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Il modulo tragico della cattura del dio e della derisione per il suo aspetto femmineo

ALCUNI TOPOI DIONISIACI IN OVIDIO: IL CONFRONTO CON LA TRADIZIONE TRAGICA

II. Il modulo tragico della cattura del dio e della derisione per il suo aspetto femmineo

Nel suo attacco polemico contro la nuova religione, Penteo insiste sull'effeminatezza del dio e dei suoi seguaci, definiti al v. 547 molles e accusati di infiacchire il loro animo abbandonandosi ai piaceri e alle oscenità dei riti dionisiaci. Il ritratto del dio delineato dal sovrano di Tebe ai vv. 553 ss. evidenzia, con evidente tono di derisione, i tratti del suo aspetto che suggeriscono una chiara impressione di effeminatezza: sarà una vergogna per Tebe essere conquistata da un giovane inerme, sprezzante della guerra e delle armi, a cui piace andare in giro con i capelli stillanti di mirra e cinti di molli corone, vestito di porpora e d'oro (vv. 553 ss.):

at nunc a puero Thebae capientur inermi,

quem neque bella iuuant nec tela nec usus equorum, sed madidus murra crinis mollesque coronae

purpuraque et pictis intextum uestibus aurum

Ai versi segue il comando, impartito dal re, di catturare e legare lo straniero: 'ite

citi' (famulis hoc imperat) 'ite ducemque / attrahite huc uinctum! Iussis mora segnis abesto' (vv. 562-563). I famuli del sovrano, eseguito l'ordine, consegnano a Penteo,

come prigioniero, un tale di stirpe tirrena, seguace da tempo di Dioniso -dietro le cui sembianze sembra doversi riconoscere in realtà il dio stesso-, interrogato dal re circa la sua identità, la sua origine e il perché partecipasse a quei nuovi riti (vv. 571 ss.).

Quello della cattura del dio e della derisione per la sua effeminatezza costituisce un modulo tragico risalente, per quanto ci è dato sapere, agli 'Hdwno…, prima tragedia della LoukoÚrgeia438 di Eschilo. Nonostante le incertezze che gravitano intorno alla

ricostruzione dello svolgimento della tetralogia439, l'analisi dei frammenti superstiti,

438 Per la bibliografia relativa alla tetralogia eschilea, composta dalle tragedie 'Hdwno…, Bassa-

r…dej (o Bass£rai), Nean…skoi, cui seguiva il dramma satiresco Lukoàrgoj, cfr. supra, n. 37. Dell'altra tetralogia incentrata sulla figura di Licurgo, la LoukoÚrgeia di Polifrasmone, rappresentata nel 467 a.C., non ci resta che il titolo (TrGF I² 7, DID C 4a, 6-7; DID C 4b, 3-4).

439 La condizione estremamente frammentaria delle opere eschilee rende difficile la ricostruzione

della vicenda, su cui sono state avanzate varie ipotesi: mentre secondo alcuni studiosi le vicissitudini del re Licurgo, dal suo primo contatto con il dio fino alla definitiva punizione, avrebbero occupato l'intera trilogia (cfr. Séchan 1926, pp. 63 ss.; Deichgräber 1939, pp. 255-256; Pastorino 1955, pp. 19 ss. e, più recentemente, Garzya 2000, pp. 161 ss.), altri ritengono che la vicenda mitica di Licurgo fosse trattata

supportata dall'esame comparativo con ciò che resta del Lucurgus di Nevio, che negli

Edoni eschilei sembra trovare il suo principale modello, permette di ricostruire alcuni

dei momenti fondamentali della prima tragedia, fra i quali l'arrivo in Tracia di Dioniso con il suo seguito e la sua cattura da parte del re Licurgo.

Il frammento più lungo di cui disponiamo440, undici versi anapestici in cui si

allude al clamore orgiastico di un corteo tumultuante, sembra dover essere attribuito al coro degli Edoni, che nella parodo descrive il sopraggiungere del corteo di Dioniso, con particolare riferimento allo strepito prodotto dagli strumenti con cui il tiaso celebra il suo dio.

Un altro importante frammento degli Edoni (fr. 61 R.) lo dobbiamo all'allusione parodica che alla tragedia eschilea fa Aristofane ai vv. 134 ss. delle Tesmoforiazuse, in cui il Parente di Euripide, rivolgendosi con tono di scherno al poeta effeminato Agatone, dichiara di volerlo apostrofare alla maniera di Eschilo nella sua Licurgia: ka… s', ð nean…sc', ¼tij e, kat' A„scÚlon / ™k tÁj Lukourge…aj ™ršsqai boÚlomai: / podapÕj Ð gÚnnij; t…j p£tra; t…j ¹ stol», a cui segue un'incalzante successione di interrogative, tese a delineare, in modo irridente e provocatorio, l'aspetto del personaggio441. Sebbene il problema dell'estensione della citazione eschilea, che appare

confermata da uno scolio al v. 135 (schol. ad Ar. Thesm. 135: lšgei d [sc. Lokoàrgoj] ™n to‹j 'Hdwno‹j prÕj tÕn sullhfqšnta DiÒnuson: 'podapÕj Ð gÚnnij'), sia piuttosto discusso442, l'opinione più comune è che si possa attribuire ad Eschilo l'intero

verso 136 (F 61 R.):

podapÕj Ð gÚnnij; t…j p£tra; t…j ¹ stol»;

nella sua interezza solo negli Edoni (cfr. Murray 1940, p. 155; Mette 1963, p. 138; Sutton 1971, pp. 389- 390 e, soprattutto, West 1983, pp. 63 ss., seguito da Lattanzi 1994, pp. 198 ss.; Casali 2005, pp. 238 ss. In base all'ipotesi sostenuta dallo studioso, solo gli Edoni avrebbero trattato la storia di Licurgo, dal suo confronto con il dio fino alla sua punizione, mentre le Bassaridi avrebbero presentato il mito di Orfeo, prima seguace di Dioniso, poi convertitosi al culto di Helios-Apollo, contrariamente alla tesi secondo cui oggetto della seconda tragedia eschilea sarebbe stata la follia omicida di Licurgo. Sulle diverse ipotesi avanzate per la ricostruzione dell'argomento dei Neaniskoi e del dramma satiresco, cfr. Pastorino 1955, pp. 20 ss.; West 1983, p. 70).

440 TrGF III, F 57, su cui vd. infra, pp. 216 ss.

441 Nel passo di Aristofane in questione leggiamo ai versi 137-145: t…j ¹ t£raxij toà b…ou; t…

b£rbitoj / lale‹ krokwtù; t… d lÚra kekruf£lJ; / t… l»kuqoj kaˆ strÒfion; æj oÙ xÚmforon. / t…j daˆ katrÒptou kaˆ x…fouj koinwn…a; / sÚ t' aÙtÒj, ð pa‹, pÒteron æj ¢n¾r tršfei; / kaˆ poà pšoj; poà cla‹na; poà Lakwnika…; / ¢ll' æj gun¾ dÁt'; eta poà t¦ titq…a; / t… fÍj; t… sig´j; ¢ll¦ dÁt' ™k toà mšlouj / zhtî s', ™peid» g' aÙtÕj oÙ boÚlei fr£sai;

442 Sulle varie ipotesi formulate al riguardo (attribuzione ad Eschilo del solo emistichio podapÕj

Ð gÚnnij, dell'intero v. 136, o di buona parte del testo aristofanesco) cfr. Radt III, p. 182; Garzya 2000, p. 165, secondo cui buona parte dei versi di Aristofane risalirebbe agli Edoni.

Tali testimonianze hanno quindi permesso di affermare che nel dramma fosse con ogni probabilità rappresentata la scena in cui Dioniso, preso prigioniero e condotto davanti al re, veniva da questi interrogato e deriso per il suo aspetto femmineo: “Da dove viene l'uomo femmina? Qual è la sua patria? Cos'è quest'abito?”443, esclama

Licurgo nel vedere il dio catturato. Dioniso, ovvero lo Straniero di cui il re ignora l'identità e “che si manifesta vestito da donna444, costituisce un'apparizione del divino

incomprensibile per Licurgo, il re che è l'esponente dello spirito maschile”445: da questo

rifiuto o incapacità di comprendere la natura divina di chi gli sta innanzi, Licurgo formula le sue sarcastiche congetture e constatazioni sulla figura dello Straniero. Alla stessa scena si possono, infatti, verosimilmente attribuire il frammento 61a, t… d' ¢sp…di xÚnqhma kaˆ karchs…J;, in cui si domanda quale rapporto ci sia fra uno scudo e una coppa, e il frammento 62, in cui il dio è qualificato come cloÚnhj, termine da intendersi probabilmente nel senso dispregiativo di “eunuco”446 (makroskel¾j mšn:

«ra m¾ cloÚnhj tij Ãn;).

La scena della cattura di Dioniso e del suo interrogatorio da parte di Penteo è presente anche nelle Baccanti di Euripide447, ma rispetto alla situazione drammatica del

modello eschileo, in cui Licurgo insulta il responsabile della diffusione del nuovo culto condotto al suo cospetto come prigioniero, Euripide innova distinguendo due momenti fondamentali di impatto tra Penteo e il dio448. Il primo si inserisce nel contesto del

discorso pronunciato dal re nel I episodio, al momento del suo ingresso in scena, quando, saputa la notizia dell'arrivo del corteo dionisiaco nel territorio tebano e del coinvolgimento delle donne della città nel furore orgiastico del nuovo culto, Penteo, in assenza di Dioniso e sulla base di informazioni apprese per sentito dire, si esprime con tono aspramente polemico e offensivo nei confronti dello Straniero, insistendo sulla sua effeminatezza: “Inoltre, a quanto mi dicono, è dentro ai confini di questa terra un tizio, uno straniero venuto dalla Lidia, un ciarlatano che fa incantesimi e sortilegi: dai riccioli

443Trad. Del Corno 2001.

444 Il fr. 59 R., in cui si allude a vesti tipicamente dionisiache, sembra quasi fornire la risposta

all'interrogativo formulato da Licurgo sull'identità e l'abbigliamento del dio: Óstij citînaj bass£raj te Lud…aj / œcei pod»reij, dove l'aggettivo pod»reij richiama il passo delle Baccanti in cui Euripide mette in scena il travestimento di Penteo: oltre ad una lunga chioma, la mitra e il tirso, l'abbigliamento del re prevede anche pšploi pod»reij (Eur. Bacch. 833).

445 Untersteiner 1955, p. 260.

446 Cfr. Séchan 1926, p. 65; Untersteiner 1955, p. 260; Garzya 2000, p. 165.

447 Sui parallelismi tra la Licurgia di Eschilo e le Baccanti di Euripide, cfr. Dodds 1960², pp.

xxxii ss.; Garzya 2000, p. 168; Di Benedetto 2004, pp. 101 ss.

biondi della sua chioma emana un buon profumo, il suo colorito è del colore del vino, negli occhi ha la grazia di Afrodite, è uno che i giorni e le notti col pretesto dei misteri di Bacco si ritrova insieme con le giovinette” (vv. 233-238), a cui segue, ai versi 352 ss., l'ordine di catturare e legare lo Straniero dall' “aspetto femmineo” (v. 353: tÕn qhlÚmorfon xšnon); il secondo momento si inquadra all'interno del II episodio, quando Penteo, avendo di fronte a sé per la prima volta il dio catturato dalle guardie, esprime considerazioni sulle sue fattezze femminee, elencando i particolari del suo aspetto evocanti una chiara idea di mollezza (la bellezza, i riccioli lunghi, pieni di seduzione, la pelle chiara)449, per poi interrogarlo sulla sua origine (v. 460: prîton mn oân moi

lšxon Óstij e gšnoj) e sulla natura e le caratteristiche delle pratiche rituali da lui introdotte in Grecia. L'interrogatorio, sviluppato nella forma di una serrata sticomitia, si conclude con l'ordine impartito dal re di chiudere il dio in prigione.

I motivi della cattura del dio e della rappresentazione del suo aspetto effeminato tornano nella tragedia latina arcaica: il fr. 33 R³. del Lucurgus di Nevio, tragedia il cui modello sarebbe da identificarsi, secondo alcuni studiosi, in Eschilo e, in particolare, negli Edoni450, potrebbe alludere alla cattura di Liber, preso prigioniero e condotto in

catene davanti a Licurgo, che si rivolgerebbe alle sue guardie, domandando in che modo fossero riuscite a catturarlo: dic quo pacto eum potiti: pugnan an dolis?.

Il frammento neviano inc. nom. rel. 54 R³., citato da Varrone nel VII libro del

De lingua latina per l'uso dei due grecismi diabatra ed epicrocum, sembra contenere

invece un riferimento all'abbigliamento, tipicamente femminile, di Dioniso:

diabathra in pedibus habebat, erat amictus epicroco.

449 Eur. Bacch. 453 ss.: “Eppure, per l'aspetto esteriore, o straniero, non sei privo di una tua

piacevolezza formale (tÕ mn sîm' oÙk ¥morfoj e, xšne), per chi voglia usare criteri femminili: e questo è -del resto- l'obiettivo del tuo arrivo qui a Tebe. Sì, è vero. I tuoi riccioli son ben lunghi (plÒkamÒj te g£r sou tanaÕj) ...; arrivano fin sopra la guancia, sono roridi di desiderio; e se la tua pelle è lucida, c'è un fine ben preciso: non ti esponi ai dardi del sole, ti ripari sotto l'ombra, e con la tua bellezza cerchi di far tua Afrodite”.

450 I frammenti neviani sono infatti comunemente utilizzati per la ricostruzione dell'opera

eschilea a partire da Deichgräber 1939, pp. 231 ss. Per l'ipotesi secondo cui Eschilo avrebbe costituito il modello fondamentale di Nevio, cfr. Dodds 1960², p. xxxiii; Sutton 1971, pp. 387 ss.; Lattanzi 1994, pp. 191 ss.; Casali 2005, pp. 238-239. Marmorale 1950², p. 151 e Pastorino 1955, p. 42 sostengono, invece, la possibilità che Nevio abbia attinto ad un dramma alessandrino, a sua volta rifatto su Eschilo; la tesi della rielaborazione di un rifacimento ellenistico è discussa da Lattanzi 1994, pp. 194 ss., la cui indagine è estesa alla tragedia latina arcaica nel suo complesso. Sul problema è tornato recentemente Nosarti 1999, p. 14, il quale assume una posizione di sostanziale prudenza, sostenendo che niente di preciso è possibile dire sui modelli seguiti da Nevio, visto che non si può escludere che il poeta abbia non solo praticato la

Sebbene nel riportare il verso Varrone si limiti a dichiararne l'appartenenza a Nevio, senza specificarne l'opera, gli studiosi sono tuttavia generalmente concordi nell'attribuirlo al Lucurgus451, vedendovi quanto resta di una descrizione del dio

rappresentato, secondo la tradizione classica, come effeminato. Quanto alla collocazione del frammento nello svolgimento della vicenda, si è ipotizzato452 che esso appartenesse

al resoconto della cattura del corteo dionisiaco presentato al re dal capo delle guardie: tra i componenti del tiaso avvistati durante la loro missione, i soldati hanno individuato un personaggio insolitamente abbigliato, che sembrava esserne il capo. Il diabatron era una calzatura leggera e bassa, usata soprattutto dalle donne453, mentre l'epicrocum era un

mantello color zafferano, trasparente e leggero, indossato dalle donne o dagli effeminati454: in quanto oggetti di un abbigliamento tipicamente femminile, i diabatra e

l'epicrocum si adattano, quindi, perfettamente alla rappresentazione effeminata di Dioniso455.

Per quanto riguarda le Bacchae di Accio, particolarmente interessante appare, al riguardo, il fr. 254 R³., in cui sono state riconosciute considerazioni formulate da Penteo sull'effeminata bellezza dello Straniero, catturato come prigioniero dalle sue guardie e condotto al suo cospetto:

formae figurae nitiditatem, hospes, geris

451 Cfr. Ribbeck 1875, p. 59; Warmington 1957, p. 131; Deichgräber 1939, p. 161; Marmorale

1950², p. 199; Pastorino 1955, p. 48; Lattanzi 1994, p. 241. Traglia 1986, p. 207 considera l'ipotesi non priva di fondamento, ma non esclude la possibilità che il verso appartenesse piuttosto ad una commedia.

452 Cfr. Warmington 1957, p. 13; Pastorino 1955, p. 48; Lattanzi 1994, p. 264.

453 Cfr. Hsch. D 41 Latte s. v. di£baqra: eŒdoj Øpod»matoj gunaike…ou; CGL VI, p. 337: Diab[r]atra: genus calcei muliebris.

454 Cfr. Saglio s.v. epicrocum in Daremberg-Saglio II, 1981.

455 L'attenzione per l'abbigliamento dionisiaco è testimoniata da un altro frammento del Lucurgus

neviano, che ci ha restituito una colorita descrizione delle vesti indossate dalle Baccanti, frammento appartenente anch'esso, con ogni probabilità, al resoconto presentato al re dopo la cattura: pallis, patagiis,

crocotis, malacis mortualibus (fr. 43 R³.). Sulle caratteristiche degli indumenti, tipicamente femminili,

Sebbene l'interpretazione del nesso formae figurae non sia unanime456, gli

studiosi sono concordi nel riconoscere nel frammento una resa del v. 453 delle Baccanti di Euripide, in cui Penteo si esprime con pungente ironia sull'aspetto del dio prigioniero457:

¢t¦r tÕ mn sîm' oÙk ¥morfoj e, xšne

Se al greco xšne corrisponde il vocativo hospes, alla seconda persona singolare e il latino geris, ed ¥morfoj appare riecheggiato da formae, la coppia di genitivi allitteranti formae figurae ed il rilievo posto sui caratteri femminei della bellezza dello Straniero mediante l'astratto nitiditas costituiscono i tratti peculiari ed originali della rielaborazione acciana: “ne esce un Euripide imbarocchito, ma non tradito nel gioco dei suoi contrappunti”, così commenta Traina il verso di Accio458.

Alla medesima scena è possibile ricondurre il fr. 255 R³., Nam flori crines,

uideo, et propexi iacent459, riconducibile alla situazione delineata da Euripide in Bacch.

456 Rispetto all'interpretazione tradizionale che riconosce nel nesso una coppia di genitivi

coordinati per asindeto (Ribbeck 1875, p. 572, che pone una virgola tra i due termini; A. Traina 1974², p. 198, che parla di “coppia sinonimica asindetica allitterante”; D'Antò 1980, p. 303; Dangel 1989, p. 200), Strati 1974 ha proposto di vedere in formae un genitivus inhaerentiae retto da figurae, interpretazione legittimata dalla presenza del sintagma formae (o formai) figura in Lucrezio e in Cicerone: accettando questa ipotesi, che attribuisce a figura il senso astratto e generico di “conformazione”, “manière d'être fait”, e a forma un significato più concreto e specifico, la iunctura latina ricalcherebbe perfettamente il nesso euripideo morfÁj scÁma (o sc»mata). L'interpretazione di Strati è stata recentemente difesa da Bagordo 2002, p. 44. Dangel 1995, p. 343 non esclude l'ipotesi avanzata dalla studiosa, ma nella traduzione del frammento data a p. 192 interpreta il nesso come coppia sinonimica e asindetica (“Tu affiches, étranger, un éclat de beauté, de conformation”). Sulla questione si veda, inoltre, Timpanaro 1996, p. 208, secondo cui rimane il dubbio sull'interpretazione di formae.

457 Cfr. Ribbeck 1875, p. 572; Warmington 1957, p. 398; I. Mariotti 1965, p. 214 (= 2006, p.

102); Pociña 1987, p. 723 n. 34; D'Antò 1980, pp. 303 ss.; Dangel 1995, p. 343; Zimmermann 2002, p. 341; Rosato 2005, pp. 180 ss.

458 A. Traina 1974², p. 198.

459 Il testo del frammento qui citato differisce da quello di Ribbeck (fr. 255 R³.), che corregge il

tràdito et in ei (intervento ritenuto non necessario da Rosato 2005, p. 184 n. 46; mantengono il testo tràdito Dangel 1995, p. 192; D'Antò 1980, p. 103) e propone, per il corrotto processuacent, la congettura

propessi iacent (R². 1871, p. 169; R³. 1897, p. 195) ipotizzata a partire dall'avverbio pessum (l'aggettivo propessus non è infatti attestato); l'emendamento propexi iacent, qui accettato e considerato da Rosato

2005, p. 183, il “meno insoddisfacente” (si vedano le attestazioni in Verg. Aen. 10, 838; Ov. fast. 1, 259), è accolto da Warmington 1957, p. 398; D'Antò 1980, p. 103; Dangel 1995, p. 192. L'altro emendamento,

processi iacent, “ha il pregio di essere paleograficamente molto 'economico', ma presenta l'inconveniente

di postulare il participio passato di un verbo intransitivo (procedo)” (Rosato 2005, p. 183). Il frammento è trasmesso da Serv. Auct. ad Verg. Aen. 12, 605, verso che presenta uno dei problemi più discussi della critica testuale virgiliana. La tradizione manoscritta è infatti unanime nel conservare la lezione flavos, nota anche a Tiberio Claudio Donato, ma in Servio leggiamo: 'flavos Lavinia crines': antiqua lectio

'floros' habuit, id est florulentos, pulchros; et est sermo Ennianus; il Danielino aggiunge: Probus sic adnotavit: neotericum erat 'flavos', ergo bene 'floros': nam sequitur 'et roseas laniata genas', e, a

455-456, dove il sovrano di Tebe non risparmia provocatorie osservazioni sulla chioma fluente e sensuale di Dioniso:

plÒkamÒj te g£r sou tanaÕj oÙ p£lhj Ûpo, gšnun par' aÙt¾n kecumšnoj, pÒqou plšwj

Controversa appare, come noto, la questione dell'etimo e del significato dell'aggettivo florus, questione ampiamente dibattuta da Timpanaro460 che,

contrariamente all'opinione di gran parte dei linguisti moderni461, considera poco

probabile una connessione originaria tra florus e flavus, sostenendo invece l'ipotesi, avanzata da Leumann462, che vede in florus una 'formazione retrograda' da florere.

Sebbene l'interpretazione fondamentale dell'aggettivo debba quindi essere, secondo lo studioso, quella di 'fiorente', 'rigoglioso'463, la vasta gamma di usi metaforici in cui flos, florere, come i greci ¥nqoj, ¢nqhrÒj, possono essere impiegati, lo porta a non

escludere che dalla nozione di 'fiorente' si potesse facilmente passare, per estensione semantica secondaria, a quella di 'vivacemente colorato'464: le due notazioni, quella di

'crescita, rigoglio' e quella coloristica, potrebbero quindi coesistere. Appare comunque interessante osservare, con Rosato465, che nel caso in cui si attribuisca a florus il crines, uideo, et propessi iacent'; in iisdem [246 R³.]'et lanugo flora nunc demum inrigat', Pacuvius Antiopa [19 R³.]'ceruicum floros dispergite [disperdite F, corr. Delrio] crines'. Ai frammenti citati dallo

scolio danielino si può aggiungere Naev. Luc. 45 R³., su cui avremo modo di tornare. Per una disamina complessiva della dibattuta questione se sia più opportuno conservare la lezione dei manoscritti o accogliere il floros della tradizione scoliastica, e sui problemi interpretativi posti dallo scolio, cfr. Timpanaro 1986, pp. 99 ss. e id. 2001, pp. 77-93, dove spiega le ragioni della preferenza per floros, lezione evidentemente preferita da Probo a flavos, forma più recente e, quindi, stilisticamente meno pregevole. Lo studioso pensa, inoltre, ad un eventuale passaggio, avvenuto nella tradizione virgiliana antica, da floros a flavos per un errore meccanico o una congettura banalizzante.

460 Timpanaro 1986, pp. 101-107, a cui rimando per la bibliografia. Le considerazioni qui

formulate appaiono confermate da Timpanaro 2001, pp. 84 ss. e, in particolare, pp. 90-91.

461 Walde-Hofmann, pp. 513 ss.; Ernout-Meillet 19794, p. 239, che lo considera sinonimo di flavus; ThlL VI 1, 927: 1 significat colorem (ut uidetur, flavum); la connessione originaria tra florus e flavus è ritenuta probabile anche in OLD s.v. florus.

462 Leumann 1977², p. 544. Così anche Skutsch 1986, p. 761.

463 Timpanaro 2001, p. 84 ritiene che l'interpretazione dell'aggettivo nel senso di 'fiorente',

'rigoglioso' sia valida anche per i passi di Pacuvio e Accio citati da Probo come paralleli per Verg. Aen. 12, 605. Più scettiche e caute appaiono le conclusioni di Delvigo 1985, p. 153: “florus è quindi aggettivo raro ed arcaico: difficile precisarne l'esatto valore semantico e ancor più accertare quanto correttamente esso, in epoche diverse, venisse inteso”. Sulla questione cfr. anche De Rosalia 1988, pp. 59-60 e 72-73; Giancotti 1993, pp. 123 ss.; Rosato 2005, p. 184 e n. 47.

464 Timpanaro 1986, p. 104. Alla luce di queste considerazioni, formulate sulla base di alcuni usi

metaforici del verbo florere (cfr. Lucr. 5, 1442; Verg. Aen. 7, 804), lo studioso ammette che i “capelli folti, rigogliosi” di Lavinia in Verg. Aen. 12, 605 potrebbero essere anche “fulvi” o “biondi”, e che lo stesso potrebbe dirsi del passo di Pacuvio e del primo di Accio citati da Probo.

significato di “rigoglioso”466, è possibile ravvisare nel predicato flori del frammento di

Accio una resa del greco tanaÒj delle Baccanti di Euripide; qualora, invece, si interpreti l'aggettivo come equivalente di flavus467, si può pensare, come fa Traina468,

che il riferimento alla notazione coloristica sia tratto, “per contaminazione interna”, da altri luoghi euripidei come Bacch. 235 xanqo‹si bostrÚcoisin, riferimento che risulterebbe decisamente pertinente al contesto della rappresentazione femminea dell'aspetto del dio, visto che “bionda nel mondo latino è per eccellenza la chioma femminile, quella di Pirra (Hor. carm. 1, 5), di Fillide (ibid. 2, 4), di Cloe (ibid. 3, 19), o della bellezza efebica, Apollo (Ovid. am. 1, 15, 35), Ganimede (Hor. carm. 4, 4, 4), Teseo (Catull. 64, 98)”469.

Alla luce di queste considerazioni, è possibile osservare come la rappresentazione dell'aspetto femmineo del dio e la scena della sua cattura, presenti in Ovidio, siano riconducibili ad un modulo ben attestato nella tradizione tragica di