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libertà di scegliere, libertà di cambiare

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 43-46)

Bresciani mostra come in queste poche righe sia contenuto un passaggio “visionario” - se pensiamo agli anni in cui fu redatto questo articolo dai Padri costituenti - verso una comprensione allargata a tutte le confessioni religiose, che vengono qui considerate tutte sullo stesso piano, anche se nella prassi è evidente che in contesti come il carcere si avverte una chiara disparità di trattamento delle confessioni religiose. Nella Costituzione il principio della libertà religiosa è sancito in tutta la sua completezza, sia sotto il profilo individuale che collettivo dall’art. 19, che afferma:

«Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».

L’articolo evidenzia bene due modi d’intendere questa libertà. Il primo è che la libertà religiosa è un diritto incoercibile e inalienabile, ovvero non sottoposto all’autorità dello Stato. «Un altro aspetto della libertà religiosa è la libertà di cambiare», aggiunge Ignazio De Francesco, e facendo riferimento al Corano nota che in tre passaggi (2,256: «Non c’è costrizione nella religione»; 109,6: «A voi la vostra religione, a me la mia» 18,29: «Chi vuole creda e chi non vuole respinga la Fede») vi siano idee comparabili con i principi di libertà contenuti nella Carta fondamentale. L’intervento di Ignazio dà adito al nostro ospite per spiegare un secondo modo per intendere la libertà di fede: essa è intesa come libertà di professare qualunque fede, di mutare convincimento o anche di non professare alcuna fede, senza che ciò comporti alcuna conseguenza o discriminazione. Credenti e non credenti hanno gli stessi diritti, per cui anche la libertà religiosa negativa (ateismo) rientra nella libertà religiosa e gode della stessa tutela riconosciuta a quest’ultima dall’art. 19. In una parola potremmo dire, sintetizzando, che la libertà religiosa è un

“corollario” della libertà di coscienza, libertà che consente all’individuo di coltivare ed esprimere le sue convinzioni. Lo stato italiano, dunque, non è indifferente al fenomeno religioso, ma non può aderire a un credo religioso, al fine di tutelare i diritti di tutti e ridurre le disuguaglianze esistenti.

Religione e detenzione. Per toccare ora con mano il secondo aspetto introdotto a inizio capitolo, la religiosità in stato di detenzione, svoltiamo pagina fino ad arrivare all’art. 26 della Legge dell’Ordinamento penitenziario:

«I detenuti e gli internati hanno libertà di professare la propria fede religiosa, di istruirsi in essa e di praticarne il culto. Negli istituti è assicurata la celebrazione dei riti del culto cattolico. A ciascun istituto è addetto almeno un cappellano. Gli appartenenti a religione diversa dalla cattolica hanno diritto di ricevere, su loro richiesta, l’assistenza dei ministri del proprio culto e di celebrarne i riti».

di ari o di un p er co rs o

relig ioni p er l a ci ttadina nza

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Pier Francesco Bresciani fa notare come anche qui, almeno dal punto di vista teorico, la dimensione del religioso sia considerata dal Legislatore un elemento fondamentale per la rieducazione del detenuto, con l’obiettivo di agevolarne il reinserimento nella società. Non sfugge tuttavia una criticità: se abbiamo una Carta fondamentale che tutela la libertà di espressione e di coscienza, come è possibile che sussista allo stesso tempo una Legge che nei penitenziari considera la religione un elemento per la rieducazione? Non solo, c’è anche una seconda criticità che è quella della reciprocità, come mostra bene l’intervento di un detenuto italiano: «Però, a parti invertite, in un carcere del Marocco noi italiani avremmo un spazio per pregare?». Cogliendo subito la provocazione, affatto banale, il nostro ospite ne pone una diversa, partendo da un’altra prospettiva: «Secondo voi, il fatto che in altri paesi i cristiani non possano esprimere libertà di credo, ci autorizza come Stato italiano a reprimere il diritto agli altri?».

Queste domande si rivelano importanti, in un gruppo eterogeneo come il nostro, per il continuo stimolo alla riflessione, senza accanimento, su temi spesso cogenti in un’istituzione come il carcere, dove le disparità di trattamento relative alla mancanza di spazi per i culti non cattolici e le problematicità connesse nell’esercizio dei riti “pesano” ulteriormente per le confessioni ancora al di fuori dell’intesa con lo Stato italiano (come varie Chiese evangeliche, l’islam, i Testimoni di Geova). «Per queste confessioni serve un nulla osta rilasciato ad personam dall’Ufficio culti del Ministero dell’Interno» spiega ora Fatima, la mediatrice culturale, precisando che l’amministrazione penitenziaria permetterebbe una volta al mese l’uso della sala adibita al culto del venerdì per i musulmani. «Tempo fa si faceva - continua Fatima - il problema è la mancanza di imam che guidino il culto».

Attraverso una domanda posta a tutti i presenti sulle possibilità/limiti all’esercizio della libertà religiosa, si ricava l’impressione che in carcere la tutela di tale diritto, dal punto di vista dei singoli individui, è avvertita generalmente come assicurata (diritto di esporre immagini e simboli, diritto di praticare il culto in maniera non molesta nel tempo libero, diritto a possedere oggetti di particolare valore morale non incompatibili con l’ordinato svolgimento della vita nell’istituto, diritto a una alimentazione rispettosa del credo religioso). Da un punto di vista generale, i fattori discriminanti tra un culto e l’altro sono invece percepiti chiaramente, sia per motivi legislativi, sia per motivi legati alla gestione della pluralità religiosa in uno spazio denso come il carcere. Problemi apparentemente minimi e risolvibili, come l’accesso ai testi sacri (Fatima segnala però che «in certi casi c’è la tendenza dei detenuti a non restituirli») e la scarsità di ministri del culto sono tuttavia quelli avvertiti maggiormente come gravi, perché inducono più facilmente al confronto e alla sensazione di subire discriminazioni.

Il rituale delle abluzioni, una bambina che prega e un’anziana donna con in mano un rosario, la preghiera solitaria di un pellegrino nel deserto, un’assemblea di fedeli cristiani, di monaci buddhisti, di musulmani, di sikh e di rabbini, la moschea blu di Istanbul, la moschea di Roma, la sinagoga di Firenze; un tempio indù… Le immagini disposte, una accanto all’altra, sul tavolo della nostra saletta ci offrono lo stimolo di partenza per dare un colpo d’occhio al tema di oggi: le religioni e il culto. Seduti al tavolo insieme a noi ci sono due ospiti, Fabrizio Mandreoli, teologo, e Franco Pilati, psicologo e giudice onorario al tribunale minorile di Bologna.

Perché per un credente la preghiera è così importante? E per un non credente: esiste qualcosa di simile alla preghiera? Alle domande del teologo seguono le risposte entusiastiche dei presenti: «La preghiera è fede» dice uno dei musulmani, ricordando come essa stessa sia il secondo dei cinque pilastri dell’Islam. Per qualcun altro (detenuto musulmano) la preghiera è fondamentale perché «è la scuola dell’uomo, è quella voce interiore che gli impedisce di fare cose cattive», e quindi ha a che fare con il comportamento - osserva Mandreoli -; mentre completamente diversa è la posizione di un corsista ateo, per il quale pregare è connesso con il concetto di “appartenenza”: «Anche se sono ateo, penso che tutti come esseri umani apparteniamo a qualcosa».

Con un altro quesito utile per incoraggiare alla riflessione, Franco Pilati va più in profondità: che

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 43-46)