza, dimenticanza, trascuratezza nei confronti di una divinità, ma implica anche la manifestazione di un atteggiamento di aggressività e sfida165, fondato su un superbo

disprezzo della superiorità degli dèi; contemnere significa anche resistere, lacessere,

irridere166, da cui contemptor nel senso di pertinax, durus, superbus167.

163 Già Sullivan 1969 aveva spiegato l’empietà di Mezenzio come arrogante convinzione della

potenza e sufficienza delle proprie forze. Per quanto riguarda questo aspetto, il personaggio di Mezenzio potrebbe risentire dell’influsso di noti precedenti letterari quali Capaneo (Sept. 441: qeoÝj ¢t…zwn) o Partenopeo (ib. 529 ss.) di Eschilo o Ida di Apollonio (1, 151; 466 ss.). Cfr. Horsfall 2000, p. 425.

164 L’analogia tra i due personaggi sembra, comunque, limitarsi al motivo dell’empietà e della

tirannia, data la profonda complessità che distingue la figura di Mezenzio in cui, secondo l’acuta interpretazione di La Penna, la bestialità tirannica si unisce alla virtus eroica, ad un fiero spirito di indipendenza che niente, né la paura della morte, né gli dèi possono scalfire. Il tiranno etrusco è contraddistinto da un esasperato senso della propria autonomia, da un’invulnerabilità di fronte alla realtà esterna (La Penna 1980, pp. 22-23), che mostra analogie e contemporaneamente differenze rispetto al concetto di fermezza predicato da correnti filosofiche quali lo stoicismo, e che appare accentuato dalla svolta drammatica rappresentata dalla perdita dal figlio. Se, quindi, Virgilio riserva a Mezenzio una morte atroce e gloriosa, adatta al carattere paradossale del personaggio, la cui ferocia non ha annientato il senso dell’onore e la pietas verso il figlio, non altrettanto si può dire per il Penteo ovidiano che, dopo aver mostrato un’ostinata inflessibilità, connotata anche in senso eroico, va incontro ad una morte umiliante, come testimonia il grido finale (aspice, mater!) che, “dopo tanta superbia, è uguale alla voce di un bambino indifeso” (Barchiesi 2007, p. 238).

165 Su contemnere come verbo del linguaggio religioso, si veda Fugier 1963, pp. 176 ss. 166 Cfr. ThlL IV, p. 639, 74.

167 Per questa definizione, si veda Corpus Glossariorum Latinorum, ed. G. Goetz, Amsterdam

1965, vol. VI, p. 268. Al di fuori dell’ambito mitico, per l’uso di contemptor, mi sembra interessante ricordare un passo del terzo libro di Livio, in cui deorum hominumque contemptor è definito il decemviro Appio Claudio, di cui lo storico sottolinea la crudeltà e l’empietà, in un ritratto che per le sue caratteristiche essenziali richiama la tipologia del tiranno: contra ea Verginius unum Ap. Claudium et

legum expertem et ciuilis et humani foederis esse aiebat: respicerent tribunal homines, castellum omnium scelerum, ubi decemuir ille perpetuus, bonis, tergo, sanguini ciuium infestus, uirgas securesque omnibus

Al riguardo, appare degno di nota che contemptrix superum sia definita, al verso 161 del I libro delle Metamorfosi, la stirpe degli uomini nata dal sangue dei Giganti: l’empio tentativo di assalire il cielo, compiuto dai Giganti, è punito da Giove mediante la distruzione dei monti Olimpo, Ossa e Pelio che, sovrapposti l’uno all’altro, avrebbero dovuto consentire la scalata verso il regno celeste, finendo per diventare, invece, lo