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Religioni e violenza

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 61-64)

16 in Asia, 9 in Europa, 7 in Medio Oriente e 7 nelle Americhe. In parallelo, procediamo poi con una lettura del racconto del primo omicidio, secondo la “storia sacra”: quello di Abele per mano di Caino (cfr. Genesi 4,1-16 nella versione biblica, sura 5,27-31 in quella coranica). Si tratta di un episodio che parla anche dell’oggi, spiega Maria Inglese, raccontandoci come nella sua professione le sia capitato spesso di incontrare storie in cui «la famiglia rappresenta il nodo centrale, perché da lì si parte e lì vi si ritorna sempre». La storia di Caino a Abele è come una metafora, aggiunge,

«per insegnarci a pensare a cosa succede in ciascuno di noi quando accade un fatto grave - come per esempio un conflitto con una persona a noi molto vicina - e a partire da questo, interrogarci sulle emozioni che subito trapelano, perché dietro i fatti ci sono sempre le emozioni. Alcune di esse però sono difficili da nominare e da affrontare: per esempio l’invidia, da cui spesso ci difendiamo pur di non ammettere di provarla. Ce ne sono altre difficili da accettare che vi vengono in mente?».

Alla domanda formulata in AS, i detenuti presenti, per la maggior parte di religione cristiana, non si attardano a rispondere. C’è chi nomina la rabbia, il risentimento, il rancore; e chi, facendo riferimento al sentimento provato da Caino, cita l’umiliazione, perché «quando ci sentiamo umiliati è come se non esistessimo più, come se venissimo calpestati»; qualcun’altro poi indica la delusione per qualcosa che non va come ci si aspettava; e chi infine la paura, perché «a volte si teme di essere attaccati e si attacca per primi, delusi e si delude, abbandonati e si abbandona». Per capire però quale sia la correlazione tra emozione e violenza, è interessante confrontare quanto fin qui emerso con quanto si è discusso durante l’incontro tenutosi in Area Pedagogica, al quale partecipavano anche detenuti musulmani e si trattava dello stesso tema. Maria Inglese ricorre al concetto di “trauma” (da greco rottura): tutto ciò che minaccia il nostro senso di vita «è un’esperienza che ci segna nell’animo». Alla richiesta di esprimere se si abbia avuto esperienza di simili eventi, segue una scia di testimonianze su traumi subiti (incidenti, parenti in difficoltà, violenze legate all’infanzia, perdite di amici cari, di famigliari, di compagni di cella) attraverso i quali i presenti aprono sé stessi e si raccontano gli uni agli altri. «Se volessimo fare un paragone - interviene alla fine la nostra ospite - anche quando si commette un reato (tutti i reati, anche quelli meno gravi) è come se si stesse rompendo un patto tra noi uomini. E a quel punto c’è bisogno di ricucirlo, perché altrimenti resta una ferita profonda, come quelle che avete appena raccontato».

Quando si parla di “patto” non può che balenare alla mente la famosa frase “Homo hominis lupus”:

con essa Thomas Hobbes descriveva la condizione dell’uomo nello stato di natura, cioè uno stato in cui non esiste alcuna legge e dove ciascun individuo, mosso dagli istinti innati, cerca il soddisfacimento dei propri desideri, anche a scapito di quanti lo circondano. Con questa teoria il filosofo ha proposto di pensare che l’uomo sia fondamentalmente malvagio. La sollecitazione non

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cade nel vuoto e qualcuno dei presenti in AS prende la parola offrendo al cerchio un’immagine poetica nella sua crudezza: «Da giovane mi sono ritrovato nella terra dei lupi, e sono dovuto diventare lupo anche io per non essere sbranato dagli altri». Dunque da dove viene la violenza, forse che quando nasciamo siamo già cattivi? «Nasciamo tutti uguali - risponde un corsista di AS - ma sono le condizioni sociali che determinano il carattere e le nostre scelte».

L’ultimo intervento ci porta ora su un’altra pista  importantissima, che ben si presta a un ragionamento con i presenti a partire dalla propria condizione di detenzione: la libertà di scelta e il ruolo positivo della religione nella riscoperta di valori assimilati fin dall’infanzia. Ci sono studi, spiega Maria Inglese in AP, che hanno dimostrato che «l’uomo non nasce violento, semmai è il comportamento che cambia e viene appreso a seconda del contesto in cui si vive». Ma la libertà di scelta è un’altra cosa, aggiunge: «Possiamo sempre scegliere come comportarci, imparando a riconnetterci con le parti interiorizzate che abitano in ciascuno di noi e che richiamano valori positivi». Quindi la religione aiuta a ritrovare la pace o è come «benzina sul fuoco»? Rispondendo alla nostra provocazione, qualcuno ammette che la religione lo sta aiutando perché «ho capito meglio i miei errori e ora sto facendo un percorso per richiedere il sacramento della comunione»

(detenuto cristiano), mentre per qualcun altro, in particolare un corsista arabo, la religione aiuta a seconda di come la si pratica. Ricompresi anche alla luce di quanto abbiamo descritto nel capitolo precedente, questi interventi enucleano tre tipologie di atteggiamento rispetto al religioso che, a seconda dell’individuo, vanno dal tentativo di ristabilire un ordine nella propria vita al bisogno di ri-connessione con sé stessi, fino a una più sostanziale esperienza di unità capace di rimettere l’uomo in comunicazione e apertura verso il mondo.

Ma attenzione: come la mettiamo con il tema della rieducazione? Spiazzante è infatti la domanda di un partecipante italiano in AS che, riferendosi alle emozioni negative nominate poco sopra, ammette: «Noi in carcere le viviamo tutti i giorni e tutte insieme. Quindi mi chiedo, una volta usciti e dopo quello che ci siamo portati addosso qui dentro, saremo ancora umani oppure animaleschi?».

A caduta seguono gli interventi dei presenti tra cui Antonio Iannello, Garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, da cui ricaviamo una lezione: l’obiettivo finale del carcere deve sempre rivolgersi all’essere umano nella società. Deve in pratica riuscire a riabilitare l’individuo, attraverso processi che favoriscano la sua crescita e il senso di responsabilità. E il ruolo dello Stato in tutto questo? Uno stimolo viene, in modo piuttosto sorprendente, dal Vangelo di Matteo (3,38-42), che leggiamo insieme al gruppo di AS, dove la maggioranza dei presenti è italiana e di religione cattolica. Ci soffermiamo a riflettere sull’insegnamento di Gesù a porgere l’altra guancia: sono parole che vogliono invitare alla riduzione del senso di vendetta, ma è possibile? «In

realtà ho sempre pensato che questo brano potesse valere per lo Stato - risponde Maria Inglese, presentandocelo in un’ottica diversa, universale e laica - ovvero: non reagire con violenza, non mettere altro dolore laddove è già presente.

Il carcere dovrebbe essere abitato da questa voce».

Una riflessione quest’ultima che richiama immediatamente un altro aspetto, quello della giustizia: come è possibile alla fine uscire dalla spirale di violenza che abbiamo agito e che ancora ci agita dentro? A lanciare quest’ultima sollecitazione è l’ospite di questo incontro, che parla di un senso di giustizia che ciascuno di noi ha in se stesso.

Quindi, avere affianco qualcuno che ci aiuti a ricordacelo e a rimetterci in connessione con quelle esperienze dell’infanzia in cui siamo stati amati è molto importante, specie nel carcere, per aiutarci a cogliere l’opportunità di cambiare e quindi uscire dalla rete di violenza che ci ha portati fin lì. «Abbiamo però bisogno di qualcuno che dia fiducia nelle nostre possibilità di ripartire e che ci dia gli strumenti per farlo: come la scuola, il lavoro e il personale del carcere, capace di avere uno sguardo umano e non giudicante».

Nel documento RELIGIONI PER LA CITTADINANZA (pagine 61-64)