PENTEO, TIRANNO EMPIO E FURIOSO
III. Ovidio met 3, 564-
III. 1. La rabies di Penteo: allusione implicita alla furia dell'animale ribelle
arrestarsi sull’oceano: illi admirantes remorum in uerbere perstant (v. 662).
E ancora, ai versi 704-707, leggiamo:
ut fremit acer equus, cum bellicus aere canoro signa dedit tubicen, pugnaeque adsumit amorem, Penthea sic ictus longis ululatibus aether
mouit et audito clamore recanduit ira.
La similitudine con il cavallo bramoso di combattere, su cui già abbiamo avuto modo di soffermarci, proietta ancora la figura del re in una dimensione eroica, come conferma la dizione che si caratterizza per un’elevatezza tipica, appunto, dello stile epico-eroico. L’immagine è conclusa da un verbo di formazione ovidiana, recanduit, che variando i semplici candeo / candesco o il composto excandesco mediante l’aggiunta del prefisso re-, crea un particolare gioco di iterazione fonica, dato dalla ripetizione della sillaba finale del precedente clamore (clamore recanduit209):
l’allitterazione –re re- e la prevalenza del suono aspo r, con il successivo ira, sembrano avere l’effetto di riprodurre, a livello fonico, l’infiammarsi e il crescere dell’ira del sovrano.
III. Ovidio met. 3, 564-571
III. 1. La rabies di Penteo: allusione implicita alla furia dell'animale ribelle
Per quanto riguarda il tema dell’ira, vorrei ora soffermarmi su una particolare sequenza di versi, che ho fin qui tralasciato di menzionare, in quanto degna, a mio parere, di un’analisi più approfondita, perché emblematica per comprendere l’importanza attribuita da Ovidio a questo motivo di ascendenza tragica. Si tratta dei
209 L’iterazione della sillaba finale e di quella iniziale costituisce un particolare effetto stilistico,
stigmatizzato come cacenphaton dai grammatici e retori antichi, e di cui gli autori latini facevano ampio uso, a partire da Virgilio: basti ricordare il nesso Dorica castra, a proposito del quale Servio (ad Aen. 2, 27) affermava: mala est compositio ab ea syllaba incipere, qua superior finitus est sermo, nam
plerumque et cacenphaton facit. Cfr., inoltre, il giudizio di Quintiliano 9, 4, 41 e di Marziano Capella 5,
versi 564-571, in cui il poeta sottolinea la rabies del re, rabies che cresce e si inasprisce quanto più tutti cercano di frenarla:
hunc auus, hunc Athamas, hunc cetera turba suorum corripiunt dictis frustraque inhibere laborant.
acrior admonitu est inritaturque retenta
et crescit rabies, moderaminaque ipsa nocebant 210. (sic ego torrentem, qua nil obstabat eunti,
lenius et modico strepitu decurrere uidi;
at quacumque trabes obstructaque saxa tenebant, spumeus et feruens et ab obice saeuior ibat.)
Per illustrare la naturale tendenza di Penteo ad un’emotività e a gesti irrazionali, Ovidio ricorre ad una prima sequenza di versi (564-567) in cui sembra possibile individuare un’allusione implicita alla furia dell’animale che si ribella. Notevole, innanzitutto, la struttura del v. 564 con la triplice, enfatica ripetizione di hunc, seguito dall’indicazione di chi cerca di trattenere Penteo, come a voler sottolineare la reiterazione dei tentativi di calmare il re, tentativi però vanificati dalla sua cieca ostinazione. L’accostamento implicito all’immagine della fiera indomita sembra essere suggerito, innanzitutto, dalla presenza della parola rabies, che Ovidio impiega per esprimere l’ira alla quale il personaggio si abbandona e che viene a trovarsi, peraltro, in posizione di particolare rilievo insieme a et crescit per effetto dell’enjambement. Il termine, usato ad indicare propriamente la natura selvaggia, rabbiosa degli animali e poi impiegato metaforicamente in relazione all’uomo per alludere alla furia, all’ira, ad una passione sfrenata, mi è apparso particolarmente appropriato alla scena che Ovidio descrive non solo perché evidenzia il carattere indomito, feroce del personaggio, ma anche perché sembra conservare metaforicamente il suo valore originario, alludendo alla rabies dell’animale che cerca di sfuggire al controllo dell’uomo. L’immagine di Penteo che si ribella ai moniti di chi lo circonda, che hanno come unico effetto quello di
210 Il testo qui citato differisce da quello di Tarrant 2004, che al v. 567 accoglie la lezione remoraminaque: per una discussione del problema testuale, cfr. infra, pp. 75 ss.
inasprire la sua ira, richiama alla mente quella della fiera che si oppone ai tentativi di essere domata211.
Tra le varie ricorrenze di rabies nel poema ovidiano, può essere interessante citare un passo del I libro in cui il termine, attribuito a Licaone, l’empio tiranno il cui tratto principale è l’innata ferocia, viene impiegato proprio nel momento decisivo in cui sta per avvenire la metamorfosi in lupo: territus ipse fugit…/ exululat frustraque loqui
conatur; ab ipso / colligit os rabiem, solitaeque cupidine caedis / uertitur in pecudes et nunc quoque sanguine gaudet (vv. 232 ss.). La rabies caratterizza, quindi, la fase della
perdita dell’identità umana e dello “sconfinamento verso il mondo animale”212. Un
ulteriore esempio dell’uso del termine per indicare la furia di personaggi che assumono tratti caratteristici del tiranno, può essere offerto dalla Pharsalia di Lucano. La rabies vi compare più volte come tratto distintivo di Cesare, alcuni aspetti della cui personalità, come l’ira, il furor indomitus, “una megaloyuc…a che è spaventosamente vicina alla ferinità” 213, rimandano alla tipologia del tiranno: in particolare l’ira, dominante nel
ritratto di Cesare, non di rado “sconfina in un furore totalmente irrazionale”214 che,
privando il personaggio di ogni umanità, ne avvicina l’immagine a quella di una belva bramosa di spargere sangue215. Un simile impiego, finalizzato a connotare
l’atteggiamento furioso di un tiranno, si riscontra anche per l’aggettivo rabidus: ‘Quid
211 Sebbene il contesto sia diverso da quello qui trattato, la rappresentazione della crisi ossessiva
di cui è preda la Sibilla in Aen. 6, 77 ss. può forse costituire un utile parallelo per comprendere la possibile valenza metaforica della scena descritta da Ovidio: At, Phoebi nondum patiens, immanis in
antro / bacchatur uates, magnum si pectore possit / excussisse deum: tanto magis ille fatigat / os rabidum fera corda domans fingitque premendo. In questi versi, rabidum compare, come attributo di os, in un
contesto in cui si ha un chiaro riferimento all’immagine del domare l’animale ribelle: la Sibilla, posseduta dallo spirito profetico di Apollo, si agita cercando di liberarsene, ma invano. Quanto più si ribella, più Apollo la controlla tormentandole la bocca rabbiosa. Fatigare richiama la scena del magister che piega la testa del cavallo indomito; os rabidum continua la metafora dell’animale che morde rabbiosamente il freno. Il termine rabies, sempre in relazione alla Sibilla, appare già al v. 49, trattandosi di un vocabolo tipico per indicare la furia dell’invasamento profetico.
212 Barchiesi 2005, p. 186.
213 Così Narducci 2002, p. 240; a questo saggio rimando per l’analisi di quei tratti che avvicinano
il Cesare lucaneo all’immagine consueta del tiranno.
214 Narducci 2002, p. 190.
215 Nella descrizione dello scontro diretto tra le truppe cesariane e l’esercito repubblicano, il
poeta rappresenta lo scatenarsi della rabies di Cesare: ille locus fratres habuit, locus ille parentis: / hic
furor, hic rabies, hic sunt tua crimina, Caesar (7, 550 ss.), a cui seguono versi in cui la figura di Cesare
giganteggia sinistra per la morbosa smania di violenza: inspicit et gladios, qui toti sanguine manent / qui
niteant primo tantum mucrone cruenti, / quae presso tremat ense manus, quis languida tela, / quis contenta ferat (7, 560 ss.); Ipse manu subicit gladios ac tela ministrat / adversosque iubet ferro confundere voltus (7, 574 ss.). Per altri passi del poema in cui il termine compare in relazione al
personaggio, si veda 2, 544 (O rabies miseranda ducis!) e 5, 261-262 in cui i soldati, lamentandosi nei confronti di Cesare, esclamano: ‘Liceat discedere, Caesar, / a rabie scelerum’. La ferinità di Cesare trova piena espressione nel paragone del personaggio con un leone in 1, 205 ss.
noui rabidus struis?’ (Sen. Thy. 254), esclama il satelles rivolgendosi ad Atreo che, in
preda ad un irrefrenabile impeto di rabbia, si appresta a compiere un delitto smisurato216;
lo stesso attributo torna in Stazio a qualificare l’ira del tiranno Eteocle: sed ducis
infandi rabidae non hactenus irae / stare queunt (Theb. 3, 96-97).
Tornando ai versi relativi a Penteo, oltre a rabies, anche inhibere appare coerente con l’ipotesi interpretativa sopra esposta, visto che, nel suo significato di
cohibere, retinere, può designare l’azione del porre un freno agli animali. In questa
accezione è attestato nelle stesse Metamorfosi, precisamente in 2, 127: il Sole dà consigli a Fetonte su come guidare il carro e, riguardo ai cavalli, esclama: ‘parce, puer,
stimulis et fortius utere loris. / sponte sua properant; labor est inhibere uolentes’. Non
solo il verbo è qui usato de bestiis refrenandis, ma l’accostamento di labor ad inhibere può essere avvicinato al sintagma inhibere laborant del v. 565 del III libro. Il verbo ritorna nel momento cruciale in cui Fetonte abbandona le briglie per cui i cavalli, senza che nessuno li trattenga (nullo inhibente), si precipitano dove li spinge l’impulso (2, 200 ss.): mentis inops gelida formidine lora remisit. / Quae postquam summum tetigere
iacentia tergum / exspatiantur equi nulloque inhibente per auras / ignotae regionis eunt. L’esame linguistico sembrerebbe quindi suffragare una lettura di questi versi
incentrata sulla rappresentazione di Penteo che si abbandona alla propria ira sfrenata come un animale privo di controllo.
Al riguardo, può essere interessante il confronto con un passo dell’ epist. 85 di Seneca in cui appare centrale il paragone con le fiere: per spiegare la difficoltà di moderare passioni come l’iracundia, l’inconstantia, la libido, il filosofo ricorre all’exemplum delle tigri e dei leoni che non si spogliano mai della loro ferocia, talvolta l’attenuano, ma quando meno te lo aspetti, la crudeltà mitigata si inasprisce (85, 8):
Quemadmodum rationi nullum animal optemperat, non ferum, non domesticum et mite (natura enim illorum est surda suadenti), sic non sequuntur, non audiunt adfectus, quantulicumque sunt. Tigres leonesque numquam feritatem exuunt, aliquando summittunt, et cum minime expectaueris, exasperatur toruitas mitigata, dove
l’espressione exasperatur toruitas mitigata può essere avvicinata al nostro inritaturque
retenta et crescit rabies217. Come le fiere, sorde ai moniti della ragione, “data la loro
216 Sulla figura di Atreo, cfr. La Penna 1979, pp. 127 ss.
217 Exasperare, nel suo significato di irritare, incitando exaggerare, aggrauare (cfr. ThlL V-2, p.
1188, 25), sembra riunire in un unico termine gli effetti di ‘suscitare, provocare’ e di ‘accrescere, aggravare’ che nei versi di Ovidio sono resi con i verbi inritatur e crescit. Al mitigata di Seneca può
natura, sono soggette a ripiombare nella naturale ferinità”218, così nessun ammonimento,
nessun invito alla moderazione potrà vincere l’istintiva irrazionalità di Penteo: in entrambi i casi quella furia di cui si è cercato di contenere l’impeto si dimostra pronta a riaffacciarsi e ad acuirsi in ogni momento219.
L’identificazione del tiranno con una bestia feroce costituisce, in fondo, un
topos la cui prima formulazione risale a Platone e destinato a trovare terreno di fertile
sviluppo nella letteratura dei secoli successivi. Nell’ampia sezione della Repubblica dedicata alla genesi e alla caratterizzazione del tiranno, non solo Platone ricorre al mito di Licaone per esemplificare la ferocia disumana di questa figura220, ma vede alla base
della nascita dell’anima tirannica un processo fondato sul prevalere della parte bestiale e selvaggia dell’uomo su quella razionale, fino alla completa scomparsa di quest’ultima221. Una volta eliminato ogni possibile freno della ragione, gli istinti più
ferini si scatenano, cosicché, ormai folle, il tiranno “tenta e spera di essere in grado di comandare non solo sugli uomini, ma anche sugli dèi”(573 c). Egli, quindi, ci appare non solo come hybristés, nella sua pretesa di prevaricare rifiutando l’autorità degli dèi, ma, in quanto incapace di autodominio, si presenta anche come negazione e rovesciamento dell’uomo saggio222, duplice caratterizzazione che si adatta perfettamente
alla figura di Penteo.
Nella dura polemica antitirannica condotta da Cicerone, il motivo dell’efferatezza disumana del tyrannus trova particolare evidenza in un passo del De re essere avvicinato il retenta delle Metamorfosi, così come toruitas è parallelo a rabies.
218 Riprendo la citazione da Degl’Innocenti Pierini 1990, p. 275.
219 Per quanto riguarda, invece, il concetto dell’ira che si infiamma e cresce nel caso in cui le
venga frapposto un ostacolo, concetto centrale in questi versi delle Metamorfosi, è possibile confrontare l’inizio del III libro del De ira. L’obiettivo è quello di estirpare l’ira dagli animi o almeno di tenerla a freno e contenerne gli impeti aggressivi: Quod maxime desiderasti, Nouate, nunc facere temptabimus,
iram excidere animis aut certe refrenare et impetus eius inhibere. Seneca sostiene che questo, talora, deve
essere fatto senza farsene accorgere, allorché l’ira è troppo ardente e ogni ostacolo vale ad infiammarla e farla aumentare: id aliquando palam aperteque faciendum est ... aliquando ex occulto, ubi nimium ardet
omnique inpedimento exasperatur et crescit. L’azione del moderare la rabbia è espressa, come in Ovidio,
dal termine inhibere, mentre l’effetto prodotto dal frapporle un ostacolo è indicato dai verbi exasperatur, simile all’inritatur ovidiano, e da crescit, come nel passo delle Metamorfosi.
220 Cfr. Plat. rep. 8, 565 d-e.
221 All’inizio del IX libro, spiegando come e perché l’uomo tirannico diventi tale, Platone si
sofferma sul prevalere di desideri selvaggi sulla ragione (571 c) : « -fra i piaceri e i desideri non necessari, alcuni mi sembrano contrari alle leggi..- Quali sono, disse, questi desideri di cui parli? – Quelli, dissi io, che si risvegliano nel sonno, quando il resto dell’anima, ciò che vi è in essa di razionale, socievole, adatto al comando, riposa, mentre la parte ferina e selvaggia (tÕ d qhriîdšj te ka… ¥grion), piena di cibo o di vino, si sfrena nella sua danza, e, scacciando il sonno, cerca di aprirsi la via per dare sfogo ai suoi abituali costumi. Sai bene che in un simile stato essa osa fare di tutto, come sciolta e sbarazzata da ogni freno di vergogna e di ragionevolezza» (trad. Vegetti 2007).
publica (2, 26, 48): ... tyrannus, quo neque taetrius neque foedius nec dis hominibusque inuisius animal ullum cogitari potest; qui quamquam figura est hominis, morum tamen immanitate uastissimas uincit beluas. Un concetto simile torna in De officiis 3, 6, 32,
dove si afferma la necessità che il tiranno, in quanto personificazione della feritas e
immanitas delle bestie, sia allontanato dalla comunità degli uomini: ... hoc omne genus pestiferum atque impium ex hominum communitate exterminandum est. Etenim ... ista in figura hominis feritas et immanitas beluae a communi tamquam humanitatis corpore segreganda est 223.
Nel caso di Penteo, l’assimilazione dell’ira del re alla ferocia animale, sebbene non così esplicita come nei passi analizzati, può, tuttavia, acquistare una certa rilevanza se si considera che la rabies del sovrano non è semplicemente un accesso d’ira momentaneo, ma un impulso in lui connaturato, perché ereditato dal serpente distruttore connesso con le origini di Tebe224. Già nelle Baccanti di Euripide il furor di Penteo è
presentato come “connaturata eredità ctonia” 225 dal coro che, ai vv. 537 ss., sembra
istituire un’associazione diretta tra l’Ñrg» che caratterizza il personaggio e la sua stessa discendenza: o†an o†an Ñrg¦n / ¢nafa…nei cqÒnion / gšnoj ™kfÚj te dr£kontÒj / pote PenqeÚj, Ön 'Ec…wn / ™fÚteuse cqÒnioj, / ¢griwpÕn tšraj oÙ fîta brÒteion. Penteo, identificato come ‘colui che nacque dalla terra’, che ‘nacque dal serpente’, ha ereditato dal padre la natura violenta e sanguinaria tipica delle serpi.
Anche Ovidio sembra suggerire questa associazione mostrando una certa affinità tra l’atteggiamento del re e quello del serpente, descritto nella parte iniziale del III libro. Appare per esempio significativo che nel rivolgersi alla folla in qualità di difensore dell’ordine della città, Penteo richiami come modello di comportamento non Cadmo (eroe civilizzatore e fondatore di Tebe), bensì il suo terribile avversario, quello stesso serpente il cui tratto distintivo era apparso, all’inizio del libro, proprio la furia, l’ira: ne sono una testimonianza i versi 71 ss. in cui si sottolinea come la ferita inferta al serpente da Cadmo non avesse fatto che accrescere la rabbia di cui era sempre preda: ...
223 Una chiara formulazione di questo motivo si ha, inoltre, in Sen. clem. 1, 25, 1: Crudelitas minime humanum malum est indignumque tam miti animo; ferina ista rabies est sanguine gaudere ac uulneribus et abiecto homine in siluestre animal transire.
224 Penteo è figlio di Echione, nato dai denti del serpente seminati da Cadmo (lo stesso nome
Echione vale “uomo serpente”). Le vicende relative alle origini di Tebe, all’uccisione, da parte di Cadmo, del drago dai cui denti sorsero i capostipiti della nobiltà tebana, sono narrate da Ovidio nella parte iniziale del III libro.
ferrum tamen ossibus haesit. / tum uero postquam solitas accessit ad iras / causa recens, plenis tumuerunt guttura uenis / spumaque pestiferos circumfluit albida rictus.
Nelle parole del re, il mostruoso antagonista di Cadmo diventa un coraggioso
guerriero, morto per difendere il suo territorio e al cui esempio avrebbero dovuto ispirarsi i Tebani; essi, come il loro avo, dovevano combattere e difendere la loro terra dall’intrusione di Bacco (vv. 543 ss.):
‘este, precor, memores, qua sitis stirpe creati,
illiusque animos, qui multos perdidit unus, sumite serpentis. pro fontibus ille lacuque interiit; at uos pro fama uincite uestra’.
A ciò si aggiunga che le gesta di Penteo rievocano, in alcuni punti, quelle del serpente: talia dicentem proturbat Echione natus (v. 526) richiama obstantes proturbat
pectore siluas, verso che fa parte di un passo in cui l’atteggiamento furioso del serpente
è esplicitato, come nel caso di Penteo, dal paragone con un fiume (vv.79-80: impete
nunc uasto ceu concitus imbribus amnis / fertur et obstantes proturbat pectore siluas)226.
Tale parallelismo sembra ricordare al lettore l’importanza che la componente ferina ereditata dal serpente ha nella rappresentazione del personaggio di Penteo, componente che costituisce peraltro uno degli aspetti fondanti del dionisismo: il contrasto mondo selvaggio / civilizzazione, centrale nell’immaginario dionisiaco227, è
drammaticamente incarnato dallo stesso Penteo, con la sua “duplice personalità di uomo d’ordine e tiranno in preda all’ira”228, alla furia più selvaggia.
Se questa ipotesi di un’assimilazione del furor di Penteo alla furia animale ha una qualche legittimità, possiamo forse tentare di portare un contributo alla discussione di un problema testuale presente al verso 567, dove sono tramandate le varianti
remoraminaque e moderaminaque, lezione principalmente attestata229.
226 Per questo aspetto, si veda P. James 1991, pp. 81-92.
227 Al riguardo si veda Segal 1982, Cap. III intitolato: Dionysus and Civilization: Tools, Agriculture, Music.
228 Galasso 2000, p. 901.
229 Riproduco, di seguito, l'apparato dell'edizione di Tarrant 2004, che accoglie nel testo la
lezione remoraminaque: 567 remoraminaque M² P: moder- W. A tale edizione (pp. xiliv ss.) rimando per la spiegazione delle sigle dei codici e per un'ampia prefazione che illustra le vicende inerenti alla
La nota complessità della tradizione manoscritta delle Metamorfosi rende impossibile procedere in modo sistematico nella scelta dell’una o dell’altra variante, comportando la necessità di valutare ogni singola lezione sulla base di criteri principalmente interni; per questo, un esame del passo, unito ad una particolare considerazione dell’usus scribendi di Ovidio, può fornire utili argomentazioni ai fini di una valutazione del problema. Sia che si accetti moderaminaque che remoraminaque, si tratterebbe, in entrambi i casi, di parole create dallo stesso Ovidio e rispondenti, peraltro, alla particolare predilezione del poeta per i sostantivi con suffisso –men230.
Mentre moderamen ricorre altre volte in Ovidio ed avrà una sua fortuna nella lingua letteraria latina, remoramen non sembra avere nessun’altra attestazione né in Ovidio né in altri autori. Si tratta, cioè, di un hapax231. Un esame delle ricorrenze del termine moderamen, usato per designare sia l’azione del controllare, guidare, dirigere che quella
del trattenere, frenare, sembrerebbe gettare qualche luce sul passo che stiamo considerando. Tra i vari usi il sostantivo compare, in Ovidio, in contesti in cui si fa esplicito riferimento all’atto del guidare il carro, tenendo a freno i cavalli. In questa accezione ricorre nell’episodio di Fetonte, a cui già si è fatto riferimento per l’impiego del verbo inhibere: al v. 48 del II libro, egli chiede al padre alipedum ius et moderamen
equorum; poco dopo è il Sole stesso che, cercando di distogliere il figlio dall’impresa
rischiosa di dirigere il suo carro, avverte: ultima prona uia est et eget moderamine certo