Il tema prescelto dal Consiglio per questa nuova esperienza d’au-toformazione – “Le prove e le prognosi nel trattamento sanzionatorio” – è sembrato, alla luce di quanto sopra sottolineato, perfettamente con-gruente con l’obiettivo finale del laboratorio, poiché i concetti di “pro-gnosi” e di “prova” risultano d’ordinaria amministrazione sia per il pubblico ministero, sia per il giudice della cognizione, sia, infine, per il giudice che si occupa specificamente di determinare le concrete modalità d’esecuzione della pena detentiva (il magistrato di sorve-glianza). Ed, invero, il concetto di prognosi rinvia a quel processo logi-co-intuitivo che il giudice deve compiere, partendo da alcuni dati in suo possesso concernenti un determinato fatto-reato e la persona che ne è l’autore, al fine di valutare (prevedere) quale sarà il suo compor-tamento futuro nel contesto sociale di riferimento. Esempi tipici di giudizi prognostici sono quelli che compie il pubblico ministero quan-do valuta le esigenze cautelari indicate nell’art. 274 lett. c) c.p.p., al fine di determinare il proprio operato verso la richiesta o meno di una misura custodiale. E come non ricordare la valutazione che deve com-piere il giudice della cognizione quando, avuto riguardo ai criteri indi-cati nell’art. 133 c.p., dispone la sospensione condizionale della pena inflitta nei limite di due anni, presumendo che il colpevole si asterrà dal commettere ulteriori reati? Un’operazione di tipo intuitivo è anche
richiesta alla magistratura di sorveglianza che, sulla base di conoscen-ze tecnico-professionali che derivano dall’analisi dell’impianto norma-tivo predisposto per le misure alternative alla detenzione, perviene alla formulazione di un giudizio che si fonda su valutazioni essenzialmen-te soggettive collegaessenzialmen-te come sono alla conoscenza dell’uomo condan-nato ed alla osservazione della sua eventuale trasformazione.
Il tema, come appare evidente, investe direttamente la categoria della discrezionalità e del suo esercizio che è argomento trasversale a tutte le funzioni giurisdizionali. Né può sfuggire la particolare valenza che assume la discrezionalità nell’ambito della fase del giudizio riser-vata alla determinazione ed alla esecuzione del trattamento sanziona-torio. In tema d’applicazione della pena non sembra possibile, invero, dare ingresso a trattamenti sanzionatori matematicamente commisu-rati su una figura astratta di colpevole, non potendosi assolutamente prescindere dalle condizioni e dalle circostanze del reato, dalla perso-nalità del suo autore e, in definitiva, dal fattore umano che permea di sé l’esercizio concreto della giurisdizione penale, dalla fase cautelare a quella d’esecuzione della pena.
L’argomento delle prove nella determinazione ed esecuzione del trattamento sanzionatorio, d’altra parte, rinvia al concetto, già ogget-to di uno specifico approfondimenogget-to da parte del Consiglio nell’incon-tro di studio su “Modelli e dinamiche del processo e della pena” (Roma, 15/18 gennaio 2001) di incremento, dispersione e circolazione delle informazioni nelle diverse fasi processuali in una prospettiva di ricer-ca di una sempre maggiore cooperazione istituzionale. Le informazio-ni più rilevanti sulle caratteristiche del fatto-reato e sulla persona del colpevole (da quelle concernenti lo stato di tossicodipendenza alle condizioni di salute o di disagio mentale, dagli eventuali collegamenti con la criminalità organizzata alla questione della esatta identificazio-ne del soggetto autore di reati fin dalla fase delle indagini preliminari) sono state oggetto d’attenta disamina da parte dei partecipanti al cor-so opportunamente riuniti in uno specifico gruppo di lavoro. Partico-lare attenzione è stata dedicata in quella sede all’analisi dei principali veicoli di trasmissione delle informazioni, sottolineandosi, da più par-ti, l’insufficienza dei tradizionali strumenti di conoscenza offerti al giudice della fase successiva (motivazione della sentenza di condanna e, successivamente, estratto esecutivo), soprattutto per quanto riguar-da le informazioni più strettamente attinenti alla personalità del con-dannato in relazione alla individuazione delle più adeguate modalità esecutive della pena inflitta. Nell’auspicio di un ampliamento degli strumenti cognitivi a disposizione del giudice (posizioni giuridiche,
relazioni dei Centri di Servizio Sociale, atti contenuti nei fascicoli del Tribunale e dell’Ufficio di sorveglianza, istituzione di sezioni di polizia giudiziaria incaricate di fornire dettagliate informazioni sulla perso-nalità dell’autore del reato), si è anche prospettata l’istituzione di una scheda personale che contenga i dati di sintesi di ciascun condannato, destinata ad essere arricchita progressivamente delle informazioni ac-quisite in ogni diversa fase processuale, da far confluire al termine del percorso, con il passaggio in giudicato della sentenza, nel fascicolo della esecuzione gestito dal pubblico ministero ed, eventualmente, nel-l’incarto procedimentale da trasmettere alla magistratura di sorve-glianza.
Il tema della prova nell’ambito del trattamento sanzionatorio si presta, in secondo luogo, ad un’ulteriore riflessione che non può non partire dal nuovo punto di riferimento costituito dal comma 4 dell’art.
111 della Costituzione, secondo il quale“il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova”. La for-mulazione deve ritenersi limitata al processo di cognizione, che ha per oggetto l’accertamento di un fatto-reato e l’individuazione del suo au-tore, ovvero deve intendersi riferita anche al procedimento d’esecu-zione e, quindi alla fase di competenza della magistratura di sorve-glianza? Non si può dimenticare, in proposito, come l’art. 187 comma 2 c.p.p. indichi tra gli oggetti della prova “i fatti che si riferiscono all’imputazione, alla punibilità e alla determinazione della pena o della misura di sicurezza”. Appare utile, pertanto, una riflessione che aiuti l’interprete a comprendere se nel concetto di determinazione debba farsi riferimento anche alla individuazione qualitativa della pena e se il concetto così espresso implichi o meno un diretto riferimento alle funzioni demandate alla magistratura di sorveglianza in tema d’indi-viduazione del concreto trattamento sanzionatorio applicabile a cia-scun condannato.
L’analisi non potrà non muovere, del resto, da un’attenta ricostru-zione normativa nella parte in cui sembra assicurare il rispetto del principio del contraddittorio nelle materie riservate alla competenza della sorveglianza, quantomeno a livello d’enunciazione teorica. L’art.
666 comma 5 c.p.p., infatti, dopo aver disposto che il giudice può chie-dere alle autorità competenti tutti i documenti e le informazioni di cui abbia bisogno, aggiunge che “se occorre assumere prove, il giudice pro-cede in udienza nel rispetto del contraddittorio”. L’ulteriore rinvio ope-rato all’art. 185 disp. att. c.p.p. chiarisce che in tali ipotesi il giudice procede, senza particolari formalità, anche per quanto concerne la citazione e l’esame dei testimoni e l’espletamento della perizia.
L’adeguato rilievo che occorre dare ai principi del c.d giusto pro-cesso, introdotti nel nostro ordinamento con la riforma costituzionale dell’art. 111 Cost., non deve, tuttavia, far dimenticare che l’oggetto del giudizio di competenza della magistratura di sorveglianza è la valuta-zione delle trasformazioni in atto nelle persone condannate, al fine di consentire alla pena di svolgere la funzione assegnatagli dalla Costitu-zione, a fronte della immutabilità del fatto-reato commesso dal con-dannato. Tenendo ben distinte le predette situazioni, appare, quindi, difficile ipotizzare che la trasformazione di una persona sia valutata con le stesse modalità procedimentali con le quali è giudicato il fatto-reato. Tale fondamentale differenza sembra, del resto, recepita dal legislatore che, con la previsione dell’art. 70 comma 6 dell’ordinamen-to penitenziario in tema di formazione del collegio del tribunale di sorveglianza (“uno dei magistrati ordinari deve essere il magistrato di sorveglianza sotto la cui giurisdizione è posto il condannato in ordine alla cui posizione si deve provvedere”), ha inteso privilegiare il valore della conoscenza diretta del condannato da parte del magistrato inca-ricato della valutazione, piuttosto che il requisito della sua totale estraneità rispetto all’oggetto della decisione.