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Contenuti del religioso: la preghiera e i riti

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 46-50)

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cos’è la preghiera per voi? L’esperienza del carcere ha cambiato qualcosa? Un breve silenzio, e poi di nuovo tra i presenti spuntano una dopo l’altra le prime mani alzate; questa volta è interessante notare come ci sia un

“noi” sottinteso che accomuna i diversi interventi. Così c’è chi parla di un nuovo equilibrio raggiunto grazie alla preghiera e di una serietà che prima, fuori dal carcere, non trovava spazio nella propria vita; poi c’è chi afferma che pregare sia un sollievo, un aiuto per trovare tranquillità, per astrarsi dai momenti difficili e dalle problematiche personali; e chi infine dichiara di “pregare di più” da quando è in carcere rispetto a prima perché, spiega,

«qui ho il tempo di pensare, e nella preghiera chiedo un maggiore inquadramento» (detenuto cristiano).

Ecco quindi un primo punto su cui riflettere: questi ultimi interventi possono essere letti nella chiave interpretativa riportata nell’introduzione (pagg. 16-17), che analizza l’utilizzo della religione durante la detenzione secondo diverse modalità. In primo luogo come “norma strutturante” che dà senso alla vita e imprime una direzione positiva al comportamento, poi come “efficacia terapeutica”, ansiolitica, rispetto allo choc psicofisico che può accompagnare le fasi più difficili della detenzione, e infine, ci teniamo a sottolinearlo, a livello elementare ma non banale la religione come “strategia carceraria”, perché permette di «evadere dal vuoto imposto dalla condizione carceraria, dove il tempo è come sospeso, sembra che non passi mai».

Di tutt’altro peso sono le risposte sul significato della preghiera provenienti dal secondo gruppo di studenti in Alta Sicurezza, dove la maggioranza dei presenti è di fede cattolica. Qui gli interventi dei partecipanti mettono in mostra due aspetti. Il primo è senz’altro che la

preghiera, quando si è in cella, favorisce una riscoperta di valori intimi, quali i legami famigliari e il rapporto che, per alcuni, s’instaura tra la coscienza e il reato commesso, come afferma un detenuto italiano: «Ho dato più importanza alla famiglia e al tempo da trascorrere con essa. Sono cosciente di quello che ho fatto». C’è poi chi ammette che pratiche come «l’andare in Chiesa, il partecipare ai riti, e il parlare di me», che prima “là fuori” non era abituato a fare, ora nella detenzione donano un senso di tranquillità. E infine c’è chi si spinge ancora più avanti e, ammettendo di ricercare il perdono della colpa morale, afferma di pregare perché: «Dio è sceso per quelli come me». Un secondo aspetto emerso è quello della preghiera come strategia per “riempire il tempo”: un dato che non è scontato in uno spazio della pena dai tempi medio-lunghi come quello in cui ci troviamo.

Per comprendere come ciò sia possibile, ci aiuta l’intervento di un’insegnate di AS, Dezia Tallarico, che ci dice di aver osservato come queste persone per affrontare la detenzione riempiono il tempo di ritualità per non renderlo “vuoto” e che «la lettura di testi sacri li aiuta a renderli più profondi».

Torniamo ai corsisti dell’Area Pedagogica. Nei loro interventi è evidente la dimensione del nodo dell’interiorità: la preghiera ha a che fare con qualcosa di molto interno, di intimo all’uomo. Si può dire che essa riguardi le “faccende personali” di ciascuno, come dimostrano le parole usate poco sopra per descrivere insieme il significato di preghiera. Siamo quindi pronti per affrontare un passaggio successivo, che Fabrizio Mandreoli pone di nuovo sotto forma di quesito: se la preghiera è così intima, come mai allora le persone sentono il bisogno di avere uno spazio fisico per praticarla? Gli occhi di tutti sono ora puntati verso il centro del tavolo, dove sono disposte due fotografie: quella dell’uomo che prega solitario nel deserto e quella dei musulmani in preghiera nella moschea. Una voce si fa spazio tra noi: «Un luogo in cui ritrovarsi permette di condividere i propri sentimenti con altri e questo fa sentire più forti, più uniti» (detenuto musulmano); «per noi cristiani la messa della domenica realizza il comandamento di santificare le feste» fa eco un’altra voce. Siamo quindi di fronte a un nuovo aspetto: la partecipazione e l’aggregazione di persone nella preghiera comune da un lato, e il raccoglimento nella preghiera personale dall’altro, ci fanno capire che la fede tiene sempre unite due dimensioni, il rapporto con Dio e con gli altri.

Non da ultimo, le immagini della preghiera comune ci permettono di notare un altro punto: in ogni rito ci sono dei gesti e delle formule che li accompagnano, reiterati nel tempo. Anche questi hanno un’importanza fondamentale, spiega ora il cappellano del carcere Marcello Mattè, perché sono segni e simboli complessi da spiegare, ma che per le caratteristiche di immediatezza e universalità, facilitano la comprensione e la diffusione di concetti-chiave delle rispettive religioni. Quello che si vuole cercare di capire insieme è ciò che hanno in comune invocazioni come “Allah Akbar”

(“Dio è grande”) - al di là della retorica tristemente associata al terrorismo jihadista -, che i fedeli

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musulmani ripetono cinque volte al giorno durante la preghiera, per sentirsi più vicini a Dio e lontani dal maligno, così come i gesti legati al cristianesimo, come il rituale dello scambio della pace, o il segno della croce dinanzi all’altare (per citarne alcuni). Essi rispondono a una doppia e fondamentale necessità: avvicinare l’essere umano alla verità di se stesso, ed elevarlo sopra di sé.

Non è possibile infine tralasciare una questione cruciale, accostata con il gruppetto di corsisti di AS: così come il mondo religioso, anche la criminalità può avere dei riti? E come si potrebbe allora correggerli? Lo stimolo alla riflessione passa per l’analisi di un’immagine del Ku Klux Klan negli Stati Uniti. La forza evocativa di particolari come i cappucci calati a coprire il volto, i simboli di sovranità e autoaffermazione, come la bandiera americana o la croce infuocata, servono a mettere in luce le possibilità concrete di distorsione della ritualità e del sacro. In una parola, è alto il rischio di strumentalizzazione per obiettivi che non sono la ricerca di un “vero” bene. Come afferma infatti qualcuno, «è una ritualità che serve a dare a sé stessi una giustificazione per tutto quello che si fa». È evidente che il riferimento che vogliamo sollevare, senza nascondimenti, e quello a rituali di affiliazione di stampo mafioso. Meno pregnanti e molto vaghe sono tuttavia le risposte a una seconda sollecitazione: una volta che si è capita la natura deviata e deviante di questi riti, come correggerli? Eloquente (non certo per il contenuto della risposta ma per il tono) è l’intervento di qualcuno: «Oggi anche la criminalità non ha più quei riti: la camorra, la mafia di una volta non esistono più».

Il passaggio sui riti in entrambi i gruppi ci consente a questo punto di lanciare un’ultima provocazione: forse che Dio, se per ipotesi esiste, ascolta la preghiera solitaria innnalzata dalla cella? «La terra è di Dio, lui ci ascolta ovunque noi siamo», risponde con convinzione un detenuto musulmano. Reagisce un corsista che si dichiara ateo, sollevando il problema della “strumentalità”

della preghiera per fini personali: se pregare è in fondo un chiedere, quando si prega domandiamo ciò che Dio vuole per noi o non piuttosto ciò che noi vogliamo da lui? Sia fatta la Tua o la mia volontà?

Chiudiamo l’incontro lasciandoci il compito di pensare a quale sia il posto della religione nella nostra vita in generale, nel qui e ora dentro il carcere, cercando di capire come per ciascuno questo diritto rappresenti anche un fattore di miglioramento personale. Il prossimo tassello sarà quello sulle fonti del religioso.

Il percorso che stiamo svolgendo è stato pensato, sin dall’inizio, come un’attività “culturale”, per riflettere su come la dimensione religiosa possa aiutare a vivere con altre persone in un contesto di vita comune. Non ci sono “obiettivi nascosti”. Il punto dev’essere ribadito a più riprese, per attenuare la preoccupazione di qualcuno dei presenti, che sospetta un controllo sulle religioni nel carcere, in particolare sugli aderenti all’islam. In un primo passaggio ci siamo domandati che cosa sia la religione e quali siano le domande fondamentali che hanno guidato una ricerca umana di senso e significato; poi abbiamo analizzato insieme il rapporto tra religione e libertà di credo con una indagine sulle fonti che tutelano tale diritto nel nostro Paese. In un terzo passaggio è stata trattata la questione della pratica religiosa, quindi cosa sia il culto e quali siano i gesti espressivi della fede. Oggi, con Piero Stefani, teologo e biblista, si riflette sulle fonti della religiosità. Vogliamo cioè indagare, a partire da ciascuno di noi, quale sia l’origine di ciò che sa sulla fede: dove, da chi, quando l’abbiamo appresa?

La lezione non può però iniziare senza un riferimento a due gravi eventi di cronaca: gli attentati di Christchurch in Nuova Zelanda, il 15 marzo 2019, che hanno causato la morte di 50 persone e il ferimento di altrettante. Il primo attacco è avvenuto presso la moschea di Al Noor mentre il secondo

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