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La narrazione della morte di Penteo costituisce un esempio emblematico per comprendere il gioco sottile che lega la composizione ovidiana ai suoi possibili modelli, essendo una delle scene in cui il poeta, pur dimostrando di conoscere il testo euripideo, se ne allontana consapevolmente per alcuni e fondamentali aspetti.

Innanzitutto, la rappresentazione di Penteo. Come vedremo nel prossimo capitolo, una delle principali differenze che distinguono il racconto latino dalla tragedia greca è la rinuncia ovidiana a rappresentare il motivo del travestimento di Penteo, che doveva costituire una delle maggiori innovazioni euripidee rispetto alla versione principale del mito, rappresentata da Eschilo.

Per quanto concerne le Baccanti, dopo una rappresentazione di Penteo quale sovrano autoritario, violento, cieco nella sua ostinazione, assistiamo ad un processo di progressivo cedimento del re di fronte all’irresistibile forza del dionisismo, processo che raggiunge il culmine nella scena del suo travestimento da Baccante: il re arriva sul Citerone dopo un’ umiliante “vestizione” che, prevedendo per lui i tipici accessori dionisiaci, quali il peplo, una lunga chioma, il tirso e la nebride, segna l’inizio di un’importante operazione di delegittimazione del personaggio.

Nel racconto delle Metamorfosi, al contrario, l’immagine di Penteo mantiene una propria coerenza, non subendo nessun cambiamento, né interiore né esteriore. Il personaggio ovidiano non dà alcun segno di cedimento, rimane inflessibile, il suo atteggiamento è caratterizzato da un’ostinata resistenza psicologica, che lo abbandona solo nel momento finale dello sparagmós. Il poeta latino rinuncia all’immagine di Penteo travestito da Menade, preferendo ad essa il paragone con un cavallo smanioso di combattere, paragone che conferisce al personaggio la dignità propria di un eroe epico.

Penteo arriva sul luogo che sarà teatro della sua morte non come una Tiade, ma come un focoso guerriero (3, 704 ss.):

ut fremit acer equus, cum bellicus aere canoro signa dedit tubicen, pugnaeque adsumit amorem, Penthea sic ictus longis ululatibus aether

mouit et audito clamore recanduit ira.

Spunti per una rappresentazione del contrasto tra Penteo e Dioniso in chiave bellica potevano probabilmente trovarsi nella trattazione della vicenda fatta da Eschilo. Nei versi 24-26 delle Eumenidi, in cui la Pizia ricorda come Dioniso, messosi al comando delle Baccanti come di un esercito, fosse stato l’autore della morte di Penteo, è stata infatti riconosciuta un’allusione al perduto Pentheus dello stesso Eschilo. In particolare, i versi 25-26 hanno indotto a pensare che nella tragedia trovasse espressione il motivo di uno scontro armato tra il dio e le sue seguaci da una parte, e Penteo e le sue forze, dall’altra118: ™x oáte B£kcaij ™strat»ghsen qeÒj / lagë d…khn Penqe‹

katarr£yaj mÒron. Come osserva Di Benedetto nella sua premessa all’edizione delle

Baccanti119, l’immagine di Dioniso al comando dell’esercito delle Menadi ritorna al

verso 52 della tragedia euripidea, in cui il dio minaccia di muovere battaglia contro i Tebani, nel caso in cui essi vogliano cacciare le Baccanti dal monte, ricorrendo alle armi (vv. 50 ss.: Àn d qhba…wn pÒlij / ÑrgÁi sÚn Óploij ™x Ôrouj b£kcaj ¥gein / zhtÁi, xun£yw main£si strathlatîn), ma, spiega lo studioso, questo sviluppo presentato come ipotetico dal dio rimane, di fatto, una possibilità non eseguita; allo stesso modo, il progetto di Penteo di un intervento armato contro le Menadi, formulato ai versi 781- 785120, non troverà una reale attuazione nella tragedia euripidea, che ha preferito uno

snodo della vicenda diverso da quello che doveva caratterizzare il finale dell’opera eschilea. Nelle Baccanti, il tema bellico, rappresentato dalla possibilità di uno scontro armato tra le due forze in opposizione, viene bloccato ed abbandonato a favore di un inaspettato sviluppo della vicenda che, prevedendo come esito degli inganni e della follia indotta dal dio l’apparizione dell’autoritario sovrano di Tebe nelle vesti di una

118 Si vedano, al riguardo, Gantz 1993, p. 483; Di Benedetto 2004, pp. 16-18. 119 Di Benedetto 2004, p. 17.

donna e la sua orribile fine per mano della madre, si differenziava, probabilmente proprio per questo aspetto, dalla trattazione del mito presentata da Eschilo.

Al riguardo, può essere interessante ricordare un frammento degli Stasiastae di Accio, tragedia incentrata probabilmente sulla vicenda mitica del trace Licurgo, da cui è possibile ipotizzare che anche in quest’opera trovasse attuazione il progetto di una guerra combattuta tra l’esercito del re e le forze di Dioniso (fr. 608 R³.)121:

Non uides quam turbam, quantos belli fluctus concites?

In questi versi, in cui le agitazioni e gli sconvolgimenti della guerra sono espressi mediante la metafora dei flutti, con un’espressione, belli fluctus, che tornerà in Lucrezio 5, 1289-1290, si possono forse riconoscere parole rivolte a Licurgo, accusato di aver suscitato una pericolosa battaglia, a causa della sua opposizione.

Rispetto alla tradizione tragica rappresentata dal possibile sviluppo del mito in Eschilo e dalle Baccanti euripidee, Ovidio mostra la propria originalità: da Euripide riprende la scena dello sparagmós, ma non il motivo del travestimento, e sviluppa l’immagine di Penteo guerriero, che doveva essere particolarmente valorizzata da Eschilo, oltre a trovare diverse attestazioni nelle arti figurative122, attraverso una

similitudine di chiaro stampo epico. L’immagine del cavallo che si slancia con impeto è, infatti, generalmente riferita, nella poesia epica, ad un guerriero che irrompe in battaglia: in Hom. Il. 6, 506-511123, lo slancio di Paride che, rivestito delle illustri armi,

attraversa impetuoso la città, è evidenziato dalla similitudine con un cavallo che, rotti i legami, galoppa fiero per la pianura, e gli stessi versi sono ripetuti nel quindicesimo libro in riferimento ad Ettore, che torna a combattere, dopo aver ricevuto nuova forza da Apollo; il paragone sarà, inoltre, ripreso da Ennio in una delle più suggestive descrizioni

121 Dove non altrimenti indicato, le citazioni dei frammenti dei tragici arcaici latini (tranne

Ennio) seguono il testo di O. Ribbeck, Scaenicae Romanorum poesis fragmenta, tertiis curis recognovit O.R., vol. I, Lipsiae 1897. I casi in cui non mi sia attenuta al testo adottato in tale edizione saranno indicati e spiegati nelle note.

122 Per testimonianze figurative che ritraggono Penteo come armato e non travestito da Baccante

secondo la versione euripidea, cfr. Tomasello 1958, Mackay 1970, Gantz 1993.

123 Hom. Il. 6, 506-511: æj d/ Óte tij statÕj †ppoj, ¢kost»saj ™pˆ f£tnV, / desmÕn

¢porr»xaj qe…V ped…oio kroa…nwn, / e„wqëj loÚesqai ™ãrre‹oj potamo‹o / kudiÒwn: Øyoà d k£rh œcei, ¢mfˆ d ca‹tai / êmoij ¢ssontai: Ð d' ¢glahfi pepoiqèj, / ∙…mfa ˜ goàna fšrei met£ t' ½qea kaˆ nomÕn †ppwn / ìj uƒÕj Pri£moio P£rij kat¦ Perg£mou ¥krhj / teÚcesi pamfa…nwn éj t' ºlšktwr ™beb»kei.

superstiti del poema124, e tornerà in Aen. 11, 492-497, dove il furor bellico di Turno è

espresso mediante il verbo fremere, come nella similitudine delle Metamorfosi125: le

immagini a cui la similitudine ovidiana sembra avvicinarsi maggiormente sono, però, come precisa Barchiesi126, quella di Eschilo Sept. 392-394, dove Tideo furente e

smanioso di lotta è paragonato ad un cavallo eccitato che freme, attendendo lo squillo della tromba, e Apollonio Rodio 3, 1259-62, in cui Giasone è assimilato ad un cavallo desideroso di guerra:

bo´ par' Ôcqaij potam…aij, m£chj ™rîn, †ppoj calinîn ìj katasqma…nwn mšnei, Óstij bo¾n s£lpiggoj Ðrma…nei mšnwn.

(Aesch. Sept. 392 ss.) æj d' Ót' ¢r»ioj †ppoj, ™eldÒmenoj polšmoio,

skarqmù ™picremšqwn kroÚei pšdon, aÙt¦r Ûperqen kudiÒwn Ñrqo‹sin ™p' oÜasin aÙcšn' ¢e…rei:

(Apoll. Rhod. 3, 1259 ss.)

L’insolita espressione pugnae adsumit amorem richiama il nesso ™eldÒmenoj polšmoio usato da Apollonio, il quale sembra aver combinato l’immagine omerica con quella di derivazione eschilea127, in cui Tideo è detto, appunto, m£chj ™rîn; ad

avvicinare i versi ovidiani al modello di Apollonio è, inoltre, il carattere militaresco della similitudine128, sottolineato, nelle Argonautiche, dall’aggettivo ¢r»ioj, riferito al

cavallo stesso, e nelle Metamorfosi dall’epiteto bellicus, usato a proposito della tromba il cui squillo infiamma l’animale. Particolarmente appropriato appare, inoltre, l’impiego di acer che, oltre ad essere un attributo tipico della sfera eroica, indicando la foga più

124 Ennio Ann. 514-518 V²: Et tum sicut equus qui de praesepibus fartus / uincla suis magnis animis abrupit et inde / fert sese campi per caerula laetaque prata, / celso pectore saepe iubam quassat simul altam / spiritus ex anima calida spumas agit albas. Su questi versi, cfr. Skutsch 1986, pp. 683-687.

125 Verg. Aen. 11, 492 ss.: qualis ubi abruptis fugit praesaepia uinclis / tandem liber equus campoque potitus aperto / aut ille in pastus armentaque tendit equarum / aut adsuetus aquae perfundi flumine noto / emicat arrectisque fremit ceruicibus alte / luxurians, luduntquae iubae per colla, per armos.

126 Barchiesi 2007, p. 236. 127 Cfr. Hunter 1989, ad loc. 128 Barchiesi 2007, p. 236.

che la rapidità del cavallo129, richiama una delle connotazioni principali dell’indole di

Penteo (cfr. acrior, v. 566) e dell’altro nemico di Bacco, Licurgo.

Certo è che la similitudine contribuisce a conferire al personaggio tragico di Penteo una connotazione contemporaneamente eroica, che non trova riscontri nella parte finale delle Baccanti.

Quale poteva essere l’impatto di una simile scelta? Quale effetto suscita nel lettore la rappresentazione ovidiana del personaggio di Penteo?

Lo scarto derivante dal ricorso ad una comparazione, impiegata nell’epica tradizionale in riferimento al tipo dell’eroe-guerriero, per connotare la figura di Penteo, nel momento in cui sta per compiersi il suo umiliante destino, sembra creare un effetto di ironia tragica, suscitando nel lettore aspettative, che poi saranno disattese: lo scenario in cui il re si troverà protagonista non è il teatro della guerra, bensì il teatro di Dioniso e delle Baccanti, e la morte che lo attende è ben lontana dalla fine tipica di un eroe dell’epos. La decisione di evitare qualunque tipo di cedimento della personalità di Penteo sembra avere l’effetto di rendere ancora più incisivo e sorprendente il momento della catastrofe finale: l’inflessibile sovrano di Tebe che, in qualità di difensore della città di fronte al pericolo del disordine bacchico, si precipita sul Citerone come un valoroso soldato mosso dall’ira, vedrà completamente annientata la propria identità ad opera di una donna e, per giunta, la madre. Quella di Penteo è una morte disonorevole, ignominiosa, nella quale la perdita totale della morf» del corpo della vittima determina il completo annientamento dell'identità del personaggio.

Mentre nelle Baccanti il processo che porta Penteo alla distruzione della sua persona è segnato da una fase intermedia rappresentata da un profondo cambiamento che, portandolo ad assumere aspetto e comportamento da Menade, lo avvicina gradualmente al misterioso mondo dionisiaco, l’unità e coerenza dell’identità del personaggio ovidiano, non intaccato da nessuna metamorfosi o cedimento, accresce l’impatto del tracollo finale.

L’originalità ovidiana e l’abilità di rimodellare situazioni e personaggi legati ad una particolare tradizione letteraria, facendo sapientemente interagire moduli tragici e convenzioni epiche, è evidente anche nella combinazione, immediatamente successiva,

129 Riprendo l’osservazione da Galasso 1995, che commenta il nesso acer equus in Ov. Pont. 2,

di una scena di matrice tragica, come quella dello sparagmós130, con un’altra

similitudine di evidente derivazione epica, come quella relativa al cadere delle foglie (vv.729-731):

non citius frondes autumni frigore tactas

iamque male haerentes alta rapit arbore uentus, quam sunt membra uiri manibus derepta nefandis

La comparazione, incentrata sulla rappresentazione delle foglie strappate dal vento, è generalmente impiegata nell’epica per alludere alla caducità e transitorietà della condizione umana: in questo passo del sesto libro dell’Iliade si può rintracciare l’archetipo di questa immagine, destinata ad avere grande fortuna nella tradizione letteraria successiva131:

o†h per fÚllwn gene», to…h d kaˆ ¢ndrîn.

fÚlla t¦ mšn t' ¥nemoj cam£dij cšei, ¥lla dš q' Ûlh thleqÒwsa fÚei, œaroj d' ™pig…gnetai érh

ìj ¢ndrîn gene¾ ¹ mn fÚei ¹ d' ¢pol»gei. (Il. 6, 146 ss.)

Se Omero insiste sull’incessante avvicendarsi delle generazioni umane, paragonate al ritmo ciclico della natura che, dopo la caduta autunnale delle foglie, contempla il risveglio primaverile della vegetazione, le successive riprese o rielaborazioni della similitudine spostano l’accento per lo più sul rapido trascorrere della giovinezza o sulla caducità e brevità della vita, come in questi versi di Mimnermo (fr. 2, 1-2 West):

130 Il sacrificio dello sparagmÒj consisteva nel laceramento della vittima ancora viva, a cui

seguiva la consumazione immediata delle carni crude e sanguinanti (çmofag…a). Per gli scrittori greci tardi, l’omofagia era semplicemente un rito commemorativo, a ricordo del giorno in cui Dioniso infante fu sbranato e divorato, ma in realtà questa pratica sembra avere motivazioni originarie diverse. Si parte dalla constatazione che vittime di questo sacrificio erano generalmente un toro o un capro: considerando che Dioniso è molto spesso rappresentato in forma taurina ed è talvolta identificato con un capretto, si pensa che alla base di questo sacrificio ci fosse l’idea della consumazione del corpo del dio. Il rito offrirebbe, quindi, un esempio di sacrificio sacramentale o comunione: i fedeli, ingerendo le carni della vittima in cui si riconosceva un’incarnazione del dio, ne assimilano la forza soprannaturale. Cfr., al riguardo, Jeanmaire 1972, pp. 249 ss.

131 Sulla similitudine e sulla sua fortuna nella tradizione letteraria, si veda Tandoi 1981, pp. 241

¹me‹j d', oŒ£ te fÚlla fÚei polu£nqemoj érh œaroj, Ót' «iy' aÙgÁij aÜxetai ºel…ou, to‹j ‡keloi p»cuion ™pˆ crÒnon ¥nqesin ¼bhj terpÒmeqa, prÕj qeîn e„dÒtej oÜte kakÕn

La similitudine, ripresa in alcuni versi trasmessi sotto il nome di Simonide (fr. 19, 2 West), sarà riferita da Bacchilide alla moltitudine degli infelici mortali nell’oltretomba132, ed una comparazione simile tornerà in Virgilio Aen. 6, 305 ss. per

indicare la folla delle anime che si precipitano lungo le rive del Cocito133: Huc omnis turba, ad ripas effusa, ruebat

………

quam multa in siluis autumni frigore primo lapsa cadunt folia

Alla luce della precedenti attestazioni della nota similitudine, sorprende che Ovidio, riecheggiando contemporaneamente l’archetipo omerico ed il modello virgiliano, da cui riprende il nesso autumni frigore, peraltro nella stessa posizione metrica, la impieghi in riferimento alla terribile sorte di Penteo: mentre la delicata similitudine virgiliana esprime un profondo e compassionevole accordo tra il ciclo della natura e la sofferenza umana, Ovidio vi ricorre per descrivere la rapidità con cui Agave fa scempio del corpo del figlio134. L’impiego di una comparazione, basata sulla

rappresentazione del naturale ed inesorabile cadere delle foglie e generalmente riferita alla transitorietà della vita umana, per illustrare invece un evento assolutamente innaturale e disumano come il laceramento di Penteo ad opera della madre, crea uno stridente e provocatorio contrasto, che non può non colpire il lettore; il tono realistico e naturale della descrizione delle foglie contrasta con il carattere macabro e brutale della situazione a cui si riferisce, suscitando un effetto di profondo straniamento135.

132 Bacchilide 5, 63-67 Maehler: œnqa dust£nwn brotîn / yuc¦j ™d£h par¦ Kwkutoà

∙ešqroij / oŒ£ te fÚll' ¥nemoj / '/Idaj ¢n¦ mhlobÒtouj / prînaj ¢rghst¦j done‹.

133 Per altre attestazioni dell'immagine, cfr. Aristofane Au. 685; Apoll. Rhod. 4, 216 ss., dove si

allude alla moltitudine dei guerrieri; Nonno 3, 249, in cui l’immagine tornerà a riferirsi alle stirpi degli uomini, e Orazio ars 60-63, in cui il poeta paragona la sorte dei vocaboli di una lingua al destino delle foglie di una selva.

134 Cfr. Segal 1969, pp. 83 ss.

135 Barchiesi 2007 ad loc. parla, appropriatamente, di “poetica del delirio e dello straniamento

L’insolito adattamento della similitudine, che ancora una volta crea un ponte tra mondo mitico e sfera del reale, ed il tono distaccato con cui il poeta conclude l’episodio (talibus exemplis monitae noua sacra frequentant / turaque dant sanctasque colunt

Ismenides aras) attenuano la partecipazione agli effetti di pathos del racconto, lasciando

emergere l’atteggiamento di distanza del narratore rispetto agli eventi narrati.

Se confrontata con il finale delle Baccanti, la conclusione del racconto latino si caratterizza per l’assenza di un qualunque riferimento alla scena straziante del rinsavimento di Agave e del riconoscimento della reale identità della vittima uccisa, scena che avrebbe comportato una forte compartecipazione al dolore dei personaggi, vittime di un’ira eccessiva del dio. È la sofferenza la vera protagonista della parte conclusiva della tragedia: Dioniso, è vero, esce trionfatore dalla vicenda, colui che si era arrogantemente opposto alla sua forza e al suo culto è stato duramente punito, ma è altrettanto vero che alla fine l’accento batte non sul trionfo del dio, ma sul dolore che la sua punizione ha causato alle due figure più vicine a Penteo, Agave e Cadmo. Una volta che Agave avrà ripreso coscienza e riacquisito il controllo della propria mente, l’orgoglio e la gioia lasceranno il posto al dolore e alla totale disperazione136, e sempre

l’infelicità è la nozione dominante su cui Cadmo tornerà insistentemente nell’esodo, dove, con tono accorato e disincantato, arriva persino a biasimare il comportamento eccessivo del dio, che si è spinto troppo oltre nella sua vendetta (vv. 1249-1250): æj Ð qeÕj ¹m©j ™nd…kwj mn ¢ll' ¥gan / BrÒmioj ¥nax ¢pèles' o„ke‹oj gegèj, concetto ribadito dallo stesso Cadmo al v. 1346, pronunciato in risposta al rimprovero, mossogli da Dioniso, di aver imparato troppo tardi chi egli fosse: ™gnèkamen taàt': ¢ll' ™pexšrchi l…an.

È proprio l’eccessiva durezza, spietatezza manifestata dal dio nella vendetta punitiva che impedisce un totale consenso, da parte dello spettatore e, quindi, di Euripide, alla figura di Dioniso. Da questo punto di vista, il dramma non sembra avere soluzione: non c’è un vero vincitore, non c’è la proposizione di una soluzione definitiva al contrasto tra i “modelli” di vita e di cultura che Penteo e il dio rappresentano137; le

pensa che negli adattamenti della lirica corale e di Virgilio c’era un riferimento al destino ultraterreno delle anime, mentre qui Penteo viene annientato in modo totale e senza possibile compensazione”.

136 Così esclama al v. 1280 Agave, inorridita nello scoprire la verità: 'œa, t… leÚssw; t… fšromai

tÒd' ™n cero‹n;', e prosegue: 'Ðrî mšgiston ¥lgoj ¹ t£lain' ™gè'; alla domanda rivoltale da Cadmo, se ciò che vedeva assomigliasse ad un leone, la sventurata risponde: 'oÜk, ¢ll¦ Penqšwj ¹ t£lain' œcw k£ra' (v. 1284).

137 Penteo può essere visto come il rappresentante della sapienza prodotta dalla cultura politica e

opposizioni, le contraddizioni restano, e solo rinunciando a voler offrire una soluzione necessariamente conciliante si può forse cogliere il vero significato della tragedia, in cui Di Benedetto vede il riflesso della crisi della cultura del V secolo, un secolo che, nei duri anni della guerra del Peloponneso, mostra l’esistenza di profonde lacerazioni all’interno della società ateniese138.

Se il finale delle Baccanti, che vede Agave e Cadmo accomunati in un medesimo destino di rovina, segnato dall’esilio e dalla separazione tra i due, rivela la profonda tragicità e complessità dell’opera, la scena conclusiva del racconto ovidiano che, priva di un qualunque giudizio o commento sull'operato del dio, è incentrata sulla rappresentazione del violento sparagmós compiuto dalle folli Baccanti e seguito, subito dopo, dall'immagine contrastante della pia religiosità delle donne tebane, che celebrano i regolari riti di Bacco139, suscita un effetto di ambiguità, che appare in linea sia con la

tradizionale duplicità di Dioniso, “dio di frontiera tra selvaggio e civilizzato”140, sia con

il consapevole e disincantato atteggiamento di distanza del poeta dalla materia narrata. Nella concitata descrizione dell'orrida fine del re, l’interesse del narratore si concentra non sull’espressione di una valutazione morale dell’azione compiuta, ma sulle forme norme.

138 Cfr. Di Benedetto 1971, pp. 294 ss. Molto si è discusso sull’interpretazione e sul reale

significato di questo dramma, sul quale sono state formulate le opinioni più disparate (per un'efficace sintesi dei contributi più importanti sulla questione, cfr. Bárberi Squarotti 1999, pp. 11 ss.): da chi ha voluto vedervi l’intima adesione dell’ultimo Euripide alla religione dionisiaca, la testimonianza di una sorte di conversione del poeta al dionisismo, a chi ha concentrato l’attenzione soprattutto sullo scontro tra i personaggi di Penteo e Bacco quali rappresentanti, rispettivamente, l’uno della ragione che pretende di