• Non ci sono risultati.

Legge di Dio e/o legge degli uomini

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 68-71)

del secondo dopoguerra - per trasmetterci un’idea di fondo: la Costituzione è stata concepita come

«progetto che va continuamente realizzato: perché aiuta a costruire una società fondata su valori che ci rendano sempre più umani». Un altro fermo immagine: un iceberg. Ci sono tante cose nella nostra Carta fondamentale che non si vedono ma ci sono. Per coglierle bisogna fare un passo indietro, e comprendere le motivazioni che spinsero i padri costituenti a scegliere certe cose piuttosto che altre. Quindi, innanzitutto, è importante capire quali siano stati i drammi vissuti dai costituenti:

«Essi avevano sperimentato, sotto il fascismo, la vittoria della demagogia sulla democrazia, ed erano consapevoli di quale fosse il sentimento che animava i cittadini italiani sostenitori del regime in quegli anni». Non solo, i costituenti avevano anche sperimentato i disastri della guerra: tra le vittime totali della Seconda guerra mondiale, su 71 milioni di morti si contano 48 milioni di civili (68%), tra cui vanno considerati i tanti stranieri venuti a morire per combattere in guerra. Si capisce solo così, da queste cifre inimmaginabili, come la meditazione su questi fatti terribili abbia ispirato i principi fondamentali, frutto di senso della storia, saggezza umana, acume politico ed equilibrio istituzionale, contenuti nella Costituzione.

Per citare qualche esempio, il magistrato va a riprendere il principio dell’articolo 1 sulla sovranità appartenente al popolo, ma che la esercita «nelle forme e nei limiti della Costituzione». Per quale ragione è stata scritta questa cosa? Perché i costituenti oramai sapevano bene che, per non incorrere di nuovo nel rischio di un regime, la sovranità del popolo può  esplicarsi soltanto nel quadro tracciato

dalla Carta fondamentale. Importantissimo poi, aggiunge Millo, è anche l’articolo 4 che riprende, ampliandolo, quello che l’art. 1 sancisce essere il fondamento della nostra Repubblica. Assegna al lavoro il duplice ruolo di diritto e dovere, per contribuire alla realizzazione dell’individuo e delle sue aspirazioni materiali e spirituali, e quindi al benessere della società intera. Il discorso potrebbe continuare a lungo, ma una domanda spezza la carrellata di esempi: «Perché in Italia sbagliamo a votare un governo dietro l’altro?». Il messaggio implicito è evidente, a emergere ora è l’ineludibile dilemma tra la teoria e i fatti. I commenti dei nostri corsisti in AP convergono tutti sul fatto che sulla Carta fondamentale le cose sono scritte in un modo, ma nella pratica vanno diversamente: la politica e i politici stessi si rivelano spesso imperfetti, le leggi o non sono rispettate oppure sono avvertite come sbilanciate o ingiuste o troppo “dure”. E allora come fare? Lasciamo emergere una provocazione: non sarebbe forse meglio obbedire solo alla Legge di Dio? Le reazioni tra i presenti divergono: in AP c’è chi ritiene che quella divina sia più severa della Legge umana e chi, invece, in AS sogna una società retta soltanto dalle leggi divine perché «sono due leggi che si contraddicono l’una con l’altra» e quella umana porta a «dimenticarti di Dio». Qualcun altro in AP fa una distinzione tra ambiti di riferimento: «La Legge di Dio è per il cuore, quella umana è per le relazioni. Devono essere applicate insieme, sono come due strade che portano verso una stessa direzione». E chi parallelamente, tra i corsisti di AS, vede nel Vangelo e nella Costituzione due sistemi di legge per vivere bene, a patto che vengano rispettati entrambi.

C’è un aspetto importante da sottolineare: soprattutto in AS, dove la maggioranza dei presenti è di fede cattolica, la distinzione tra i due sistemi normativi e la preferenza accordata alla Legge di Dio vengono ricondotte al concetto di perdono. Quasi a voler dire che quest’ultima è preferibile, siccome quella umana sembra solamente capace di punire le colpe, senza tenere conto del percorso di rieducazione e della sofferenza patita durante la detenzione: «Non è che siamo noi detenuti a non credere nel reinserimento, sono loro (la società, le istituzioni) che non credono in noi». Oppure, nella stessa linea: «Io sono convinto che allo Stato non interessi recuperare un detenuto» Siamo di fronte a due argomentazioni simili, che proprio per il contesto da cui provengono, non sono affatto da sottovalutare. Riguardano infatti un sistema di pensiero, che alimenta il senso di sfiducia e di pregiudizio nei confronti di istituzioni avvertite moralmente come “ingiuste”. Il ragionamento è sottile e denso di ambiguità che vanno colte, perché l’appello a una Giustizia Superiore, di natura divina, infallibile e allo stesso tempo incline al perdono, è un anelito in sé positivo, comprensibile, ma può anche servire per delegittimare le norme che la comunità degli uomini si dà, sostituendovi quelle - altrettanto umane ma criminali - forgiate dal clan mafioso. Ma questo, evidentemente, non può essere manifestato a chiare lettere. In modo esplicito viene invece detto da molti che la famiglia

di ari o di un p er co rs o

relig ioni p er l a ci ttadina nza

70

è l’unico aggregato umano dotato di regole e di meccanismi di giustizia degni d’essere rispettati.

Rispetto alla “eclissi” del senso dello Stato e delle sue leggi, solo l’organizzazione familiare continua a brillare di luce propria. Ed è da lì forse che bisogna procedere per un discorso sul recupero della legalità e del senso della cittadinanza.

Abbiamo dunque potuto registrare come molti degli interventi dei nostri corsisti convengano sul fatto che la giustizia umana sia più debole della Giustizia Perfetta, talmente idealizzata da non appartenere all’ordine di questo mondo. Il dialogo può però condurre a far riconoscere che la comunità umana non può rinunciare al compito di “rendere giustizia”, e che l’organizzazione della “macchina della giustizia”, insieme al grado di coscienza del giudice (Maurizio Millo ha detto a questo proposito parole di natura personale seguite con grande interesse), esprime un tentativo, pur parziale e imperfetto, di realizzare questo scopo. Si tocca davvero con mano come, in un contesto qual è quello carcerario, sempre più poliedrico, la questione dell’osservanza delle leggi e l’intreccio tra queste ultime, i sistemi etici e le religioni costituisce un ganglio vitale dell’identità delle persone ristrette. Per l’azione rieducativa rappresenta un campo vasto e profondo, per far comprendere che la convivenza tra uomini ha bisogno di leggi degli uomini, quindi inevitabilmente soggette ad errori, ma indispensabili per vivere insieme.

«Tratta gli altri come vorresti essere trattato tu stesso / Ama il prossimo tuo come te stesso / Non ferire gli altri in modi dai quali anche tu ti sentiresti ferito / Non fare agli altri ciò che non vorresti che essi facessero a te / Nessuno di voi è un credente fino a quando non desidera per il suo fratello quello che desidera per se stesso / Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro». È questa la regola generale e condivisa, attraverso cui gran parte delle religioni (le frasi citate sono rintracciabili nelle fonti dell’induismo, ebraismo, buddhismo, confucianesimo, islam, cristianesimo) fissa il principio positivo di relazione interpersonale. Parole preziose che si tramandano da secoli e secoli e che rappresentano, nell’immaginario comune, come una sorta di bussola per i rapporti umani. Il sociologo Marco Bontempi, seduto di nuovo in mezzo a noi, nota che non si tratta di un principio di “buona vita” fissato in virtù di un accordo formale tra popoli e culture di differenti latitudini.

Sembra piuttosto che in tanti sistemi di pensiero diversi, religiosi e non, qualcuno sia arrivato a dire cose simili in epoche e situazioni differenti. La domanda che animerà il dibattito odierno è quindi

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 68-71)