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religione in detenzione

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 28-31)

sforza di gestire canalizzandola verso oggetti esterni alla comunità … là dove altri apparati (come il sistema giudiziario statuale) stentano ad essere riconosciuti e accettati» (Cavadi 2009, 99). Su questa base si è provato anche a delineare i contorni di una certa visione di Dio, nella quale l’onni-potenza oscura la tenerezza, e la sottomissione incondizionata a un principio d’autorità derespon-sabilizza la coscienza anche di fronte alle azioni più gravi. La vita devota, con i suoi riti e i suoi patroni, può associarsi e sfociare nei riti di adesione al clan, che servono a tracciare un limite inva-licabile con “quelli di fuori”, con la società intera e le sue regole: «La parvenza di sacralità giustifica e sorregge l’idea che attraverso il rito della combinazione si venga introdotti a una nuova vita, a una nuova identità» (Dino 2008, 54). In continuità con questa lettura si è affermato «che i mafiosi hanno bisogno di possedere e di mantenere un radicamento, una legittimazione, un’appartenenza alla cultura del luogo in cui si muovono che gli viene anche, e a volte in prevalenza, dalla parteci-pazione ai riti, alle cerimonie e più in generale dall’appartenenza visibile e riconosciuta alla Chiesa cattolica … Attraverso l’uso di un linguaggio che evoca continuamente l’elemento spirituale, tra-mite la partecipazione attiva e visibile alle feste religiose … e in tutti i riti religiosi (specialmente nel battesimo, che ancora oggi costituisce in larga parte nel territorio meridionale vincoli anche più intensi e duraturi di quelli parentali), i mafiosi perpetuano la legittimazione all’esercizio di po-sizioni di dominio all’interno della comunità locale» (Fabbri 2012, 6). Altrettanto impressionante è la proiezione di simboli e idee della tradizione religiosa cattolica nei rituali di adesione mafiosa (Puccio-Den 2017, 121-126; Di Rienzo 2017, 137-143). Anche su questo fronte risulta dunque del tutto evidente come il progetto educativo sia chiamato a prendere molto sul serio la dimensione religiosa dei detenuti, con un’urgenza non minore di quella avvertita, ad esempio, nei confronti del radicalismo islamista.

Considerazioni analoghe valgono per il trattamento educativo di aderenti a organizzazioni mafio-se nigeriane, caratterizzate com’è noto dal peso significativo di ritualità e messaggi attinenti alla di-mensione religiosa. È il caso ad esempio di Black Axe Confraternity e The Supreme Eye Confraternity,

«ramificate a livello internazionale e caratterizzate da una forte componente esoterica. Vengono, infatti, utilizzati riti di iniziazione chiamati ju-ju, molto simili al voodoo e alla macumba, propri della cultura yoruba, immancabilmente presenti in Nigeria, nella fase di reclutamento delle vittime. Tali riti diventano, poi, funzionali alla “fidelizzazione” delle connazionali, che una volta giunte in Ita-lia vengono destinate alla prostituzione» (DIA 2018, 319). Il percorso rieducativo che transita nei territori della religione deve qui operare anche nel campo della liberazione delle vittime di queste pratiche, donne di colore che possono trovarsi anch’esse detenute per altri motivi, ma che portano sulle proprie spalle il fardello di un rapporto schiavizzante con il sacro. È bene notare che, a causa

dell’elevato livello di sincretismo religioso nelle aree di origine di queste persone, voodoo e ju-ju possono convivere con l’appartenenza a qualche confessione cristiana. La qualifica di “cristiani”, confermata magari dalla partecipazione regolare e cordiale ai momenti “ufficiali” dei culti in car-cere (messe, gruppi del Vangelo ecc.), può dunque lasciare nell’ombra aspetti della religiosità di queste persone, che andrebbero invece tenuti in seria considerazione, proprio per la loro incidenza nella “storia criminale” dei soggetti interessati.

Similmente, la persistenza di pratiche superstiziose e magiche nel tempo della detenzione attiene a quell’area di criticità dell’ambito religioso - latamente inteso - che non può essere ignorato, in un quadro trattamentale che mira a ricostruire un senso di responsabilità e la liberazione da ogni tipo di dipendenza psicologica, della quale quella da sostanze stupefacenti è solo la più conclamata. A un livello elementare, è facile rilevare la diffusione di gesti e riti quotidiani, ai quali si attribuisce un valore “propiziatorio” rispetto alle sorti del processo e alle prospettive della liberazione. Si tratta di pratiche individuali e apparentemente innocue, ma la cui ripetizione ossessiva, nella vita mo-notona del carcere, può lasciare impronte indelebili nella personalità di chi ne fa uso. A un livello superiore si collocano quelle pratiche magico-superstiziose che mirano a esercitare un controllo occulto sull’ambiente circostante e strutturano relazioni di sottomissione tra compagni di detenzio-ne, attraverso la doppia leva dell’intimidazione e dell’attrazione. Il problema meriterebbe

un’atten-zione specifica, con particolare riguardo per le sezioni femminili. Anche in questo caso, le pratiche qui accennate possono convivere con l’adesione formale a religioni come il cristianesimo e l’islam.

Le osservazioni appena proposte sulle criticità inerenti al rapporto con il religioso, suggeriscono di riflettere anche sul tema, sopra accennato, del rapporto tra violenza e religione, tra violenza e sacro, poiché è l’altra faccia della medaglia rispetto a quella della religione che si presenta come fattore di pace, interiore ed esteriore, e quindi si candida a svolgere un ruolo chiave nel progetto rieducativo.

È stato scritto che «la violenza pare una componente ineliminabile del comportamento umano … Essa circola come il sangue dell’umanità, nelle sue emozioni, nelle sue rivolte, nelle sue utopie»

(Filoramo 2004, 279). La religione e il sacro sembrano allora svolgere un rapporto ambivalente con questa oscura forza fontale: la contiene, nel doppio significato di “frenare” e “ospitare”. La religio-ne consente alla violenza immorale di moralizzarsi, di proporsi come lotta del Bereligio-ne contro il Male, di identificare il nemico da annientare e di valorizzare simbolicamente il furor bellico del guerriero.

Gli studi sul terrorismo di marca religiosa hanno insistito sull’idea della “identità collettiva” del gruppo in azione, poiché «chi commette violenza nel nome di un’identità religiosa ha subordinato la propria identità individuale a quella collettiva … Una simile subordinazione al gruppo offre ai leader potere pressoché illimitati per modellare il comportamento dei componenti» (Jones 2013, 386).

Questo tipo di osservazioni può risultare prezioso anche per il trattamento di altri autori di delitti, nei quali la religione ha una parte diretta nel movente o serve a illuminare la personalità di chi ha violato la legge. È il caso, sopra segnalato, degli appartenenti a organizzazioni mafiose, molti dei quali coltivano un profondo senso del sacro, ma in stretta connessione con l’attività crimina-le. Innumerevoli testimonianze affermano che l’incaricato di una missione omicida parte con la benedizione religiosa dei compagni, prega Dio di guidarlo al successo e alla sera si corica recitan-do le consuete orazioni, totalmente sollevato nella coscienza dalla convinzione di avere compiuto quanto comandato “dall’alto”, di avere agito Bene contro chi è dalla parte del Male. Maria Inglese, psichiatra con lunga esperienza di questo tipo di detenuti, parla di una «antropologia caratteriz-zata da un fondamentalismo psichico che permea sia il concetto di individuo che quello di gruppo. È una cultura. E come la maggior parte delle culture definisce se stessa in contrapposizione a quella dell’altro, verso il quale esiste un’indifferenza legata al fatto che l’altro non è come me, è diverso»

(Inglese 2018, 3). La dimensione religiosa può evidentemente contribuire a modellare e legittimare questo fondamentalismo psichico.

Infine, la violenza di cui può essere veicolo il sacro non è solo fisica, ma anche psicologica, e può

re lig io ne in d et enzi one

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 28-31)